lunedì 29 settembre 2008

Storia di Tonara: la ferrovia, la stazione di Monte Corte, su pont'e su Samuccu. Tonara fine '800.




Il Retablo dell’Assunzione della Vergine e il Retablo della Passione di Cristo due inediti del maestro di Tonara di Gian Gabriele Cau



(articolo inviatoci da Gian Gabriele Cau al nostro indirizzo di posta elettronica)
Al modesto corpus delle opere del Maestro di Tonara sin qui rappresentato dalle tavole del Retablo di S. Anastasìa è possibile associare oggi un secondo polittico in legno di castagno, il Retablo dell’Assunzione della Vergine, e un terzo, il Retablo della Passione, in castagno e abete. I due retabli, entrambi smembrati, mutilati e in parte dispersi, provengono da Oliena, dall’ex parrocchiale di S. Maria Assunta.
Nel 1947, con il nulla osta dell’allora parroco canonico Pietro Bisi, l’Ancona dell’Assunzione fu pietosamente raccolta, quando giaceva in totale abbandono in una sorta di legnaia all’aperto, presso la nuova chiesa madre di S. Ignazio di Lodola. Nel nucleo di tavole superstiti, pertinenti al retablo si annovera una Passione di Cristo, un frammento di una Annunciazione, parte di una Assunzione di Maria Vergine e di una Incredulità di S. Tommaso. Lo smembramento del retablo sarebbe da collocarsi in anni successivi alla visita che Georgiana Goddard King compì ad Oliena prima del 1923, quando pubblicò i risultati di una ricerca sulla pittura in Sardegna tra Quattrocento e Cinquecento.
In quella occasione la studiosa americana osservava che nel paese «si conserva ancora un numero impressionante di dipinti» per l’indigenza dei suoi abitanti impossibilitati ad aggiornarsi al gusto corrente del xvii secolo.
Il Retablo dell’Assunta era strutturato secondo un poco comune schema architettonico di matrice tardogotica sarda-catalana, accostabile a quello superstite del Retablo di S. Giacomo maggiore di Ittireddu e – si crede – a quello di S. Anastasìa di Tonara, caratterizzati da un trittico con tavole sfalsate di differenti dimensioni, sormontato da una cimasa. Al centro, tra una Annunciazione a sinistra (della quale si conserva solo un frammento con il volto dell’Angelo e parte dell’Annunciata) e una Incredulità di S. Tommasoa destra del riguardante (della quale avanza oggi la figura del santo apostolo), era l’Assunzione della Vergine. Nella cimasa, in linea col compartiment, sovrastava la Passione di Cristo. Nessuna memoria della predella (verosimilmente composta di un numero dispari di elementi, forse cinque) e del canonico polvarolo che impreziosiva e riparava il retablo dalla polvere.
Spezzata l’unitarietà dell’ancona, le singole tavole erano state sommariamente “bonificate”, forse per un culto particolare, segando le parti ritenute allora insanabili. In queste condizioni compaiono nella relazione del 14 maggio 1947 del restauratore Riccardo De Bacci Venuti, che stende un preventivo per un intervento da effettuarsi privatamente sotto la sua direzione. Gravissime lesioni mostrava la tavola della Passione di Cristo mutila degli angoli inferiori e quella dell’Incredulità di S. Tommaso dimezzata in senso longitudinale al punto quasi da compromettere la lettura e l’identificazione dello stesso brano pittorico. Quasi tutti gli scomparti presentavano spaccature e contorsioni del supporto, con numerosi sollevamenti della crosta pittorica, caduta delle imprimiture e generale inscurimento per l’ossidazione delle vecchie vernici. I dipinti trasferiti a Cagliari per l’intervento proposto dal De Bacci Venuti furono restituiti al nuovo proprietario con una sorta di expertise del restauratore, che ne proponeva l’attribuzione ad un pittore sardo, appartenente alla Scuola di Michele Cavaro.
A metà degli anni Novanta, la Passione di Cristo, in esecuzione di una volontà testamentaria del nuorese don Graziano Guiso Gallisay, fu donata alle Suore Carmelitane Scalze di Nuoro, in occasione del loro trasferimento nel nuovo convento “Mater Salvatoris”. Lo stesso architetto francese Savin Coüelle progettista del monastero di colle Cuccullìo si interessò del suo restauro, concluso a Roma nel 2003 dopo un iter affatto breve, durante il quale la tavola ha rischiato di essere dispersa. Dal 2005 questa sola tavola ha trovato collocazione in una nicchia, sulla parete sinistra della cappella conventuale.
