venerdì 31 ottobre 2008

ANTICHITA', RUDERI, NURAGHI, DOMOS DE GIANAS, ECC.TROVAMENTI



Fonte: TRADIZIONE E MODERNITA' A TONARA in un inchiesta condotta nel 1928 da Giuseppe Tore. - 1995- TONARA - pag.201.202.

Verso la regione Trocheri, e nel punto di strada ferrata più prossimo al paese, esisteva il villaggio di Intrerrios, che significava paese tra i rivi. Di tal paese non resta memoria di sorta. Le traccie poi che, al fiume s'Isca, esistono presso il molino idraulico di un molto antico proprietario di esso, certo sacerdote Emanuele Defigus, secondo le fondate as¬serzioni di quest'ultimo sono avanzi di un ponte romano. Tali traccie sono in regione Garrutu.
Presso la frazione di Toneri esistono ruderi ben solidi della chiesa di S. Anastasia, costruzione artistica pisana.
Sul poggio su Nurazze, presso la località Su Pranu e Perdas Lobàdas e in prossimità al paese, sorgeva un nuraghe, in vista della rupe Tessile di Aritzo.
Non molto distante da Su Nurazze, in regione Marti e s'Iscova, si hanno le domos de i' gianas costituite di due stanzette comunicanti fra loro. Questa necropoli fu descritta e illustrata dal prof. Antonio Taramelli, direttore del museo di Cagliari, nel bollettino di antichità, verso il 1908.
Anche nelle regioni di Mattalè e di Tracullàu o Tonnài, trovansi traccie di abitazioni. In Tracullàu dal 1855 al 1860 all'incirca si fecero degli scavi, e vennero messi alla luce quattro orci o vasi, dei quali tre si sfasciarono perchè umidi ancora, il quarto perchè tolto con maggior attenzione e asciugato subito al sole, potè essere conservato, tanto che esiste ancora; è visibile in una casa privata [Legg. al capitolo n. 17 pag. 128].
Di Tracullàu o Tonnai, del nuraghe accennato e di Mattalè, si riporta quanto scrisse it celebre Canonico Giovanni Spano nel 1860 e nel 1864, e cioè:
1) "Nel sito denominato Mattalè, in territorio di Tonara, si osservano ruderi di edifizi antichi, e si sono scoperte molte sepolture. Ivi si è trovata una moneta d' oro con 1' effigie dell'imperatore Teodosio. Busto con elmo e lancia sull'omero destro D.N.Teodosius P E.Aug. Nel rovescio figura intera una corazza, con la destra tiene it labaro, e con la sinistra it globo sormontato dalla croce, nel campo sinistro stella Gloria Orvis Terra. Nello esergo Conob. Ci assicurano che ne sono state trovate altre, ma che furono vendute ad orefici per squagliarle .


2) "Nel tempo dell'impero Cartaginese e Romano, anche i punti più montuosi della Sar¬degna erano abitati e coltivati. Una escursione che nello scorso anno (1864) abbiamo fatto al villaggio di Tonara, ci ha lasciati convinti di questa verità. Nel sito appellato Ton¬nai presso to stesso villaggio si trova it suolo pieno di stoviglie diverse, si scoprirono bronzi ed altri oggetti, ed ultimamente si estrassero quattro vasi in forma di giare. Ivi passava la strada romana the menava a Sorradile, passando per Austis nel sito di Perda Litterada, dove giaciono molti monumenti letterati e Perdas Fittas di Fonni.
Esiste anche in vicinanza al villaggio un nuraghe detto Perdas Lobadas, cosi detto perche in vicinanza esistono due grandi monoliti appaiati di roccia naturale. A proposito di questi nuraghi, pare che il villaggio di Tonara, abbia tenuta la stessa conformazione degli antichi popoli fondatori dei nuraghi, the vivevano uniti per potersi scambievolmente aiutare. Tale nuraghe fin dal tempo della primitiva colonia seguito ad essere abitato fabbricando le case attorno al medesimo. Oltre le diverse stoviglie vi si trovano a fior di terra molte monete od utensili, fibule ed altri oggetti. Il Teologo Pietro Todde, Rettore dello stesso villaggio, mi fece vedere molte monete raccolte da lui stesso nell' alto the vi fa delle passeggiate, fra le quali una di Sardus Pater bucata. In vicinanza del nuraghe vi è una necropoli del tempo Cartaginese Romano, che consiste in caverne scavate nelle rocce schistose, dette Forreddos de Yanas ("Canonico G. Spano "Bollettino Archeologico Sardo", n. 7, anno X, luglio 1864. Pag. 106-107)

I vicinati di Tonara, di Maria Deligia

Tratto liberamente da http://digilander.libero.it/cittatonara/documenti/interventi/vicinati.htm


