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domenica 10 settembre 2017

SULLE TRACCE DI HANS PAULE (l'unione Sarda 18 marzo 2000)


Poco più di un mese fa (il tredici febbraio scorso) un articolo dello storico dell'arte sardo Giorgio Pellegrini ha portato alla luce una storia curiosa e affascinante. Quella di un pittore e incisore viennese, rifugiatosi a Capri nel primo Novecento sull'onda di una setta esoterica e poi approdato in Sardegna. Vi soggiornò dieci anni, non smise di lavorare, produsse opere di cui si era persa traccia. Dove visse? Come visse? Dove sono le sue incisioni? Pellegrini, attraverso la pagina della Cultura, chiese aiuto ai lettori. E di risposte ne sono arrivate molte, alcune delle quali eccezionalmente interessanti.
Chissà se Hans Paule amava il torrone. Interrogativo banale ma comunque plausibile, data la sede, finalmente individuata, del suo lungo confino in Sardegna: Tonara. Le preziose informazioni di due lettori dell'articolo dedicato al pittore austro-caprese, hanno confermato insomma l'ipotesi che indicava la Barbagia di Belvì come possibile area di residenza dell'internato. E così, sulla misteriosa
stagione isolana dell'artista comincia a ricamarsi una trama reale.


Sembra di vederlo, in quell'estate del 1915, scendere dal fumigante trenino di montagna, strappato all'azzurro della sua Capri per ritrovarsi immerso in un mare ombroso di verdi. Fendere quella selva lentamente, a cavallo, sino a raggiungere la bella Tonara, adagiata nella sua valle folta di castagni, sotto l'occhio vigile dell'alto Muggianeddu. Ad attenderlo in paese: Giovanni Tore, sindaco dal 1907 del Comune barbaricino, che, come spesso succedeva, grazie ai nostri eterni pressappochismi istituzionali, non ha ricevuto alcuna istruzione su dove e come sistemare l'austriaco nemico. Decide allora il primo cittadino - con bella generosità - di portarsi a casa l'incomodo ospite, la bella casa di pietra in cima al vicinato di Arasulé, il sobborgo separato, a quei tempi dal paese vero e proprio
dove Tore risiede insieme alla moglie e a sette figli, due femmine e cinque maschi. Sino alla fine della guerra, per quattro lunghi anni, Hans Paule vivrà lì, nella mansarda di casa Tore, affacciata su
quei boschi infiniti che diventano subito regno e rifugio dell'artista: profumi intensi - legno, terra, muschio - muovono antiche nostalgie alpine, di altri monti e altre foreste di un'Austria quasi dimenticata. E Paule si abbandona a quell'abbraccio enorme di foresta, da cui trarrà ben presto il materiale stesso della sua arte: il legno di castagno, onnipresente e vera ricchezza di Tonara, robusto e leggero, tenero e pastoso, abituato da millenni al tormento del ferro di boscaioli e abili intagliatori.
La mansarda di casa Tore si trasforma allora in studio e laboratorio xilografico, spazio misterioso, magico, che non può non attrarre la curiosità infantile della piccola Ester.
Ultimogenita del sindaco, è lei a portare da mangiare all'ospite, quando questi preferisce consumare i pasti da solo e non, come di regola, insieme alla famiglia nella grande sala da pranzo al pianoterra. Ammessa al prodigio e ai colori di quelle pratiche estetiche, Ester reagisce prontamente con vivace spirito di emulazione, tanto da attirare sui suoi disegni l'attenzione di Paule che la incoraggia, la segue, sino a impartirle regolarmente vere e proprie lezioni e a consigliare al padre della bambina di
non trascurare quella bella dote della figlia. Così ci racconta oggi il figlio di Ester, Sergio Ponti, a proposito di quell'artista a lui così familiare, descritto com'era, perfettamente, nei vividi ricordi della madre, che non dimenticò mai lo straniero, giunto all'improvviso da un altro mondo, a mostrarle il miracolo dell'arte.
Le cene intorno al grande tavolo, le lunghe chiacchierate invernali davanti al fuoco, le visite e l'entusiasmo di Ester: non è difficile immaginare, sotto il profilo affettivo, ruolo e importanza che quella famiglia e quella casa ebbero per Hans Paule, innocuo, ma pur sempre odiato nemico per il  resto della comunità. Né l'atteggiamento schivo, né quel cognome austriaco che suonava familiare come un nome barbaricino, servivano infatti ad attenuare un'ostilità comprensibile: risuonavano spesso, insomma, le urla di austriaci traditori! I ad accompagnarlo durante le timide sortite in paese, quando non erano poi i più piccoli a bersagliare lo strambo capellone con poco gradite palle di
neve.
E allora, specie se il tempo lo permetteva, alla protezione delle pareti amiche di casa Tore, Paule alternava le lunghe, solitarie passeggiate nelle viscere dei boschi incantati di Arasulè, e oltre. Molto oltre, se è vero, come testimoniano ancora i racconti di Ester Tore al figlio Sergio, che non poche volte i carabinieri di Sorgono lo riportarono impettiti al sindaco imbarazzato.
Chissà se in quelle selvatiche e godute peregrinazioni si sarà mai imbattuto, il nostro, nel mitico tiu Boboari, vetusto pastore - l'occhio fisso nel vuoto dell'Aldilà - capace di parlare con i morti, o peggio abbia mai incrociato su masch'inganna, orribile demone silvestre che soleva mostrarsi in guisa di bella giovine tonarese, dalla cui gonna però - vera Baba Yaga barbaricina - sporgevano zampacce artigliate di grifone.

In verità, a vedere le sue opere di quegli anni, sembra che Paule fosse più attratto dalle policromie smaglianti dei costumi tradizionali che dai fantasmi della foresta. Un pittore di Capri, che ha avuto modo di leggere l'articolo pubblicato il 13 febbraio sull'Unione, ci scrive di due piccoli quadri dell'austriaco in suo possesso, dei quali ha finalmente capito l'ambientazione: dai costumi rappresentati aveva sempre pensato a un soggetto... russo. Interpretazione affatto plausibile, data l'affinità cromatica e primitivista delle scelte formali di Paule con certa figurazione di una Gonciarova o di un Larionov, vicina peraltro anche quella a comuni modelli espressionisti.
Matrice linguistica, quest'ultima, evidente in un'altra xilografia del nostro, di cui cortesemente ci invia copia un altro nipote di Giovanni Tore, figlio di Attilio, il fratello maggiore di Ester. Il lettore, di cui rispettiamo la volontà di non apparire, è in possesso di una matrice originale in castagno, intagliata da Hans Paule, in cui si riconosce la figura di una filatrice. Il soggetto è Io stesso della già citata cromoxilografia di proprietà della Società bonifiche sarde di Arborea, ma la tavola, oltre ad essere priva del monogramma dell'autore, presenta alcune caratteristiche che non consentono di considerarla madre di quella stampa, si tratta molto probabilmente di una pregevolissima matrice intermedia.