L’impianto compositivo della Passione di Cristo (cm 106,5 x cm 87) ricalca in certa misura quello dell’analogo soggetto del Retablo di Tonara. La scena è dominata dalla imponente figura di un Cristo iconograficamente dipendente dal modello ligneo oristanese, di dimensioni maggiori di quello già grande del Retablo di S. Anastasìa, che si staglia su di un cielo crepuscolare, segnato da basse nubi globulari. Il Crocifisso, l’unica figura nella quale si ravvisi una maniera visibilmente più colta e raffinata, rimanda direttamente a quello realizzato nel 1518 da Pietro Cavaro per la Crocifissione del Retablo di Villamar. Da questo derivano il nimbo in foglia d’oro lavorata a bulino con tre raggi rossi a “T”, la postura degli arti inferiori flessi ad angolo retto e il particolarissimo nodo che cinge il perizoma al fianco sinistro. Di suo il Maestro disegna un fiotto di sangue che fuoriesce dal costato con un vigore che non ha raffronti nella pittura sarda del Cinquecento, ma ben rappresentato in numerosi Crocifissi del Duecento e del Trecento di Scuola Umbro-Toscana, che segna in lunghi rivoli il perizoma, secondo un modello comune a tutte le Crocifissioni di Lorenzo Cavaro (si vedano i Retabli di Gonnostramatza, di Giorgino e di Sinnai). Un reiterato rinvio ai maestri di Stampace, pur nella consapevolezza che – è il ginocchio sinistro coperto a rivelarlo – questi stessi tratti siano del tutto estranei al Crocifisso ligneo, detto di Nicodemo di Oristano, preciso riferimento iconografico isolano di quasi tutte le Crocifissioni, per tutto il xvi secolo.
Il sangue che fuoriesce dal costato e scorre su di un perizoma ancora annodato al fianco sinistro, il singolare disegno degli addominali con un solco tangente l’ombelico a delineare una singolare lettera “P”, la robusta corona di spine e il cartiglio con eguali segni romboidali tra i caratteri inducono, fondatamente, a credere che il Cristo sia opera dello stesso artefice del Crocifisso dell’omonima tavola del Retablo di Tonara. La ricchezza plastica del panneggio del perizoma, la levigatezza del modellato del torace, il volto del Salvatore così denso di sfumature ma soprattutto un uso più sapiente dell’effetto chiaroscurale e una maggiore conoscenza delle regole prospettiche dichiarano un affinamento e un percorso artistico successivo all’esperienza tonarese, ipotizzabile sul volgere degli anni Novanta del xvi secolo o, più probabilmente, agli albori del secolo successivo. Di sicuro interesse è il labbro superiore del Cristo insolitamente pressoché glabro, dal sapore vagamente peruginesco, incorniciato dal disegno di una barba memore di quella del Crocifisso del Retablo di S. Elena di Benetutti, mentre la bocca è serrata in una espressione serena di straordinaria efficacia, quasi che il Redentore fosse assopito.
Con geometrica precisione l’asse verticale della croce del dipinto di Oliena interseca la bassa linea dell’orizzonte a metà della tavola, ripartendola in quadranti uguali. La costruzione nel suo insieme è decisamente priva di equilibro: eccessivamente affollata nella parte sinistra (del riguardante), vuota, al limite dell’opprimente nel lato destro. Al piede della croce, in primissimo piano, è una Maddalena clone perfetto di quella del Retablo di S. Anastasìa. Alle sue spalle un improbabile S. Giovanni asciuga dalle lacrime l’occhio sinistro (lontana citazione dal Retablo di N. S. Loreto del Maestro di Ozieri), mentre con una seconda mano destra [sic!] conforta una Vergine straniata e attonita, irradiata da un nimbo perfettamente circolare, in visibile disaccordo con quelli scorciati di Giovanni e della Maddalena. E se ciò non bastasse di per sé a suscitare quantomeno stupore, il piede destro del Cristo, per una incredibile, imperdonabile disattenzione del restauratore (il De Bacci Venuti o un secondo tecnico intervenuto nel nuovo intervento degli anni Novanta?), ha l’alluce rivolto innaturalmente all’esterno, come il sinistro.
