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venerdì 3 giugno 2016

Il giallo dimenticato di Santa Nostasìa di Simone Tatti Natascia Talloru - La Nuova Sardegna

                               
LA NUOVA SARDEGNA
TONARA Rione Toneri, a pochi passi dal centro abitato di Tonara. Qui giacciono in silenzio quelle che furono le mura della chiesa di Santa Anastasia, per i tonaresi Santa Nostasìa, poi divenuta per troncamento Santa Nosta. Nostra, per l'appunto, perché gli abitanti del paese quella chiesa la sentivano propria, sin dal XIV secolo quando, una rappresentanza di monaci Vallombrosani, valicato il Tirreno, giunse dall'Etruria in Sardegna dove edificò ricchi e splendidi monasteri, governando un gran numero di villaggi rurali. Oggi, a testimonianza di quella che fu sino al 1820, la prima chiesa parrocchiale della cosiddetta Villa Tunare, rimangono solamente pochi ruderi, forse ciò che resta del presbiterio. Un cumulo di macerie che ha voglia di raccontare la sua storia, intrecciata indissolubilmente alla comunità tonarese, ricca di particolari spesso taciuti e di enigmatici misteri. Correva l'anno domini 1341 e, come risulta dai registri delle Relationes decimarium Sardiniae, un sacerdote della diocesi arborense, Gregorio de Liusque, rettore delle chiese di San Bartolomeo in Meana Sardo, di Santa Anastasia in Tonara e di Santa Maria di Laonissa e Spasulè, pagava la decima all'esattore Giovanni Almerici. L'edificazione della chiesa di Santa Anastasia è pertanto da inquadrarsi in una data, non meglio precisata, a cavallo tra la fine del XIII e l'inizio del XIV secolo, come storicamente confermato dai tre archi di ispirazione gotica, le relative volte a crociera dalla cui intersezione «pendevano grossi pomi di pietra ricordati ancora dal popolo come is campanèddas». Questi, sono gli anni nei quali i "monaci forestali", giunti in Sardegna con finalità evangeliche, lasciano le loro prime tracce nei territori della Romangia, amministrando le chiese di Santa Maria di Sennori, Santa Anastasia di Tissi, Santa Eugenia di Musciano e San Simplicio di Essala. La stessa congregazione che abitò il monastero adiacente a Santa Anastasia in Toneri, ne edificò la chiesa in un punto centrale con vista sulla valle e che, probabilmente, grazie alla propria vocazione naturalistica, introdusse il nocciòlo e il castagno nei territori della Sardegna centrale, prima di abbandonare misteriosamente il territorio. La vita parrocchiale proseguì senza particolari risvolti sino al 1820 quando, come riporta il Casalis, la chiesa di Santa Anastasia in Tonara, fu profanata e distrutta per assenza di dote e quindi abbandonata nuovamente e in maniera definitiva dalla comunità tonarese. Questa circostanza lascia, tuttavia, alcune perplessità. Se è vero, infatti, che l'abbandono di una chiesa per assenza di dote o pertinenze, non fosse di quei tempi qualcosa di insolito, lo è, sicuramente, per le modalità con le quali avvenne. In particolare, non è chiaro il perché i tonaresi, che all'epoca pare non disponessero dei mezzi necessari al sostentamento della chiesa, ne edificarono delle altre, nonostante Santa Nosta fosse storicamente la prima e più importante del territorio. Gli elementi ricostruttivi non sono in grado di spiegare con raziocinio questo nuovo abbandono della chiesa. Tuttavia, come spesso accade quando si parla di Sardegna, la storia si intreccia con le credenze e le superstizioni del luogo, dando una direzione differente ai fatti, in antitesi, spesso, alla verità. C'è, infatti, chi si appella alla tradizione orale e suggerisce che forse la chiesa fu avvolta da una maledizione; oppure che il popolo seguì un'antica leggenda secondo cui fu lo stesso Arcangelo Gabriele a chiedere che l'attuale chiesa, eretta in suo nome, venisse costruita poco più a Nord di Santa Nosta e fosse la principale del paese. Così San Gabriele divenne il patrono, e Sant'Anastasia, che cade in settembre, non venisse commemorata fino all'arrivo dell'attuale parroco padre Giovanni, il quale ha ristabilito legittimamente la celebrazione di una messa nel luogo in cui un tempo la Santa era venerata.