Risalta comunque la perfetta essenzialità del segno di Paule, il contrasto deciso di vuoti e di pieni - bianchi e neri sulla carta - a fissare l'asciutta sobrietà del costume muliebre: eleganza barbarica che si riflette, brillante, nell'austero equilibrio compositivo dell'immagine. Un'altra opera si aggiunge così al brevissimo repertorio dei lavori di Hans Paule presenti in Sardegna, di cui al momento si ha notizia. E gli altri?
Le testimonianze portate dai due nipoti del sindaco Tore evocano, ambedue, l'interno della mansarda dell'austriaco affollato di dipinti, stampe, matrici e tutto lo strumentario dell'artista, pittore e incisore. E ancora raccontano della commossa dipartita dell'ospite alla fine della guerra. Bagnato dalle lacrime di Paule, da quelle non meno fluenti di Ester e dagli occhi umidi dello stesso sindaco, arriva
inevitabile il momento del distacco: è allora che l'austriaco chiede al Tore la cortesia di custodire tutto il suo armamentario, opere comprese, sino a un suo ritorno, che però, a quanto pare non avverrà mai.
Il sindaco. concluso nel 1919 il suo lungo mandato, si trasferisce a Cagliari - intorno al'25 - con tutta la famiglia e affida il fondo Paule a un parente della moglie, tale Mario Pistis, fotografo e discreto pittore dilettante, che aspetterà invano il promesso ritorno di Paule. Se dobbiamo prestar fede al già citato articolo di Edwin Cerio, dalla fine della guerra Hans Paule si trattiene per altri sei anni in Sardegna - sino al 1924 - e viene persino "accolto amorevolmente da una banda di malandrini":
certo è che non ritorna più a Tonara a ritirare le sue cose. Rientrato a Capri continuerà a dipingere e a produrre splendide xilografie sino alla morte, avvenuta nel 1951. Quattro anni dopo, in un tremendo fatto di sangue che sconvolge Tonara e il circondario, Mario Pistis perde la vita: la casa, con tutto ciò che contiene, viene sigillata dai carabinieri. E il mistero continua. Come e dove ha trascorso Hans
Paule, non più costretto al domicilio coatto, quegli altri sei lunghi anni in Sardegna? Che fine hanno fatto i suoi averi, affidati in custodia a Giovanni Tore e da questi a Mario Pistis? E a Tonara? Possibile che il ricordo di quest'uomo sia svanito nell'ombra umida dei boschi di Arasulé?
La ricerca continua. Ma viene da chiedersi se la risposta a tutti i nostri quesiti non sia forse nel senso ineluttabile di quelle famose rime, del cantore tonarese Peppino Mereu, dedicate, ai primi del secolo scorso, all'amico Nanni Sulis, leggendario medico condotto. "Nanneddu meu / su mund'est gai, / a sicut erat / non torrat mai".

HANS PAULE, UN’OMBRA IN BARBAGIA Articolo dello studioso Storico dell’Arte GIORGIO PELLEGRINI Pubblicato sul quotidiano l’Unione Sarda il 13/02/2000

Chi avesse, in futuro, la felice ventura di visitare Capri, non  manchi di sottrarre, almeno un momento, ai piaceri paesistici e gastronomici di quel paradiso, per dedicare una visita attenta a La Conchiglia. Salotto raccolto e confortevole, per metà libreria per metà galleria antiquaria, annidato nel cuore del centro storico, riserva infatti, specie al sardo occasionale, una vera sorpresa.

Nell'insieme delicatamente marino delle stampe a soggetto caprese, esposte con informale eleganza,
spiccano infatti, brusche di forme e di colori, le fogge inequivocabili del costume barbaricino: rossi e neri e bianchi intarsiati con bella sintesi xilografica, che rivela subito a un occhio esperto accenti nordici, bene databili, divisi come sono tra secessione ed espressionismo. Segno pesante e angoloso, quasi gestuale, che chiude campiture cromatiche piatte, brillanti di ricercata, seppure barbarica, semplificazione: non si va insomma oltre il secondo decennio del secolo. Ma se la datazione è presto confermata dalle cifre segnate sulla tavola - 1917 - il monogramma che le sovrasta (una H e una P stampate sovrapposte alla maniera gotica) esclude subito qualsiasi attribuzione ai maestri sardi della
xilografia: troppe d'altronde e l'ansia sintetica e la deformazione anatomica, anche per un Biasi.

Ci aiuta allora l'autore dichiarandosi per esteso - a matita - quel nome una storia già antica, seppure ancora ignota in Sardegna, di un pittore viennese e del suo amore diviso tra due isole: una storia vera, anche se sembra uscita dal pennino di Sergio Atzeni. Inizia nel 1900, quando l'artista ventenne, dotatissimo studente della Kunstakademie, abbandona Vienna per seguire a Capri il più visionario dei suoi professori: Karl Wilhelm Diefenbach. Un eclettico simbolista, vegetariano, naturista e pacifista, che sceglie di fuggire la mondanità dell'Occidente moderno per vagare come un nomade dalla
Mitteleuropa sino al Cairo, e approdare finalmente al mito incorrotto dell'isola dei faraglioni, circondato come un Messia da uno stuolo di fedelissimi.

Tra questi è Hans Paule che ben presto estremizza gli insegnamenti del maestro, sino a staccarsene per trasformarsi in felicissimo troglodita, abitatore di quella Grotta dei Faraglioni che si affaccia sul litorale incantato dell'isola delle Sirene.

Pictor spelaeus lo definisce scherzando ma rispettoso ammiratore della sua opera, Edwin Cerio, moltissimo e raffinato intellettuale e sindaco di Capri, in un articolo monografico apparso sul Mattino di Napoli nel settembre del '42.

In quell'antro omerico, a diretto, appassionato contatto con una natura vergine, l'artista vive e lavora instancabile, a effigiare in miriadi di disegni, come in un misterioso rituale primitivo, il volto mutevole di quel mare degli Dei. «Ma capitò nella grotta - scrive Cerio - qualche amatore d'arte e lo tentò con l'oro. Così Paule precipitò dall'età della pietra nell'età del metallo monetato quasi senza
accorgersene».