In secondo piano, sul crinale di un poggio è la stessa figura che nella omonima tavola di Tonara, in prossimità della Gerusalemme, stringe un grosso orcio sotto il braccio. Il riferimento è all’episodio evangelico sui Preparativi della Pasqua che, col tradimento di Giuda, segnerà l’inizio di quella Passione che nella stessa crocifissione del Cristo raggiungerà il suo apice. Potrebbero, invece, alludere all’Arresto di Gesù quei soldati attigui, pressoché identici nella postura e nell’atteggiamento agli stessi dell’omonimo brano della Passione di Cristo di Tonara.
Conferma della diretta e inequivocabile derivazione di entrambi gli episodi dalla Passione di Cristo, cimasa del Retablo di S. Elena attribuito ad Andrea Sanna, è la palmare citazione anche di quel personaggio che, appena occultato dal declivio di un poggio in controluce – pedissequa, si oserebbe dire “sovrapponibile”, la derivazione dal Retablo di Benetutti anche nella sua raffigurazione all’altezza del ginocchio destro del Crocifisso – indica lo svolgersi di quegli eventi, con l’evidentissimo intento di potenziare il significato della narrazione. La particolarità del prestito iconografico permette di individuare un preciso termine post quem nel 1585, data della consacrazione del Retablo di S. Elena, per la realizzazione del Retablo dell’Assunzione di Maria.
Nell’ultimo quadrante in basso a destra è un soldato romano, di spalle. Potrebbe essere Longino ma è privo di quella lancia con cui trafisse il costato del Cristo, forse cancellata da una incolmabile, vasta lacuna della crosta e dello stesso supporto pittorico. Il ripetuto rimando, e nel Retablo di Tonara e in questo di Oliena, a due particolarissimi brani pittorici, esclusivi della tavola della Passione del Cristo del Retablo di S. Elena dichiarano una dipendenza da Andrea Sanna, che presuppone una profonda conoscenza delle sue opere e una straordinaria ammirazione per le originali invenzioni del Maestro di Ozieri.
Nell’analisi del polittico si privilegia un ordine di lettura in senso orizzontale, da sinistra a destra del riguardante. In questa logica sequenziale l’Annunciazione, con l’incarnazione del Verbo, segna il momento dell’ingresso della Vergine in quella storia della cristianità che giunge a compimento nella tavola dell’Assunzione, nella quale Maria incontra S. Tommaso protagonista dell’ultimo scomparto.
Il frammento dell’Annunciazione (cm 27 x cm 29), presumibilmente in legno di castagno, non compare nel preventivo di restauro del 1947. Forse la dimensione e la qualità pittorica decisamente modeste, se rapportate con altre tavole, indussero a non computare un intervento di restauro meno impegnativo, comunque, portato a compimento. Nella parte superstite si osserva il profilo del volto dell’Angelo e parte delle ali scalate in una ampia gamma di toni rosa, non dissimili da quelle dello stesso soggetto del Retablo dell’Assunta di Barumini attribuito ad Antioco Mainas. Nella sezione superiore destra è una piccola porzione del volto assai affilato della Vergine, ammantato di un drappo celeste con bordatura in foglia d’oro. Sullo sfondo è il morbido panneggio di una cortina verde cupo. Nel tenue tono celeste della tunica dell’angelo e nella costruzione della scena, con il volto della Annunciata più in alto di quello del S. Gabriele, entrambi presumibilmente genuflessi, si coglie una lontana, vaga eco dell’omonimo soggetto del Retablo di S. Maria degli Angeli di Bortigali del Maestro di Ozieri. Il dettaglio dei capelli del Nunzio di Dio, rimandano direttamente a quelli tirati indietro di alcuni apostoli della tavola dell’Assunzione, lasciando intendere l’opera di uno stesso artefice certamente meno talentoso del maestro, probabilmente un aiuto di bottega, cui fu delegata l’esecuzione di taluni dettagli della Passione di Cristo (il volto della Maddalena al piede della croce p.es.) e del Giudizio Universale del Retablo di S. Anastasìa di Tonara.