domenica 3 febbraio 2013

Il piccolo popolo delle Janas (leggende di Tonara)

II popolo delle janas 

(tratto da Fiabe Sarde di Francesco ENNA - Introduzione S. Mannuzzu . Oscar Mondadori, 1991, pag. 71-74)
II popolo delle janas viveva sui fianchi delle collina, dentro piccole case scavate nella roccia: le domus de ianas che ancora esistono a centinaia e migliaia, sparse in tutta la Sardegna.
Non erano ne fate ne streghe, ed erano l'una e I'altra cosa assieme. Erano donnine piccole come uccelli di campo e, comunque, non più alte di un palmo. Belle come la luna, uscivano dalle loro grotte soltanto di notte, per paura che il sole bruciasse la loro pelle delicata.
Erano venute da paesi lontani e misteriosi, portandosi appresso immense ricchezze.
Avevano unghie lunghissime d'acciaio, con cui scavavano le loro casette nella viva roccia; ma avevano anche dita cosi sottili e delicate che potevano ferirsi a strappare una foglia di prezzemolo.
Trascorrevano l'intera giornata a tessere e a ricamare abiti preziosi di lino e di broccato, trapuntati con fili d'art e d'argento. E mentre tessevano, cantavano con voce meravigliosa, che incantava.
Non uscivano quasi mai dalle loro domus, dove gli oggetti e le suppellettili avevano le giuste misure per la logo stature, e solo raramente socializzavano con gli uomini.
Le janas di Mantoe, presso Pozzomaggiore, vo­lavano silenziose dentro le case del paese, attraverso le piccole fessure o le finestrelle semiaperte e curiosavano tra la gente addormentata.
Se qualche essere umano gli piaceva lo chiamavano bisbigliando il suo nome per tre volte.
E se la persona prescelta si svegliava, la invitavano a serguirle fino alle loro casette tra le rocce rischiarando la via con i loro corpicini luminescenti.





Dentro le case mostravano agli ospiti fortunati immensi tesori che suscitavano stupore e cupidigia.
Ma gli uomini non sapevano che tutte quelle meravigliose ricchezze non potevano essere mostrate davanti alle Janas ( che ne erano gelosissime) perchè immediatamente oro e gioielli si trasformavano in cenere e carbone. Nessuno sapeva - perchè esse non parlavano -che per impossessarsi del tesoro delle Janas occorreva ritornare nelle minuscole casette sulle colline in pieno giorno, con in mano un rosario benedetto.
Per questa ragione a Pozzomaggiore nessuno diventò mai ricco.
Ma guai a tentare di derubare le janas con la forza e con l'astuzia.
Ecco che cosa accadde un giorno a un giovanotto che tentò di portar via un prezioso scialle tessuto con fili d'oro che le fatine di Funtana Pinta, nei pressi di Siligo, avevano steso all'aria ad asciugare.
Silenzioso come una volpe il giovane si avvicinò alle rocce su cui stava steso lo scialle e con un velocissimo colpo di mano lo afferrò, precipitandosi subito dopo lungo il pendio e correndo a perdifiato fino al luogo in cui aveva lasciato il suo cavallo.
Ma le janas lo aspettavano proprio in quel punto e lo attaccarono furiose come uno sciame di vespe impazzite. L'uomo riuscì ugualmente a rimontare a cavallo e a partire al galoppo, ma le minuscole streghe si attaccarono all'animale e lo pungolarono con ferocia fino a imbizzarrire.
Cosi il cavallo disarcionò il suo padrone, che si trovò a tu per tu con gli occhietti luccicanti delle donnine delle colline. Erano occhi terribili, che gli esseri umani non erano in grado di fissare a lungo, perché si trasformavano in statue di pietra.
E cosi infatti avvenne: l'incauto giovanotto fu pietrificato all'istante e non poté raccontare a nessuno la sua impresa.
Ma ben più terribile era la sorte di chi si imbatteva nelle malas janas di Tonara.
Costoro stendevano sotto le loro grotte un bellissimo velo bianco che ricopriva l'intera pianura.
L'ignaro viandante che si trovava da quelle parti restava inesorabilmente abbagliato da tanto splendore e come invischiato in un incantesimo mortale.
Allora il poveretto veniva catturato da un nugolo di nani malefici che lo ficcavano in una grande buca sul terreno, assieme ad altre vittime.
E qui a questo punto giungeva la jana maista che succhiava loro tutto il sangue. E una volta tasi di sangue umano, la jana regina volava rinchiudendosi per per tre giorni in una grotta, dove partoriva altre minuscole janas.
Per fortuna le malas janas di Tonara si estinsero molto presto, perchè rimpicciolirono sempre di più, fino a confondersi con i vermi della terra.
Le altre fate, invece, durarono più a lungo e vissero in pace e in armonia con gli esseri umani, almeno fino all'epoca in cui arrivarono in Sardegna i pisani.
Erano tempi in cui it mondo non conosceva ne malizia ne cupidigia.
Le janas che vivevano sul Monte Manai, vicino a Macomer, nei giorni di festa scendevano addi­rittura in un sito chiamato Sa Rucchita per bal­lare con la gente del paese.
E siccome erano bellissime  gli uomini le invitavano spesso a entrare nel ballo in tondo, in su ballu tundu, il cui grande cerchio danzante occupava quasi tutta la piazzetta.
Un giorno una jana di nome Giula entro nel ballo e si scatenò al ritmo delle launeddas,  passando dall'uno all'altro ballerino leggera e felice come una farfalla.
Ma a un tratto Giula senti il richiamo delle sue compagne che, dall'alto delle domus, la metteva­no in guardia:



Giula, Giulitta,
sos buttones ti chirca.
Giula, Giunone,
chircadi sos buttones

La danza cesso di colpo. Giula guardò allora il suo corpetto di velluto e si accorse che i bottoni d'oro filigranato erano misteriosanante spariti: qualcuno li aveva rubati.
In quel momento le janas capirono che l'avidità e la malizia erano purtroppo apparse anche tra la buona gente di Sardegna e decisero perciò di sparire per sempre, abbandonando le loro minuscole case sulle colline, che ancora occhieggiano come finestrelle aperte su un mondo misterioso e ormai perduto.

Janas de Tonara



IANAS

Le Janas sono descritte come picolissime fate, alte poco piu' o poco meno di un palmo, che vivono sui fianchi delle colline sarde, dentro piccole grotte scavate nella roccia, le domus de janas, molto diffuse in tutta la Sardegna. Qualcuno le chiama fate, qualcuno streghe, ma sono entrambe le cose, dipende solo da noi: se le capiamo sono fate, se le cacciamo diventano streghe. Le janas vestono di rosso vivo, hanno il capo coperto da un variopinto fazzoletto ricamato con fili d'oro e d'argento, e portano pesanti collane d'oro lavorato. Dicono che siano molto belle e che il loro corpo sia evanescente, luminoso, a volte tanto luminoso da abbagliare. Chi le ha viste da vicino giura che la loro pelle è delicatissima e che hanno lunghissime unghie capaci di scavare la roccia. Di giorno non escono mai, il sole, per quanto pallido, le scotterebbe facendole morire! Trascorrono l'intera giornata a tessere e a ricamare abiti preziosi di lino e di broccato, trapuntati con fili d'oro e d'argento. E mentre tessono, si dice che cantino con voce meravigliosa, che incanta. La notte scendono nelle case degli uomini, attraverso le piccole fessure o le finestrelle semiaperte, si accostano alle culle e a volte cambiano l'intensita della loro luce. In tal modo stabiliscono il destino del bambino. Alle janas, inoltre, piace curiosare tra la gente addormentata. Se qualche essere umano dovesse piacere loro, lo chiamano bisbigliando il suo nome per tre volte. E se la persona prescelta si sveglia, la invitano a seguirle fino alle loro casette tra le rocce, rischiarando la via con i loro corpicini luminescenti. Dentro le case, mostrano agli ospiti immensi tesori, che suscitavano stupore e cupidigia. Ma bisogna stare attenti: tutte quelle meravigliose ricchezze non possono essere sfiorate davanti alle janas, che ne sono gelosissime, perchè immediatamente oro e gioielli si tramuterebbero in cenere e carbone! Per impossessarsi del tesoro delle janas occorre ritornare nelle minuscole casette sulle colline in pieno giorno, con in mano un rosario o un oggetto benedetto. Ma guai a tentare di derubare le janas con la forza e con l'astuzia ! Ecco che cosa accadde un giorno a un giovane che tentò di portar via un prezioso scialle tessuto con fili d'oro che le fatine di Funtana Pinta, nei pressi diSiligo, avevano steso all'aria ad asciugare. Silenzioso come una volpe, il giovane si avvicinò alle rocce su cui stava lo scialle e con un velocissimo colpo di mano lo afferrò, precipitandosi subito dopo