Da quella prima, timida esperienza di negozio, alla personale nel caffè più alla moda di Capri, il  passo fu breve. Il troglodita cede alle insistenze di un'ammiratrice e acconsente«a farsi sgrossare la barba, ad indossare gli indumenti coi quali era venuto da Vienna - continua Cerio -
per comparire al Caffè Kater Hiddigeigei. In un paio d'ore vendette tutto quanto aveva portato con sé. Wenck, direttore del Glaspalast di Monaco andò poi a stanarlo nella sua grotta acquistando tutta la sua produzione e invitandolo a esporre in Germania».

Il pubblico dell'arte, in quella Capri dei primi del secolo, non ha niente da invidiare a quello di Londra, di Mosca o di Berlino: è lo stesso. Se accorrevano infatti a frotte i pittori, da ogni angolo del globo, in quel natio borgo  selvaggio, a inseguire gli ultimi richiami del Grand Tour, così i protagonisti della storia e della cultura europea di quegli anni si sono incrociati sulla celebre "Piazza", alta sopra l'azzurro intenso del Tirreno, come e forse più che nei Champs Elysées. All'ombra delle sontuose paglie di Panama, fasciati nello sfolgorio coloniale di lini e flanelle, hanno passeggiato per
i viottoli ombrosi di mirto e di cipressi, Gor'kij e Conrad, Lawrence e Lunaciarskij, Krupp e Francesco Giuseppe, Shaljapin e Rilke, per tacer di Lenin, intento a giocare a scacchi sotto quelle pergole imbiancate a calce amate anche da Nicola II.E il successo che questo pubblico tributa al giovane Paule gli permette una variazione, appena più civile, allo stile di vita trogloditico: trasloca infatti dalla grotta marina a un magazzino d'attrezzi da pesca, sempre davanti al mare, a contatto epidermico, goduto, con quella natura che continua - nonostante l'effimera avventura mercantile - ad
essere unico nume tutelare della sua esistenza. Almeno sino al maggio del 1915, quando è il governo
italiano ad assumersi la tutela del pittore che, seppure convinto pacifista, è purtuttavia suddito dell'odiato,asburgico nemico. E così, da quell'isola già orgogliosa della sua vocazione turistica, la mano del destino porta Hans Paule in un'altra isola, nota allora solo per storiche vocazioni malariche e carcerarie: la Sardegna. «Relegato nella regione più aspra e selvaggia dell'isola -racconta Cerio - accolto amorevolmente da una banda di malandrini che avevano preso ad infestare quella plaga
impervia, poté esplorare un paese d'una bellezza impensata, tale da dargli una nuova visione del paesaggio italiano».Poche parole che non possono che riferirsi alle Barbagie: cuore di Ichnusa, duro di roccia e di quercia, che si apre improvviso agli occhi del giovane austriaco, ebbri del mare
di Capri.




E quella terra austera e barbara Paule esplora, studia e riproduce, incantato dalle forme sobrie, asciutte, della sua natura e delle sue genti e ovviando alla comprensibile pochezza di materiali altri con la scelta del più disponibile: il legno.
Di qui il suo privilegiare la xilografia, tecnica certamente nota al valente allievo dell'accademia viennese. Nel tratto secco e sintetico, nei colori preziosi, sembra rivelarsi infatti la lezione secessionista, lontana ma indimenticata, delle famose fotoxilografie policrome del connazionale Carl Otto Czeschka, anche se un vigore rustico, sonoro di rudezze spigolose, lascia intendere il primitivismo - controllato - della semplificazione espressionista.
Favorita forse da quel «contatto - di cui scrive Cerio - con genti d'una cultura autoctona, primigenia, della quale egli usanze». Amore per quella landa desolata ma straordinariamente autentica, che pare addirittura poter cancellare nell'artista il ricordo azzurro della sua amata Capri, se è vero - come testimonia ancora Edwin Cerio - che la terra di Barbagia riesce, finita la guerra, a trattenere Paule per altri sei lunghi anni, dopo i quattro trascorsi in internamento. Come pare altrettanto vero un significativo successo di quell'opera grafica: «I suoi legni, spesso policromi - conclude Cerio - raffiguranti i paesaggi, gli uomini e le donne, le scene familiari d'una Sardegna fino ad allora inedita in arte, furono riprodotti in stampe acquistate dal governo italiano e poi dalle principali gallerie d'Europa e d'America». Nella seconda metà degli anni Venti, Hans Paule finirà tuttavia per cedere nuovamente al richiamo delle Sirene e tornare in una Capri, che ritrova sempre più affermato crocevia mondano di quell'Europa del primo dopoguerra. Land of cypress and myrtle: mito turistico che fiorisce sotto l'occhio vigile e poetico dell'amministrazione Cerio, adeguatamente movimentato dalla caffeina di Marinetti e dei suoi rumorosi seguaci futuristi - Depero, Cangiullo e altri - nonché dal dandysmo abbronzato di Curzio Malaparte e di quel bel mondo che fu. E Hans Paule, arricchito nello spirito e nel segno dall'esperienza barbaricina, si reinserisce perfettamente nel dorato ambiente locale: non lascerà più l'isola incantata, sino alla morte, che lo coglie all'improvviso sul finire del 1951. La Sardegna dal canto suo, come un'amante delusa, sembra essersi vendicata di quel ritorno a Capri, ingoiando nel labirinto muto della sua storia il nome e l'Opera dell'austriaco: l'articolo di Cerio è sino a tutt'oggi l'unica testimonianza di quell'avventura sarda, mentre dobbiamo forse a un altro caprese d'adozione le uniche opere di Paule di cui si conosca - al momento - la presenza nell'isola. Sono due cromoxilografie, conservate nella sede della Società Bonifiche Sarde di Arborea, portate con tutta probabilità in dono al presidente - Piero Casini - dall'architetto Giovanni Battista Ceas, nel febbraio del 1934. Romano di nascita ma residente per gran parte dell'anno a Capri, quest'ottimo assertore del razionalismo, buon amico di Edwin Cerio e con lui strenuo difensore dell'architettura tradizionale dell'isola, giunge a Mussolinia per offrire gratuitamente alla città nuova i due progetti della Casa del Fascio e della Casa del Balilla. Quale regalo di cortesia più opportuno di quelle stampe sarde - pare fossero cinque o sei in origine - di un artista caprese, dove il soggetto tradizionale era inoltre trattato con bella sintesi moderna? L'ipotesi sembrerebbe plausibile, ma resta comunque irrisolto l'interrogativo più avvincente: dove ha vissuto Hans Paule nei suoi quasi dieci anni di residenza in Sardegna? L'unico ausilio è dato dal vago riferimento geografico dello
scritto di Cerio, confortato dai caratteri dei costumi riprodotti nelle poche stampe disponibili - a Capri e ad Arborea - che, nonostante l'avarizia di dettagli dovuta alla citata semplificazione formale, porterebbero senza troppi dubbi nell'area della Barbagia di Belvì: a Tonara o forse meglio ancora a Desulo, sede ideale per un internato, data l'inaccessibilità del sito, specie allora. Fatto è che gli archivi della Questura risalenti a quel periodo sono praticamente inaccessibili. Non resta che la memoria degli anziani o megiio ancora l’opera di Paule, sicuramente esistente nei luoghi della sua lunga stagione sarda. Questa in breve la sorpresa e la sua storia, pressoché inedita: manca solo il tassello finale, la soluzione dell'arcano, che affidiamo umilmente alla curiosità dei lettori.