Il compartiment dell’Assunzione della Vergine misura oggi cm 74 x 69, ma si ritiene che, nel rispetto di una sintassi architettonica consolidata, fosse in origine della stessa larghezza del soprastante cimal (cm 87). Il sarcofago appena visibile e gli stessi apostoli, in gran parte a mezza figura, presupporrebbero un ridimensionamento forse anche in altezza. Nella santa eponima dell’altare e della stessa chiesa si intravedono alcune dirette derivazioni dalla anonima stampa del Maestro del Dado utilizzata dal Maestro di Ozieri nel Retablo di Bortigali (in particolare le posture dei tre personaggi sulla destra della tavola) e una vaga citazione (la testa d’angelo ai piedi di Maria e l’alveo del sarcofago) dalla incisione dell’Assunzione della Vergine di Cherubino Alberti datata 1571. Di suo l’artefice inserisce le figure di un Cristo glorificante ma sproporzionato, forse anche in questo caso a significare il divario di una dimensione divina, e di un S. Tommaso nell’atto di cogliere la cintura della Vergine. Il brano – un unicum nella storia della pittura del Cinquecento in Sardegna – è tratto dalla Legenda Aurea, la stessa che ispirò il Maestro di Ozieri per taluni episodi del Retablo di Benetutti. Dopo la morte della Madonna – secondo il racconto di Jacopo da Varagine – Gesù stesso fece porre il suo corpo in un sepolcro, poi, dopo tre giorni, lo riunì all'anima e l'accolse in cielo. La cintura di Maria cadde, ancora stretta, nelle mani di Tommaso; secondo alcuni, come segno di particolare predilezione, secondo altri, per vincere la sua incredulità.
Il disordinato divincolarsi degli apostoli appare del tutto inadeguato a descrivere la solennità del momento. Per rimarcare l’episodio della donazione della cintura, l’artefice offre maggiore visibilità all’apostolo, staccandolo dal gruppo dei dodici per concedergli l’onore della centralità, al cospetto di Maria. L’esito è quantomeno dubbio: la Vergine pare più protesa a discendere in una piccola valle per incontrare Tommaso, che ad innalzarsi per ascendere ad un luminoso cielo ancora distinto da nubi globulari.
Soggetto insolito nei repertori iconografici isolani del xvi secolo è l’Incredulità di S. Tommaso, di cui è nota solo un’altra tavola nella quadreria del Museo Sanna di Sassari, riconducibile alla Scuola Sassarese della seconda metà del Cinquecento, forse a Giacomo Corsetto. Questa di Oliena, per quanto mutila, manifesta pochi, chiari elementi per l’identificazione del brano rappresentato. La figura eretta di un santo si staglia su di un luminoso cielo di un giallo aurorale, che rievoca quello ben più saturo dell’Arcangelo S. Michele del Retablo di Tonara e riprende talune atmosfere care allo stesso Francesco Pinna per le quali il retablo, in via ipotetica, fu assegnato dalla Goddard King al maestro algherese, sebbene la stessa ricercatrice ne riconoscesse una qualità più elevata nel Retablo dell’Assunzione. Per un principio di simmetria bilaterale si deve presumere che la larghezza della tavola, oggi ridotta a 38 cm, dovette in origine essere uguale a quella del corrispondente pannello della Annunciazione, ipotizzabile, quindi, in una misura quasi doppia di quella residua. In basso, sulla destra, sono gli emblemi della squadra e del cuneo spaccasassi che, con il libro sul braccio destro, sono gli attributi di S. Tommaso, patrono, tra gli altri, dei geometri, dei muratori e dei tagliapietre. L’improbabile ombra tra i due piedi palesa un pentimento nella postura o nel numero delle dita. La cancellazione di quello che sembrerebbe configurarsi come un secondo alluce sortisce l’effetto di un piede affetto da valgismo. Questo che potrebbe apparire come un errore se non proprio una bizzarria dell’artefice, rientrerebbe nei ranghi di una consuetudine rinascimentale affatto rara, che portò molti pittori anche di chiarissima fama a potenziare gli arti, generalmente quelli inferiori, con analoghe soluzioni (in genere sei dita per piede), per dare maggiore fisicità e presenza al soggetto ritratto. Tra gli esempi culturalmente più prossimi si ricordano, Nel Capo di Cagliari la S. Apollonia de Retablo del Santo Cristo di Pietro Cavaro e gli evangelisti della predella predella del Retablo di Suelli per la quale si è proposta l’attribuzione ad Antioco Mainas; nel Capo di Logudoro, il Cristo deposto nel Discendimento della Croce del Maestro di Ozieri e i SS. Giacomo e Filippo nel Retablo di S. Giacomo di un suo seguace, l’anonimo Maestro di Ittireddu.