lungo il pendio e correndo a perdifiato fino al luogo in cui aveva lasciato il suo cavallo. Ma le janas lo aspettavano proprio in quel punto e lo attaccarono furiose come uno sciame di vespe impazzite. L'uomo riuscì ugualmente a montare a cavallo e a partire a galoppo; ma le minuscole streghe si attaccarono alla coda dell'animale e lo pungolarono con ferocia, fino a farlo imbizzarrire. Così il cavallo disarcionò il suo padrone, che si trovò a tu per tu con gli occhietti luccicanti delle donnine delle colline. Erano occhi terribili, che gli esseri umani non erano in grado di fissare a lungo, perché si trasformavano in statue di pietra. E così infatti avvenne: l'incauto giovane fu pietrificato all'istante e non poté raccontare a nessuno la sua impresa! Ma ben più terribile era la sorte di chi si imbatteva nelle "malas janas" di Tonara. Esse stendevano sotto le loro grotte un bellissimo velo bianco che ricopriva l'intera pianura. L'ignaro viandante che si trovava a passare da quelle parti restava inesorabilmente abbagliato da tanto splendore e come invischiato in un incantesimo mortale. Allora il malcapitato veniva catturato da un nugolo di nani malefici, che lo ficcavano in una grande buca sul terreno, assieme ad altre vittime. E qui giungeva a un certo punto la "jana maísta" , che succhiava loro tutto il sangue. E una volta saziatasi di sangue umano, la "jana regina" volava a rinchiudersi per tre giorni in una grotta, dove partoriva altre minuscole janas. Per fortuna la malas janas di Tonara si estinsero molto presto, perchè rimpicciolirono sempre di più, fino a confondersi con i vermi della terra. Le altre fate invece vissero in pace e in armonia con gli esseri umani per molto tempo. Le janas che vivevano sul Monte Manai, vicino a Macomer, nei giorni di festa scendevano addirittura in un sito chiamato "Sa Rucchitta" per ballare con la gente del paese. E siccome erano bellissime, gli uomini le invitavano spesso a entrare "in su ballu tundu", nel ballo tondo, il cui grande cerchio danzante occupava quasi tutta la piazzetta. Un giorno una jana di nome Giula entrò nel ballo e si scatenò al ritmo delle "launeddas", antichissimo strumento musicale a fiato, passando dall'uno all'altro ballerino, leggera e felice come una farfalla. Ma a un tratto Giula sentì il richiamo delle sue compagne che, dall'alto delle domus, la mettevano in guardia: "Giula Giulitta,sos buttones ti chirca (i bottoni cerca). Giula, Giunone, chircadi sos buttones! (Cercati i bottoni!)". La danza cessò di colpo. Giula guardò allora il suo corpetto di velluto e si accorse che i bottoni d'oro filigranato erano misteriosamente spariti: qualcuno li aveva rubati! Da quel giorno non si videro piu fate in quella zona, andarono via offese e amareggiate dall'avidità e dalla malizia degli uomini. Oggi le janas sono diventate sempre piu schive: è bene non disturbarle ed attendere che siano loro a cercarvi. Fate finta di dormire e ad occhi socchiusi...Forse le vedrete volteggiare sopra di voi.



Pubblicato da AleTheElf

Le contrade di Toneri nel 1866 di Nino Mura

alusac eleirbag