HANS PAULE, il pittore austriaco che amò Tonara ( tratto da il pittore austriaco che amò due isole di Giuseppe Aprea

E poi? Poi arrivarono i gendarmi a comunicargli la nuova destinazione ed a condurcelo gratuitamente, nell'estate del 1915. Poco male, tutto sommato: la Sardegna la circonda il mare, tale e quale Capri, e il piccolo centro in cui si trova la sua casa di confinato si chiama Arasulé. Il suono già gli scaldava un po' il cuore. Il suo primo amico in terra di Barbagia si chiamava Giovanni Tore: da molti anni era il sindaco dei circa tremila abitanti di Tonara, il paesino sardo di cui Arasulé era la frazione più piccola. A lui, che aveva moglie e sette figli, nessuno si era preoccupato di spiegare come comportarsi con quello sconosciuto e così, sistemarlo nella mansarda di quella casa che non usava se non di rado gli sembrò l'unica soluzione possibile... La casa di pietra di Arasulé, come un'isola bianca e leggera, galleggiava in mezzo ad un oceano verde e senza confini. L'aria non profumava di alghe marine, ma di muschio; di tanto in tanto il vento trasportava l'odore della legna di castagno appena tagliata. E c'era silenzio. Un silenzio dal sapore antico, e onesto. Giorno dopo giorno Paule si innamorò un'altra volta, perdutamente. Chi l'ha detto che non si possa amare due isole allo stesso modo, così come due donne, ognuna delle quali conosca il segreto della tua anima...? Così, per quattro fertili anni, il pittore delle isole visse lì, nella ansarda di Casa Tore magicamente trasformata in uno studio d'arte attrezzato anche per le xilografie, sua ultima grande passione d'artista. Le matrici delle opere Hans le ricavava dal docile legno di castagno, naturalmente, quello che la natura ha creato perché si lasci incidere dalle mani degli uomini saggi... Così, in una felicità inattesa, trascorsero i giorni dell'esilio. Scanditi dai campanacci delle greggi, consumati in lunghe cavalcate nei boschi di Barbagia, tra lecci e castagni dalla

perduta età e corsi d'acqua impetuosa e sincera. Profumati della solitudine dei nuraghi, manieri inviolabili e severi. Colorati dell'amicizia dei Tore e della gente di Tonara, che aveva imparato a rispettarlo, quel "tedesco" che avrebbe dovuto essere un nemico, eppure da nemico non si comportava... Le donne sarde intente alla filatura con quei gesti che vengono direttamente dal passato e i pastori dal volto severo e dai lunghi mantelli entrarono prepotenti nelle meravigliose, originalissime xilografie di Paule. Quattro intensi anni durò il suo confino di guerra, sei altri scelse lui stesso di trascorrerli in quella pace profonda e primordiale di cui ora si sentiva parte. "Dà una singolare soddisfazione di trovarsi in continuo contatto con queste primitive espressioni d'una gente che tiene con tenace forza le sue abitudini in vigore, - scrisse al suo amico Cerio dalla Sardegna - e conforta tanto più quando noi, ammalati d'una civilizzazione perversa, cerchiamo un mezzo pel risanamento o almeno istintivamente cerchiamolo, avviandoci così verso la sorgente, la fonte dionisiaca".
Nel 1924 l'artista ritornò a Capri dopo aver salutato Giovanni Tore con la sua allegra famiglia, che si trasferivano a Cagliari, e aver loro affidato pennelli, matrici e opere finite frutto di quel fertile periodo trascorso in terra di Barbagia.







Il pittore austriaco che amò due isole di Giuseppe Aprea




Morì ridendo, almeno così si racconta. In realtà non è mai stato chiaro se quella sera in piazza Hans Paule avesse voluto fare un sonoro e irridente sberleffo alla morte che veniva a prenderlo, oppure - ipotesi per lui assai meno gloriosa - se quell'uomo che tutti giudicavano "un po' strano" se ne fosse andato all'aldilà in un modo altrettanto "strano". Cioè soffocato sotto il peso di una risata. Di una di quelle sue risate che erano famose in paese, perché somigliavano allo scroscio di una cascata dalla folle altezza. In questa seconda, incresciosa eventualità - e su questo punto più di uno dei convenuti al suo funerale si trovò d'accordo - di positivo c'era soltanto una cosa. C'era che morire nella piazza di Capri, e in quel modo così spettacolare, era un po' come mettere la firma sotto un contratto che ti assicura una fama imperitura qualunque cosa tu faccia in vita: per un uomo, che per giunta è un artista, non c'è clausola più vantaggiosa che questa. E la storia ha dimostrato che avevano proprio ragione quei "tali", al suo funerale: del pittore Hans Paule, e di quella risata che se lo portò via in una giornata di novembre grigia come quelle che l'avevano preceduta, a Capri nessuno si è mai scordato. Non sarà quindi come per Crisippo il filosofo, che per il troppo ridere davanti ad un asino che s'ingozzava di fichi fino a scoppiarne scoppiò a sua volta, e oggi non se lo fila nessuno...! Ora, se è vero quel che alcuni credono, che il Paradiso di volta in volta assuma le forme del luogo più bello in cui abbiamo sognato di vivere - che so, per i pescatori un lago azzurro e quieto dove i pesci siano cento volte più numerosi dei ciottoli sulla riva - nel caso di Hans Paule l'Eden avrebbe dovuto assomigliare ad una caverna. Proprio così, una caverna, grande abbastanza per viverci comodamente: qualcosa di molto simile alla Grotta dei Faraglioni, dove lui era vissuto un po' suo malgrado e un po' per sua scelta per qualche tempo appena giunto da Vienna, la città dov'era nato nel 1879 (quando emigrò a Capri si era negli ultimissimi anni dell'Ottocento). Il vero grande amore della sua vita era infatti la Natura e da innamorato era entrato a far parte, nel 1998, della Comunità Naturista fondata da Karl Wilhelm Diefenbach proprio nella sua città, nella Villa Himmelhof.