Alla sinistra di Tommaso era il Cristo, di cui si intravede ancora la mano che invita l’incredulo a porre le dita nel Suo costato. Singolare la costruzione della scena nella quale la figura del Risorto è simmetrica, quasi speculare, si oserebbe dire, a quell’apostolo che nel nome (“Töma” in Aramaico, “Didimo” in greco) significa “gemello”, perché molto simile, secondo tradizione, al Salvatore e per questa ragione, confuso dal canonico Sale con S. Gimignano. Il modello iconografico che prevede l’accostamento di due figure erette di santi nelle tavole maggiori di un politico ha pochi riscontri nella pittura sarda del Cinquecento: nei Retabli di S. Anna di Sanluri, del Giudizio Universale del Maestro di Olzai, di Sinnai di Lorenzo Cavaro e di S. Saturno di Francesco Pinna, dai quali il Maestro di Tonara ha tratto ripetuti prestiti. Tra i due personaggi è un oscuro oggetto, forse, una cinghia (di cui pare di intravedere la fibula), quella stessa raccolta dal santo nella tavola dell'Assunzione della Vergine. In lontananza è Gerusalemme con la stessa architettura, scandita da palazzi con coperture spioventi e torrioni dalle strette finestrelle, quasi delle feritoie, della tavola della Passione di Cristo. Ancora oltre, sulla linea dell’orizzonte, sono alcuni alberi memori di quelle latifoglie dello sfondo della Madonna della Consolazione attribuita a Michele Cavaro.
Le lunghe e fini ciocche della capigliatura, il volto incorniciato da una leggera barba che lascia scoperto il labbro superiore, gli zigomi alti e pieni rimandano direttamente al volto del Crocifisso di questo retablo. Che il dato possa costituire un elemento identificativo di talune fisionomie del Maestro di Tonara è, tuttavia, vanificato dalla ovvietà che il discepolo secondo tradizione fosse simile a Cristo. Altri particolari, quali gli alluci più piccoli delle altre dita e il particolarissimo gomito spigoloso rievocano quelli del S. Michele del Retablo di Tonara, stabilendo di fatto una continuità stilistica ma anche una chiara maturazione nel segno di un maggiore equilibrio cromatico in una tavola – questa dell’Incredulità di S. Tommaso – nella quale il Maestro raggiunge i massimi vertici della sua arte espressiva.
Di grande interesse è il nimbo del santo che trae taluni decori dal repertorio della tradizione incisoria delle cassapanche sarde, della tipologia di Aritzo o Barbaricina. Specificamente, nell’ordine concentrico esterno, sottostante una semplice cornicetta a cerchielli, si rileva un zigzag segnato da quattro segmenti paralleli, scandito da un cerchiello maggiore e due minori disposti a triangolo, proprio della cornice (su ziru) del campo centrale (sa mustra) delle cassapanche di Aritzo o Barbaricine. Nell’ordine interno è il comunissimo motivo della “fava”, una baccellatura a ventaglio, identica a quella del nimbo della Madonna di Montserrat. La traslazione di motivi tradizionali della Barbagia dichiara la collaborazione di maestri della doratura locali, molto probabilmente gli stessi che si adoperarono per il nimbo della Vergine di Montserrat, di antica pertinenza della stessa ex parrocchiale olianese.
Sono almeno due i pittori impegnati nella realizzazione del Retablo dell’Assunta. Alla mano del maestro va sicuramente riconosciuta l’Incredulità di S. Tommaso e, in larga parte, la Passione di Cristo. Il resto è opera di un aiuto di bottega, la cui capacità artistica non è accostabile a quella dell’anonimo tardomanierista. La documentazione della sua attività esclusivamente a Tonara e Oliena e l’utilizzo prevalente di tavole in castagno proprie delle Barbagie, indurrebbe a credere che il Maestro possa avere avuto bottega in un centro del Nuorese.