(.....) Per moltissimi anni il paese di Tonara è rimasto identico a se stesso; la sua popolazione distribuita nei quattro rioni di Arasulè, Toneri, Teliseri e Ilalà si dedicava prevalentemente ai lavori pastorali e agricoli. Ogni rione, forse a causa della distanza che lo separava dagli altri, aveva una propria organizzazione interna che spesso si traduceva in vera e propria autonomia economica. La distanza tra i diversi rioni e l'autonomia economica degli stessi furono probabilmene all'origine di quell'atteggiamento ostile che avevano le persone dei vari rioni nei confronti di coloro che abitavano negli altri rioni. Qualcosa all'interno del paese cominciò a cambiare nel periodo tra il 1875 e il 1890 durante il quale venne costruita la strada provinciale e venne completato il tronco ferroviario Cagliari - Sorgono. E' innegabile infatti che quel periodo abbia rappresentato per Tonara un punto di partenza verso un'economia favorevole, legata soprattutto allo sviluppo del commercio del Torrone e dei prodotti locali, che andò affermandosi già a partire dai primi anni del Novecento. Ma, se da una parte la costruzione della strada provinciale favorì l'evolversi dell'economia Tonarese verso forme di attività più redditizie, dall'altra contribuì ad isolare ulteriormente i rioni di Tonara che abbiamo definito "agricoli", cioè Toneri, Teliseri e Ilalà dal rione di Arasulè caratterizzato principalmente da un'economia pastorale. L'elevato grado di isolamento dei rioni di Tonara tra Otto e Novecento è confermato anche dai risultati dell'analisi condotta sugli atti di matrimonio del comune di Tonara tra il 1879 e il 1925. Il rione più isolato di Tonara fu sicuramente Ilalà che venne completamente abbandonato dai suoi abitanti nel 1930; le famiglie che vivevano ad Ilalà si spostarono nei rioni più alti di Tonara, soprattutto nel rione di Teliseri. Dal 1930 in poi, anche gli abitanti di Toneri Cominciarono ad abbandonare i vicinati periferici per stabilirsi nei vicinati più interni del rione. Col trascorrere degli anni infatti, i vicinati periferici di Morù e soprattutto di Cartuzzè, un tempo completamente abitati, sono stati assorbiti dagli orti. Contemporaneamente all'abbandono delle zone periferiche, si è assistito all'espandersi del rione di Toneri verso Nord e alla sua saldatura con Arasulè tramite la strada provinciale. Intanto il rione di Teliseri rimaneva sempre più isolato sia da Toneri che da Arasulè. Sino a quel periodo comunque ogni persona di Tonara viveva quasi esclusivamente all'interno del proprio rione. Il salto vero e proprio verso una integrazione tra le persone dei tre rioni di Tonara si è avuto solo dopo il secondo dopoguerra, quando cioè la maggior parte della popolazione di Tonara smise di considerare il proprio rione come la parte più importante di Tonara e si trovò concorde nell'attribuire grande importanza alla strada provinciale e ai due vicinati che delimitavano Arasulè a Sud, cioè S'istradoneddu e Sant'Antonio. Fu in queste zone infatti che vennero situati la maggior parte dei negozi e dei luoghi pubblici cioè le scuole, il Comune, il medico, l'ufficio postale, la farmacia, la caserma, i giornali ecc.. Da quel momento in poi è a questo spazio che le persone di Tonara fanno principalmente riferimento per gli acquisti e gli incontri, è questo il vero centro del paese. Fu proprio a partire da quegli anni che l'abitato di Tonara iniziò ad estendersi verso Su Pranu, inizialmente con costruzioni abusive. Su Pranu venne ufficialmente dichiarata zona fabbricabile dal piano regolatore del 1957 che per Su Pranu ammetteva "solo costruzioni a carattere residenziale con possibilità di impianti artigianali". In effetti le nuove costruzioni di Su Pranu si diversificarono rispetto alle costruzioni presenti nei rioni di Toneri, Arasulè e Teliseri. Case addossate le une alle altre disposte in due file parallele separate da stradine il più delle volte molto strette nei vecchi rioni: case costruite, invece, con una particolare cura architettonica nel nuovo rione di Su Pranu. La maggior parte delle costruzioni di Su Pranu infatti, hanno un piccolo cortile, il garage e la cantina al piano terra e gli appartamenti nei piani superiori. Anche le strade a Su Pranu sono considerevolmente più grandi rispetto agli altri rioni. Il rione di Su Pranu nel corso di circa trent'anni si è completamente popolato, ed il suo popolamento è avvenuto a spese dei rioni storici e soprattutto a spese di Toneri che dagli anni Settanta in poi ha visto molti dei suoi abitanti, tra i quali parecchi ambulanti di Torrone, abbandonare le loro piccole case e trasferirsi nei nuovi e confortevoli appartamenti di Su Pranu. Per Toneri, e in modo più marcato per Teliseri che è sempre stato il rione meno popolato del paese, dopo Ilalà, la nascita e la crescita di Su Pranu hanno determinato dapprima un rallentamento delle attività commerciali esistenti al loro interno e successivamente la completa chiusura delle stesse. Come è già stato detto, già da diversi anni a Teliseri non ci sono più negozi; a Toneri, invece, attualmente c'è solo un negozio di generi alimentari, un tabacchino e una rivendita di pane tipico, solo venti anni fa invece c'erano, oltre le attività tuttora presenti, quattro negozi di generi alimentari, due bar, una rivendita di dolci e la fabbrica del Torrone. Anche Arasulè nel corso degli anni ha visto molti dei suoi abitanti trasferirsi a Su Pranu. Nonostante questo però gli abitanti di Arasulè, a differenza di quelli di Toneri e Teliseri, possono ancora oggi fare tutti i loro acquisti all'interno del loro rione. Da quando molti abitanti dei vecchi rioni si sono trasferiti a Su Pranu, i rapporti di vicinato personale che, come abbiamo visto prima, avevano molta importanza per le persone del paese, hanno perso d'intensità e si sono ridotti a semplici scambi di informazioni e il più delle volte, come avviene tra le persone che vivono a Su Pranu, ad un saluto molto frettoloso. Ma, se da una parte sono venuti meno i rapporti di vicinato personale, dall'altra si sono intensificati i rapporti tra le persone dei diversi rioni. Oggi infatti, e differenza del passato, i giovani e i bambini stringono amicizia con tutti indipendentemente dal rione in cui vivono, si può infatti affermare senza paura di sbagliare, che si sia arrivati ad una completa integrazione tra le persone di Arasulè, Toneri e Teliseri. Un ruolo fondamentale in questo processo di integrazione lo ha avuto sicuramente la scuola; e a scuola infatti che i bambini dei diversi rioni instaurano un rapporto di amiciia che poi coltivano anche fuori. A Tonara, soprattutto gli anziani, i quali hanno vissuto una realtà completamente diversa, si rendono conto di come siano effettivamente cambiati rispetto al passato i rapporti tra le persone dei diversi rioni.