E fu proprio in seguito alle notti appassionate trascorse dormendo sulla nuda roccia, dissetandosi con le gocce filtrate da una stalattite e lavandosi al mattino con l'acqua piovana di una pozza a pochi metri dal mare, che Edwin Cerio, lingua colta e malandrina dell'isola, lo definì una volta il "pictor spelaeus"... Giusto, "pictor". Perché ciò che il giovane Paule faceva tutto il giorno senza mai stancarsi, in quella sua grotta che avrebbe fatto sognare persino Omero, era disegnare ciò che cadeva sotto i suoi occhi d'innamorato: le onde del mare, le ombre scure delle rocce, l'eterno rincorrersi delle nuvole. Per farlo usava il carboncino, procurandosi il necessario dopo aver dato fuoco agli sterpi fuori dalla sua caverna, bruciati dal sole e dal sale; di carta ne aveva a volontà: quella che gli era rimasta dopo il distacco dal suo amato maestro d'arte e di vita che per lui era stato il famoso Diefenbach. E fu così che tratto dopo tratto, ombra dopo ombra, il giovane pittore cavernicolo accumulò tanto materiale da ingombrare parte della sua affascinante pur se umida dimora e da attrarre,




affamato che ogni notte faceva capolino nella grotta. Il curioso "sui generis" cui alludiamo era un mercante d'arte: si presentò un bel giorno con tanto di biglietto da visita e per il nostro Hans fu il battesimo del fuoco. Dopo di lui ne arrivò un altro, più in là un altro ancora. Avvenne così che, dopo un po' di tempo, nella grotta profonda dove Hans Paule il viennese a lungo si era sfamato leccando rossa linfa di riccio di mare e succhiando uova di gabbiano, si verificasse una specie di miracolo. Cioè che quel rozzo cavernicolo dai lunghi capelli e dalle mani perennemente sporche di carboncino scoprisse all'improvviso il fuoco, e con esso le fumanti, odorose emozioni che dopo il suo abbraccio mascolino emanano la chichierchia di Anacapri, la grassa quaglia settembrina, il sarago del mare di Mulo. L'altra cosa che accadde, importante al punto da avere conseguenze rilevanti in (quasi) tutti i giorni che seguirono, fu che egli assaggiasse per la prima volta il vino di Capri, e che ne restasse folgorato al punto da eleggerlo ad amico del cuore. Un amico da tenere sempre accanto a sé. Paule si tagliò il pelo irsuto, sgrossò il barbone da satiro, si cambiò d'abito e si affacciò in paese, accorgendosi con meraviglia che tutto e tutti, lì, parlavano la sua stessa lingua. A cominciare da don Peppino e donna Lucia Morgano, i gestori del caffè allora in gran voga nell'isola, che si chiamava Zum Kater Hiddigeigei e aveva insegne in tedesco, vendeva salsicce e birra della Baviera e si trovava lungo una via che non si chiamava Savoia ma Hohenzollern, come la nobile dinastia di Prussia. Quando il pittore austriaco si rimise dalla sorpresa era troppo tardi: i disegni che aveva portato con sé per mostrarli (magari vendendone qualcuno) alla colta e facoltosa clientela di donna Lucia piacquero tanto da andare a ruba. Fu un certo Wenck, che si presentò come il direttore del Glaspalast di













Monaco, ad acquistarne una gran quantità, invitando calorosamente l'artista ad esporre in Germania ove gli avrebbe assicurato il più grande dei successi. Paule ne fu lusingato, com'era naturale, e ringraziò herr Wenck con altrettanto calore; ancora per un po', però, continuò a dormire nella sua grotta ai Faraglioni, a due passi dall'arco roccioso della Fontelina. Quando traslocò, grazie a quei primi denari guadagnati, scelse di non allontanarsi troppo dalla riva di quel mare che aveva più volte avuto come ospite nella sua grotta, nelle notti di tempesta, e si trasferì in un magazzino per attrezzi da pesca. In mezzo a nasse, reti, cordame d'ogni tipo e falanghe unte di grasso il suo cavalletto da pittore quasi non si vedeva... Fin quando non scoppiò la guerra e tutti gli austriaci, compresi i pacifisti convinti come lui, furono dichiarati nemici della patria, Hans Paule poté dire di aver trovato nel sole dell'isola un po' della sua parte di felicità. E poi? Poi arrivarono i gendarmi a

comunicargli la nuova destinazione ed a condurcelo gratuitamente, nell'estate del 1915. Poco male, tutto sommato: la Sardegna la circonda il mare, tale e quale Capri, e il piccolo centro in cui si trova la sua casa di confinato si chiama Arasulé. Il suono già gli scaldava un po' il cuore. Il suo primo amico in terra di Barbagia si chiamava Giovanni Tore: da molti anni era il sindaco dei circa tremila abitanti di Tonara, il paesino sardo di cui Arasulé era la frazione più piccola. A lui, che aveva moglie e sette figli, nessuno si era preoccupato di spiegare come comportarsi con quello sconosciuto e così, sistemarlo nella mansarda di quella casa che non usava se non di rado gli sembrò l'unica soluzione possibile... La casa di pietra di Arasulé, come un'isola bianca e leggera, galleggiava in mezzo ad un oceano verde e senza confini. L'aria non profumava di alghe marine, ma di muschio; di tanto in tanto il vento trasportava l'odore della legna di castagno appena tagliata. E c'era silenzio. Un silenzio dal sapore antico, e onesto. Giorno dopo giorno Paule si innamorò un'altra volta, perdutamente. Chi l'ha detto che non si possa amare due isole allo stesso modo, così come due donne, ognuna delle quali conosca il segreto della tua anima...? Così, per quattro fertili anni, il pittore delle isole visse lì, nella ansarda di Casa Tore magicamente trasformata in uno studio d'arte attrezzato anche per le xilografie, sua ultima grande passione d'artista. Le matrici delle opere Hans le ricavava dal docile legno di castagno, naturalmente, quello che la natura ha creato perché si lasci incidere dalle mani degli uomini saggi... Così, in una felicità inattesa, trascorsero i giorni dell'esilio. Scanditi dai campanacci delle greggi, consumati in lunghe cavalcate nei boschi di Barbagia, tra lecci e castagni dalla