Su un substrato prevalentemente stampacino si innestano reminiscenze perugine, citazioni dai capolavori del Maestro di Ozieri e di Francesco Pinna, sapientemente amalgamate con soluzioni originalissime, non ultima quella dei decori delle cassapanche sarde. Quello che emerge è, insomma, il ritratto di un personaggio colto che rammenta, nell’origine e nella formazione, quel Giovanni Paolo Pau nativo di Nuoro ma residente a Cagliari, il quale nell’aprile 1598 si incarta per un periodo di sei anni presso la bottega di Francesco Pinna nel quartiere di Lappola a Cagliari. Ed è quantomeno singolare che talune tangenze con il maestro algherese, già poste in evidenza dalla Goddard King al punto da spingerla ad ipotizzare l’attribuzione del Retablo del’Assunta allo stesso Pinna, trovino in questo saggio ulteriori, molteplici e inquietanti elementi di riscontro e di riflessione.
Tra gli elementi dei polittici abbandonati nel 1947 nel cortile adiacente la parrocchiale di S. Ignazio in Oliena furono rinvenute altre tre tavole, presumibilmente appartenute ad uno stesso retablo, anch’esso attribuibile al Maestro di Tonara. In queste si crede di riconoscere quelle descritte nel 1931 da Mauro Sale in Appunti di arte sacra della Diocesi di Nuoro come afferenti ad un polittico già nella chiesa di S. Maria Assunta, a lui noto nella sua integrità sin dal 1900. Il canonico dorgalese, dopo avere sommariamente descritto il Retablo del S. Cristoforo del Maestro di Oliena, il Retablo di S. Sebastiano attribuito al Maestro di Ozieri e quello di S. Gimignano qui riconosciuto in quello dell’Assunzione della Vergine del Maestro di Tonara, rende testimonianza di un solo, altro polittico smembrato dai ladri “verso il 1904”, le cui tavole furono in massima parte “vendute a qualche furbo antiquario”. Quelle poche scampate al furto si suppone – per esclusione – possano identificarsi in queste tre in esame. Sorprende che tra i quattro retabli l’attenzione dei saccheggiatori si sia rivolta verso quelle tavole presumibilmente di minore valore artistico, almeno se rapportate a quelle pervenute. La contraddizione potrebbe giustificarsi (oltre che nell’assenza di adeguati strumenti culturali nei malviventi) in un probabile, migliore stato di conservazione delle tavole trafugate. Queste rinvenute nel cortile parrocchiale, nel bene e nel male condivisero, nel secolo scorso, lo stesso destino delle tavole superstiti del Retablo dell’Assunzione della Vergine e del Retablo di S. Sebastiano, fino a confluire, in ultimo, in una stessa collezione privata, romana.
Dei tre quadri, una tavola in castagno raffigurante Gesù davanti ad Erode (cm 100 x 69) e due elementi di predella in abete – un Angelo annunziante (cm 39 x 30 circa) e un S. Cristoforo (cm 47 x 30 circa) – solo le prime due compaiono nel preventivo di restauro del De Bacci Venuti; della terza inspiegabilmente non è fatta menzione. La eterogeneità dei supporti non inficia la possibilità di ricondurre i tre dipinti ad olio ad uno stesso polittico. La testimonianza della derivazione da un solo retablo resa dal Sale sembrerebbe confermata da una maniera riferibile, quantomeno, ad uno stesso ambito, se non proprio, in taluni elementi, ad un solo artefice culturalmente e tecnicamente più dotato, nel quale si riconosce, ancora una volta, il Maestro di Tonara.
La sopravvivenza di una sola tavola tra quelle maggiori, sfavorisce la costruzione di una ipotesi sull’architettura del retablo, per quanto la specificità del Cristo davanti ad Erode – soggetto assolutamente inedito nei repertori iconografici isolani, seppure rappresentato nelle stampe dell’epoca – presupporrebbe un contesto narrativo articolato, sviluppato, forse, più su un doppio che su un singolo trittico. Di certo si può affermare che, per la peculiarità del brano pittorico, questo non possa che essere appartenuto ad un Retablo della Passione di Cristo.
