domenica 3 febbraio 2013

Il piccolo popolo delle Janas (leggende di Tonara)

II popolo delle janas 

(tratto da Fiabe Sarde di Francesco ENNA - Introduzione S. Mannuzzu . Oscar Mondadori, 1991, pag. 71-74)
II popolo delle janas viveva sui fianchi delle collina, dentro piccole case scavate nella roccia: le domus de ianas che ancora esistono a centinaia e migliaia, sparse in tutta la Sardegna.
Non erano ne fate ne streghe, ed erano l'una e I'altra cosa assieme. Erano donnine piccole come uccelli di campo e, comunque, non più alte di un palmo. Belle come la luna, uscivano dalle loro grotte soltanto di notte, per paura che il sole bruciasse la loro pelle delicata.
Erano venute da paesi lontani e misteriosi, portandosi appresso immense ricchezze.
Avevano unghie lunghissime d'acciaio, con cui scavavano le loro casette nella viva roccia; ma avevano anche dita cosi sottili e delicate che potevano ferirsi a strappare una foglia di prezzemolo.
Trascorrevano l'intera giornata a tessere e a ricamare abiti preziosi di lino e di broccato, trapuntati con fili d'art e d'argento. E mentre tessevano, cantavano con voce meravigliosa, che incantava.
Non uscivano quasi mai dalle loro domus, dove gli oggetti e le suppellettili avevano le giuste misure per la logo stature, e solo raramente socializzavano con gli uomini.
Le janas di Mantoe, presso Pozzomaggiore, vo­lavano silenziose dentro le case del paese, attraverso le piccole fessure o le finestrelle semiaperte e curiosavano tra la gente addormentata.
Se qualche essere umano gli piaceva lo chiamavano bisbigliando il suo nome per tre volte.
E se la persona prescelta si svegliava, la invitavano a serguirle fino alle loro casette tra le rocce rischiarando la via con i loro corpicini luminescenti.





Dentro le case mostravano agli ospiti fortunati immensi tesori che suscitavano stupore e cupidigia.
Ma gli uomini non sapevano che tutte quelle meravigliose ricchezze non potevano essere mostrate davanti alle Janas ( che ne erano gelosissime) perchè immediatamente oro e gioielli si trasformavano in cenere e carbone. Nessuno sapeva - perchè esse non parlavano -che per impossessarsi del tesoro delle Janas occorreva ritornare nelle minuscole casette sulle colline in pieno giorno, con in mano un rosario benedetto.
Per questa ragione a Pozzomaggiore nessuno diventò mai ricco.
Ma guai a tentare di derubare le janas con la forza e con l'astuzia.
Ecco che cosa accadde un giorno a un giovanotto che tentò di portar via un prezioso scialle tessuto con fili d'oro che le fatine di Funtana Pinta, nei pressi di Siligo, avevano steso all'aria ad asciugare.
Silenzioso come una volpe il giovane si avvicinò alle rocce su cui stava steso lo scialle e con un velocissimo colpo di mano lo afferrò, precipitandosi subito dopo lungo il pendio e correndo a perdifiato fino al luogo in cui aveva lasciato il suo cavallo.
Ma le janas lo aspettavano proprio in quel punto e lo attaccarono furiose come uno sciame di vespe impazzite. L'uomo riuscì ugualmente a rimontare a cavallo e a partire al galoppo, ma le minuscole streghe si attaccarono all'animale e lo pungolarono con ferocia fino a imbizzarrire.
Cosi il cavallo disarcionò il suo padrone, che si trovò a tu per tu con gli occhietti luccicanti delle donnine delle colline. Erano occhi terribili, che gli esseri umani non erano in grado di fissare a lungo, perché si trasformavano in statue di pietra.
E cosi infatti avvenne: l'incauto giovanotto fu pietrificato all'istante e non poté raccontare a nessuno la sua impresa.
Ma ben più terribile era la sorte di chi si imbatteva nelle malas janas di Tonara.
Costoro stendevano sotto le loro grotte un bellissimo velo bianco che ricopriva l'intera pianura.
L'ignaro viandante che si trovava da quelle parti restava inesorabilmente abbagliato da tanto splendore e come invischiato in un incantesimo mortale.
Allora il poveretto veniva catturato da un nugolo di nani malefici che lo ficcavano in una grande buca sul terreno, assieme ad altre vittime.
E qui a questo punto giungeva la jana maista che succhiava loro tutto il sangue. E una volta tasi di sangue umano, la jana regina volava rinchiudendosi per per tre giorni in una grotta, dove partoriva altre minuscole janas.
Per fortuna le malas janas di Tonara si estinsero molto presto, perchè rimpicciolirono sempre di più, fino a confondersi con i vermi della terra.
Le altre fate, invece, durarono più a lungo e vissero in pace e in armonia con gli esseri umani, almeno fino all'epoca in cui arrivarono in Sardegna i pisani.
Erano tempi in cui it mondo non conosceva ne malizia ne cupidigia.
Le janas che vivevano sul Monte Manai, vicino a Macomer, nei giorni di festa scendevano addi­rittura in un sito chiamato Sa Rucchita per bal­lare con la gente del paese.
E siccome erano bellissime  gli uomini le invitavano spesso a entrare nel ballo in tondo, in su ballu tundu, il cui grande cerchio danzante occupava quasi tutta la piazzetta.
Un giorno una jana di nome Giula entro nel ballo e si scatenò al ritmo delle launeddas,  passando dall'uno all'altro ballerino leggera e felice come una farfalla.
Ma a un tratto Giula senti il richiamo delle sue compagne che, dall'alto delle domus, la metteva­no in guardia:



Giula, Giulitta,
sos buttones ti chirca.
Giula, Giunone,
chircadi sos buttones

La danza cesso di colpo. Giula guardò allora il suo corpetto di velluto e si accorse che i bottoni d'oro filigranato erano misteriosanante spariti: qualcuno li aveva rubati.
In quel momento le janas capirono che l'avidità e la malizia erano purtroppo apparse anche tra la buona gente di Sardegna e decisero perciò di sparire per sempre, abbandonando le loro minuscole case sulle colline, che ancora occhieggiano come finestrelle aperte su un mondo misterioso e ormai perduto.