perduta età e corsi d'acqua impetuosa e sincera. Profumati della solitudine dei nuraghi, manieri inviolabili e severi. Colorati dell'amicizia dei Tore e della gente di Tonara, che aveva imparato a rispettarlo, quel "tedesco" che avrebbe dovuto essere un nemico, eppure da nemico non si comportava... Le donne sarde intente alla filatura con quei gesti che vengono direttamente dal passato e i pastori dal volto severo e dai lunghi mantelli entrarono prepotenti nelle meravigliose, originalissime xilografie di Paule. Quattro intensi anni durò il suo confino di guerra, sei altri scelse lui stesso di trascorrerli in quella pace profonda e primordiale di cui ora si sentiva parte. "Dà una singolare soddisfazione di trovarsi in continuo contatto con queste primitive espressioni d'una gente che tiene con tenace forza le sue abitudini in vigore, - scrisse al suo amico Cerio dalla Sardegna - e conforta tanto più quando noi, ammalati d'una civilizzazione perversa, cerchiamo un mezzo pel risanamento o almeno istintivamente cerchiamolo, avviandoci così verso la sorgente, la fonte dionisiaca".




Nel 1924 l'artista ritornò a Capri dopo aver salutato Giovanni Tore con la sua allegra famiglia, che si trasferivano a Cagliari, e aver loro affidato pennelli, matrici e opere finite frutto di quel fertile periodo trascorso in terra di Barbagia. Il pictor spelaeus tornava al suo primo amore, a quella piccola isola dove le grotte erano ancora abitate dalle sirene, anche se più non c'era Gilbert Clavel, compagno di un tempo, esteta senza fortuna e fissa dimora, che nella villa Saida di Anacapri aveva tante volte ospitato i protagonisti di una irripetibile stagione di arte, d'amore e di follia. I nuovi amici di Paule, finito il dorato esilio in terra sarda, furono allora soprattutto artisti - i pittori Kluck e Perindani - ma anche innamorati d'arte: tra essi Otto Sohn-Rethel, tedesco, grande collezionista di cose orientali, animatore, presso la sua casa, di un frequentatissimo cenacolo d'intellettuali cui si abbeverano giovani pittori capresi come Rosina Viva e Raffaele Castello. Poco lontano da lì, dalla sua villa Lina, c'è la villa San Michele di Axel Munthe, il medico affascinante e misterioso di cui si dice che la regina Cristina di Svezia sia segretamente innamorata. In compagnia di questi illustri "deragliati", come li chiamava nelle sue cronache colte Edwin Cerio, Hans Paule visse così l'ultima lunga, grande stagione della sua vita. Il violino di Paolo Falco, sulla strada verso l'Arco Naturale, era il suo compagno al tramonto, quando parte dell'isola abbracciava il silenzio e parte invece andava in sposa all'allegria.






















Con la risata senza freni a far da primo testimone alle nozze. E il vino di Capri della trattoria Settanni, che sapeva di gioventù e d'amori bevuto in compagnia, a fare da secondo. L'isola, la sua piazza, le stradine, i muri a secco e i fichi d'india diventavano ora i protagonisti vivi e brillanti delle sue xilografie, mentre continuava la sua personale ricerca della perduta perfezione. Di quella fonte dionisiaca che ognuno degli uomini sogna in cuor suo di trovare. Questo fino a quel fatidico 22 novembre del 1951 di cui dicevamo all'inizio, quando l'eco della sua ultima risata in mezzo alla piazza di Capri, pur sospinta da un vigoroso maestrale, prese il volo senza la solita prepotente energia. Era ancora indecisa se infrangersi contro le mura austere del vecchio episcopio o se disperdersi in mille rivoli lungo gli angusti vicoli del borgo, quando Hans l'austriaco era già arrivato dall'altra parte del mondo. Dove lo aspettavano quelli che non hanno più pensieri. Perché sono essi stessi, dei pensieri

HANS PAULE, Dioniso tra le isole. (tratto da l'austriaco che amava le isole Nel 1915 l'eccentrico artista viennese fu mandato al confino in Barbagia dove rimase 10 anni di Alessandra Menesini da L'Unione Sarda del 14/8/04)