La costruzione scenica del Cristo davanti ad Erode riecheggia quella dell’omonimo soggetto della “Piccola Passione” di Albrecht Dürer, ma l’eccessivo affollamento denota la difficoltà dell’artefice di stabilire nuove, efficaci dinamiche tra i protagonisti, che quasi soccombono nella moltitudine e nella ressa dei personaggi. Gesù è minacciato da una figura la quale nella postura rammenta quella del soldato che, nel Cristo davanti ad Erode del Dürer, lo trattiene legato con una fune qui ricalcata nel disegno della spada; la papalina che questo porta in capo è, invece, quella del soldato con alabarda del Cristo davanti ad Pilato, incisione n. xvi della stessa serie dureriana. Di suo il Maestro di Tonara ne ridisegna la veste, la cui manica rincalzante sul braccio – ma anche la linearità delle lunghe pieghe del panneggio della tunica e il modo in cui questa si trascina a terra – riecheggiano quelle di moltissime figure di Antioco Mainas. All’altro fianco del Salvatore è, torvo nello sguardo, un sommo sacerdote. Dinanzi Gli è Erode Antipa, assiso su di un trono riccamente decorato nel bracciolo da una protome canina, libera interpretazione dell’idea dureriana del cagnetto accucciato sotto le gambe del sovrano nella omonima stampa. Alle spalle del tetrarca della Galilea e della Perea, una anziana Erodiade, moglie di suo fratello Filippo, nasconde il volto per l’imbarazzo, avendo domandato la testa di Giovanni il battista, cugino di Gesù, quale compenso per la mirabile danza di sua figlia Salomè.
La barba del Cristo è segnata da lunghe pennellate del tutto simili a quella del S. Tommaso del Retablo dell’Assunta del Maestro di Tonara. Anche le fisionomie di taluni personaggi e il ductus delle armature dei soldati trovano precisa corrispondenza in quelle di talune figure delle tavole della Passione di Cristo del Retablo di S. Anastasìa e del Retablo dell’Assunzione della Vergine del maestro barbaricino.
La quinta mostra la sua maggiore fragilità nell’assemblaggio di elementi della classicità, quattro colonne improbabilmente illuminate, a sostegno di un ingenuo soffitto in tavolato (o, talvolta, sprovviste di trabeazione), in un indefinito interno domestico privo di profondità. Tre di queste, con la varietà di capitelli che le sovrastano, e quella finestra qui adattata ad armadio a muro, dipendono dalla incisione del Cristo davanti a Pilato della “Piccola Passione” del Dürer. Una quarta colonna (la prima a sinistra), la postura del tetrarca (seduto col braccio sinistro alzato), la corona irta di aculei che gli cinge la testa (emblema della malvagità e della sua perfidia) e il regale baldacchino che lo sovrasta discendono da quelle del Cristo davanti a Erode, della stessa serie del maestro incisore tedesco.
Su tutti i presenti incombe la figura di un diavolo-burattinaio, che emana i suoi influssi malefici attraverso un paio di corna trattenute tra le mani. Satana è qui vestito di una equivoca, splendente foglia d’oro, che non rimette la condanna del Maligno ma che è traduzione caricaturale della visione dell’angelo luciferino espressa nel Nuovo Testamento.
Nell’insieme la costruzione della scena appare decisamente sbilanciata: appesantita nella fascia inferiore, insignificante in quella superiore; così come priva di equilibrio, allora in senso longitudinale, è la Passione di Cristo del Retablo dell’Assunzione della Vergine dello stesso Maestro di Tonara. La stretta relazione tra i due dipinti, oltre che sostenere una ipotesi attributiva, dà modo di tradurre il confronto in un dato cronologico che si assume non distante, ma certo precedente, a quelle dell’altro retablo olianese, nel quale si colgono scelte coloristiche più raffinate e un uso più sapiente della prospettiva.
Le dimensioni delle tavole superstiti della predella, rapportate alla larghezza del Cristo davanti ad Erode, inducono a credere che questa fosse costituita da cinque elementi. Al centro si suppone la canonica figura di un Cristo tra una Annunciata (dispersa) alla sua destra, e l’Angelo annunciante alla sua sinistra. La postura del S. Cristoforo, che guarda verso sinistra, presupporrebbero una collocazione all’estremità destra, simmetrica ad una quinta tavola non più reperibile, che serrava l’ordine minore nel lato opposto.
L’evidente divario tra l’altezza della tavola del S. Cristoforo e quella dell’Angelo annunziante di circa cm 8, potrebbe essere conseguenza di un ridimensionamento in linea con lo stesso spirito “risanatore” che, ante 1947, giustificò prima lo smembramento, quindi lo squartamento delle singole parti dei retabli rinvenute in “su Pátiu” ad Oliena.