Hans Paule, il viennese che amava le isole, tra Capri e la Sardegna consumò tutta la sua non banale esistenza. La mostra "Dioniso tra le isole. Hans Paule: un artista e il suo tempo. Capri - Sardegna 1900- 1951", allestita , fino al 31 agosto al Grand'Hotel Quisisana di Capri per la cura di Antonella Basilico Pisaturo (e organizzata da "La Conchiglia Libri & Arte"), mette insieme le opere di Hans Paule e dei suoi contemporanei. Di quelli, tanti, che scelsero Capri nell'inimitabile stagione della prima metà del Novecento e vi rimasero a lungo o non se ne andarono più.
Hans Paule morì, dicono, mentre si abbandonava ad una delle sue omeriche risate proprio nel cuore della Piazzetta di Capri. All'Isola Azzurra arrivò al seguito del suo maestro Karl Wilhelm Diefenbach, pittore tedesco di ta¬lento, dallo stile di vita assai originale comprensivo di saio bian¬co e barba patriarcale. Paule non era decisamente da meno. Viveva in una grotta, si cibava di ricci e patelle, si lavava in una pozza di acqua piovana e beveva le gocce di una stalattite. Colto troglodita, aveva studiato alla Kunstenhaus di Vienna e amava la compagnia delle sirene, ma non disdegnava di fre¬quentare il caffè Zum Kater Hiddigeigei, dove si radunavano gli eletti spiriti di quell'enclave cosmopolita. Una sera, si racconta, Hans il cavernicolo vendette al caffè un'intera cartella di disegni. Strappato da mercanti ed estima¬tori al suo anfratto marino, cambiò casa scegliendo, come consona dimora a un artista ormai acclamato, una rimessa di pescatori. Alla locanda Pagano incontra¬va aristocratici come la marchesa Casati, che aveva affittato la villa di Axel Munte, e colleghi di grido come Fortunato Depero. Quando, nel 1915, il Governo italiano lo confinò in Sardegna -perché infido suddito asburgico, - ne fu lietissimo. Proprio come accadde a Amelie Posse Bradzova, scrittrice svedese anche lei mandata al confino e dolcemente approdata ad Alghero e che interruppe a malincuore il suo "interludio di Sardegna" per poi subito dopo recarsi a Capri. Sicuramente felice dunque, raccontano gli scarsi biografi di Hans Paule, di addentrarsi in una terra selvaggia e inesplorata, planando nel cuore della Barbagia e rimanendovi per dieci anni. A Tonara dai dolci torroni, rievoca Giorgio Pellegrini, che si è messo per primo sulle sue tracce, fu accolto con molta benevolenza dal sindaco Giovanni Tore e dalla sua vasta famiglia. Di fronte al pericoloso confinato, il sindaco agisce secondo le più nobili regole dell'ospitalità. Se lo porta a casa - una casa di pietra nel borgo di Arasulè - e gli assegna la mansarda. Il luogo e la gente garbano tanto all'ex mangiatore di ricci da spingerlo a trattenersi in quel posto ben ol¬tre la fine della guerra. La mansarda diviene così un laboratorio di bellissime xilografie eseguite su robusto e duttile legno di castagno e la piccola Ester, settima e ultima figlia del sindaco Tore, attratta da questo "tedesco " che tramuta il legno in figure, impara a disegnare e a usare il torchio. Ogni tanto lo straniero accom¬pagna i venditori di pelli che a cavallo vanno nei paesi vicini ed è lì, in quelle contrade barbaricine, che Hans Paule trova la sua seconda "fonte dionisiaca". Forse non sarebbe mai andato via, se il sindaco amico non si fosse trasferito a Cagliari. Bisognava partire, tornare all'altra isola, non alla nordica natia Vienna. Paule affida tutta la sua produ¬zione alla famiglia Tore, affinché la conservi sino al suo (mai avve¬nuto) ritorno. Ma il destino di que¬st'uomo singolare volle diversamente. La casa che custodiva le opere divenne teatro di un delitto, quindi sigillata dai carabinieri e infine demolita. Sparirono in gran numero gli scuri pastori e le donne in costume, i ritratti che sembrano scaturire dalla materia stessa del legno. Silenzio e solitudine scolpirono quelle incisioni come la mano felice dell'autore e, insieme, le severe sagome sarde che si caricano di caldi colori mediterranei. Nell'energica sintesi consueta ad un artista tanto irruento nel carattere quanto sorvegliato nel gesto pittorico, appaiono anziani venerandi, donne in crocchio a filare la lana, giovani sdraiati. Il tratto è geometrico e netto, i volumi plastici, nel rendere il bianco e nero dell'abito tradizionale. Ma la portatrice di corbula si sta¬glia su un fondo rosso corallo che si riversa sulle sottane pieghet¬tate delle donne alla fonte. Nelle sue composizioni, Hans Paule asciuga ogni folklore, i suoi modelli sono assolutamente composti, quasi ieratici anche nel movimento. Lo guidava forse una sorta di rispetto per la terra dove aveva condiviso coi suoi ospiti "una vita intatta", ma già in pericolo se scriveva, nel settembre del 1921, al suo amico Edwin Cerio: "Anche la Sardegna muore". Un'attitudine alla riflessione che gli faceva replicare nei dipinti, nelle sanguigne, nelle acqueforti, i Faraglioni rocciosi di quell'isola di Capri dove rientrò nel 1924. Nella piccola patria ritrovata, Paule frequentava Alberto Moravia e Curzio Malaparte, partecipava alle feste elegantissime del conte Fersen con i sandali ai piedi e una camicia a quadri, sorpreso del riguardo con cui, in quegli anni e in quel luogo, si trattava un artista.Scorre un'epoca, sul catalogo edito da "La Conchiglia Libri & Arte", i nomi e le immagini tra gli altri di Gilbert Clavei, Laetitia Cerio, Paolo Falco, protagonisti delle estati capresi. Un autoritratto, e una foto, di Hans Paule ce lo mostrano con gli occhialini tondi, corta barba, l'espressione intensa: le sauvage che ha scru¬tato la sua anima tra il mare di Capri e i graniti di Barbagia.

HANS PAULEN, DA CAPRI A TONARA, (tratto da Hans il cavernicolo di Edwin Cerio)

 

FONTE:HANS il cavernicolo



Così lo scrittore caprese Edwin Cerio lo aveva soprannominato, colpito dalle sue abitudini decisamente curiose. Abitava in una grotta affacciata sul mare, dormiva per terra, si nutriva di patelle e ricci di mare, si lava



va in una pozza d’acqua piovana scavata tra gli scogli e beveva le gocce che trasudavano da una stalattite. Ma questo modo di vivere non gli aveva impedito di frequentare il fior fiore del bel mondo che soggiornava a Capri nei primi decenni del secolo scorso: una società gaudente e cosmopolita, che riuniva personaggi mondani e intellettuali, aristocratici in declino e scrittori in ascesa. Allora, tra i tavolini dei caffè della Piazzetta o nelle ville immerse nel verde si potevano incontrare la marchesa Casati e il conte Fersen, AlbertoMoravia e Curzio Malaparte, Axel Munthe e Fortunato Depero. E poi, tutt’un tratto, comparve anche lui, Hans Paule: occhialini tondi, barba fulva, sguardo intenso, camicia a quadri e sandali francescani. Inutile chiedersi chi fosse, tutta l’isola lo conosceva. Era arrivato a Capri nei primi anni del Novecento da Vienna, dove era nato nel 1879, per raggiungere un artista, il pittore tedesco Karl Wilhelm Diefenbach, che aveva conosciuto nella capitale asburgica quando, giovanissimo, frequentava l’Accademia di Belle Arti per studiare disegno. Come Diefenbach, Paule vedeva l’isola come un luogo primordiale, una terra arcadica dove era ancora possibile vivere a stretto contatto con la natura. Una filosofia che Hans condivideva con Karl, ferreo seguace di un rigoroso naturismo, che gli aveva già causato non poche noie in patria. Ma a Capri quell’uomo dallo sguardo estatico, che indossava solo un saio bianco, camminava sempre scalzo e portava i capelli lunghi fino alle spalle, aveva trovato il suo ambiente ideale. «Capri mi basterà per tutta la vita, con queste aspre rupi che io adoro, con questo mare tremendo e bellissimo, benché in verità io vi soffra il martirio del boicottaggio dei miei connazionali, che venendo qui muovono contro di me vergognose accuse di immoralità e di empietà». Così diceva Diefenbach, un artista dal comportamento simile a quello dei Nazareni, quel gruppo di pittori tedeschi che si erano stabiliti a Roma all’inizio dell’Ottocento, abitavano in un convento e giravano la città vestiti come Gesù Cristo. A differenza però dei Nazareni, la sua pittura non era affatto ispirata agli ideali estetici di Beato Angelico o Raffaello. Tutt’altro. Nei dipinti di Diefenbach, intrisi di un simbolismo oscuro e tellurico, le rocce e gli scogli di Capri si trasformano in un mondo di visioni tenebrose, tra grotte illuminate da improvvisi bagliori di luce e orizzonti marini tenebrosi.

Ma torniamo al giovane Paule, nuovo abitante della Capri inizio Novecento, che passa le sue giornate a disegnare scorci dell’isola amata. Il suo tratto è diverso da quello di Karl. Niente visioni simboliste né atmosfere drammatiche, ma disegni dal tratto forte e deciso, di matrice espressionista.

Un’arte che Hans promuove a modo suo, tra i tavoli del caffè Zum Kater Hiddigeigei, il ritrovo degli intellettuali dell’isola. La sua autopromozione dà ottimi risultati, tanto che in una sola giornata riesce a vendere un’intera cartella di disegni. Fortunati anche gli incontri con gli abitanti più illuminati dell’isola, coi quali Paule stringe intense amicizie. Primo tra tutti Gilbert Clavel, il brillante e cosmopolita esteta omosessuale incontrato proprio al caffè. «Improvvisamente, da un punto imprecisato, qualcuno chiama il mio nome: Clavel. E un viso barbuto mi viene incontro» scrive Gilbert sul suo diario. «è così che ho incontrato Paule. Avevamo molto da raccontarci contarci, tanto che la nostra conversazione si è prolungata fino al mattino». Ma quegli anni felici non durano a lungo: nel 1915 il pittore viene confinato dal Governo in Sardegna, e abbandona Capri per diversi anni.



DA CAPRI A TONARA

Da un’isola a un’altra, la fortuna di Hans si rinnova. Si stabilisce nel cuore dell’isola a Tonara, una cittadina della Barbagia di Belvi, dove abita nella mansarda della casa di Giovanni Tore, sindaco della città. E lì, in quella dimora di pietra affacciata sui boschi, l’artista sperimenta la tecnica che diventerà il suo principale linguaggio espressivo: l’incisione su legno.

«Quel legno di castagno onnipresente, vera ricchezza di Tonara, robusto e leggero, tenero e pastoso, abituato da millenni al tormento del ferro di boscaioli e abili intagliatori» sottolinea lo storico dell’arte Giorgio Pellegrini, che ha ricostruito l’avventura artistica di Paule in Sardegna. Un’avventura che vede il pittore trasformare la mansarda in un laboratorio xilografico, dove realizza decine e decine di incisioni dedicate alla vita rurale della Barbagia. Opere in grado di interpretare il carattere schivo e orgoglioso del popolo sardo, reso dall’artista con uno stile secco e deciso, tutto giocato su forme geometriche accentuate da forti e sapienti chiaroscuri. Uomini che indossano costumi tradizionali, vecchi dalla lunga barba bianca, donne avvolte in pesanti mantelli intente a filare in silenzio. Nelle xilografie di Paule l’anima sarda torna a rivivere in un’arte sospesa nel tempo, che ricorda i primi dipinti dei protagonisti delle avanguardie russe, da Larionov a Malevic. Ma anche questo nuovo capitolo della vita del pictor spelaeus era destinato a concludersi di colpo, quando nel 1924 il sindaco Tore si trasferisce a Cagliari e Paule decide di tornare a Capri, dove rimarrà fino alla sua morte improvvisa, nel 1951. Anch’essa peraltro avvolta nella leggenda, che vede il pittore accasciarsi al suolo dopo una lunga e fragorosa risata.

Sono anni fecondi, che vedono l’artista proseguire la sua interpretazione del genius loci dell’isola attraverso la xilografia. Scorci di case, profili di scogli, vedute di casolari ombreggiati dai pini, barche con i loro rematori: immagini di una realtà sospesa in un tempo lontano, quando Capri non era ancora il ritrovo mondano del jet-set internazionale. Allora, i “compagni di strada” di Paule erano artisti che avevano identificato quel piccolo angolo di mondo come fonte di ispirazione per i loro dipinti: Raffaele Castello, Otto Sohn-Rethel, Walter Depas, Carlo Perindani. Protagonisti di un mondo documentato dal catalogo della mostra “Dioniso tra le isole. Hans Paule: un artista e il suo tempo” organizzata qualche anno fa da La Conchiglia Edizioni & Arte e curata da Antonella Basilico Pisaturo. Grazie al paziente lavoro della studiosa e di Giorgio Pellegrini, abbiamo scoperto il talento del pittore cavernicolo, che ha saputo cogliere l’anima di Capri in maniera originale e inaspettata.


IMPENSATE VISIONI


Per circa quarant’anni se ne stette qui, tranne rare avventurose scorribande in Sardegna. Ci sembra ancora di sentirlo raccontare, con la sua voce potente, la sua prima conoscenza dell’isola maliarda, allorché abitò per diversi anni nelle grotte di Capri, come a contatto col segreto della sua bellezza. Davanti alla vita di quest’uomo straordinario, noi dobbiamo chiederci se molti altri artisti seppero nell’Isola Azzurra raggiungere tale manifesta armonia fra modo di vivere e creazione dell’opera d’arte. Il dissenso eterno, la delusione che l’artista spesso sommo vi dà con l’esempio di una vita povera, in confronto alla ricchezza raggiunta dalla sua arte, in Paule non si è mai verificato. Nodose come il suo corpo – «io sono una quercia di qui» egli diceva «o una roccia» – erano le xilografie che vi mostrava, staglianti su pochi accordi di colori, ricche sempre di una fantasia suscitatrice di favole o di miti classici. Perciò la sua arte compiva il miracolo di risvegliare davanti ai vostri occhi le più impensate visioni.

Ettore Settanni Da Miti, uomini e donne di Capri

HANS PAULE, l'eccentrico artista viennese che visse a Tonara nel 1921.







Le contrade di Toneri nel 1866 di Nino Mura

alusac eleirbag