Il S. Cristoforo rinsalda quel culto al santo traghettatore al quale, nella stessa chiesa, nel secondo quarto del xvi secolo, il Maestro di Oliena aveva dedicato un retablo, ispirandosi al racconto della Legenda Aurea di Jacopo da Varagine. Esso è libera trasposizione dell’incisione del S. Cristoforo del Dürer del 1502-03, la prima di una serie di tre, date al torchio ante il 1525. Da questa deriva la postura del santo che porta le vesti alla vita per non bagnarle nel fiume, il manto rigonfio dal vento, l’intesa degli sguardi tra le due figure e il minuto borgo all’orizzonte; il globo terraqueo con croce che il Bambinello regge tra le mani è, invece, dalla terza e ultima stampa, datata al primo quarto del secolo.
Il volto sbarbato scopre una figura giovane dal volto liscio, ben levigato, fisionomicamente distante da quella dell’anziano ricurvo dell’iconografia dureriana e dei personaggi delle tavole del Maestro di Oliena. Per quanto appartenente alla stessa predella, la tavola in esame parrebbe in massima parte opera di altro artefice, ignaro della lezione del Maestro di Ozieri quanto fermamente ancorato alla tradizione cagliaritana della seconda metà del Cinquecento. Le tonalità del cielo e dell’abito del S. Cristoforo rimandano alle cromie delle tavole del Retablo di S. Maria di Montserrato attribuito ad Antioco Mainas. Così il tono rosa del manto del Bambinello riecheggia quello della veste iridata del Risorto della predella del Retablo di Nostra Signora di Valverde, dello stesso maestro stampacino. Alla postura artificiosa del santo si contrappone quella aggraziata, originale, composta ed efficace del Bambino, la sola attribuibile alla mano esperta del Maestro di Tonara. Questo, almeno, suggerirebbe il tratto somatico del volto, così prossimo a quello dell’Angelo annunziante.
Singolare il S. Gabriele arcangelo in volo tra i vicoli di un improbabile contesto urbano, recante in uno svolazzo, quasi un fumetto ante litteram, il glorificante saluto mariano: “Ave Gr[ati]a Pi[en]a D[omi]n[u]s [Tecum]”. Il manto dorato spiegato al vento scopre le ali bicrome, riecheggianti quelle del S. Michele arcangelo del Retablo di S. Anastasìa; mentre il risvolto della tunica alla vita, così frequente nelle tavole della Scuola di Michele Cavaro, trova, in quelle del Maestro di Ozieri, un solo riscontro nell’angelo che porge la corona e la palma del martirio al S. Sebastiano dell’omonimo, smembrato retablo di Sassari.
La scala sulla sinistra denota la chiara conoscenza, forse per mediazione di una stampa di Marcantonio Raimondi, dell’Annunciazione di Albercht Dürer, tratta dalla serie della Vita di Maria, la stessa da cui dipendono l’Annunciazione del Retablo di N. S. di Loreto e del Retablo di S. Maria degli Angeli del Maestro di Ozieri. Sul piano di questa rampa che conduce alla casa della Vergine si innestano improbabili architetture classicheggianti, coronate da taluni spunti rinascimentali, a fronte di un’altra costruzione caratterizzata da una singolare nicchia ad incasso, vagamente memore di quella del tempio laurenziano nel retablo ozierese, quanto di quella della fontanella domestica della stessa incisione del Dürer.
Di sicuro interesse è l’attenzione dell’artefice verso quella ricerca luministico-cromatica, che distingue tutta l’opera del Maestro ozierese. Per quanto i toni della veste dell’angelo, qui più marcatamente sfaldati e franti degli stessi modelli ispiratori, confliggano con una luce irreale che incide sulla Domus Mariae, resta inalterata la testimonianza di un apprendimento, di una coniugazione della maniera stampacina con quella logudorese, che costituisce uno dei momenti più significativi dell’arte del Maestro di Tonara. E non può che essere oggetto di ulteriore riflessione che due dei tre retabli, che costituiscono oggi l’ampliato corpus delle opere del Maestro di Tonara, giungano dalla stessa chiesa di S. Maria Assunta di Oliena, dalle cappelle attigue a quella dei nobili Tolo, committenti del Retablo di S. Sebastiano la più tarda delle opere attribuibili al Maestro di Ozieri