domenica 19 ottobre 2008

TONARA NEL DIZIONARIO DEL CASALIS

con la COLLABORAZIONE del Prof. Vittorio Angius

Tonara , villaggio della Sardegna nella provincia dì Nuoro, capoluogo di mandamento, sotto il tribunale di prima cognizione della predetta città. E’ compreso nella Mandra e lisai , regione della Barbagia , e dipartimento dell’antico regno di Arborea. La sua posizione geografica è nella latitudine 40° 1’ 10’’ e nella longitudine orientale del meridiano di Cagliari 0° 4. Siede nell’alto tra il principio di due valli, una inclinata verso austro , l’altra nella parte contraria, ma non nel mezzo perché il suo più alto rione è di alcun poco distante dal vortice o linea divisoria delle acque ne’ primi gradi della discesa all’austro. Questa valle australe è fiancheggiata a levante dalla mon lagna, detta Genna de Floris a ponente da vari colli , uno de’quali è deto propriamente Su Toni o Toneri. Questa parola nell’uso del paese significa generalmente grandi roccie ed enormi rupi ardue e difficili all’accesso . Noi la ritroviamo in altri luoghi della Barbagia , nel ramo australe del Montargento, dove è il Tòniri di Irghini , e nei monti della Barbagia Seulo in una roccia che che resta ad ostro-libeccio e a due miglia dalla Petra Iliana. Siccome di detti toni o tòniri si trovano alcuni presso il paese considerato, però stimano molti che il suo nome Tonara derivi da’ medesimi . Il comune di Tonara è diviso in quattro frazioni o rioni che nel paese diconsi vicinati. Questi vicinati sono ordinati in scala nella discesa del monte, o nella sua pendice. Il rione superiore e insieme il più popolato ha il nome proprio di Arasulé ed è disposto incontro all’austro. Il secondo è detto Toneri o Toniri , meno popolato deI precedente, ma più degli altri. Ha questo nome perché dalla pane di ponente si appoggia al gran colte detto su Toni o Tòniri, onde resta in esposizione incontro al levante. Il terzo si nomina di Taliseri, resta più a levante degli altri ed esposto all’austro. Il quarto, inferiore agli altri perché è prossimo agli ultimi gradi della pendenza e meno degli altri popolato,appellasi di Ilalà, giace al scirocco degli altri e riguarda il ponente,restando diviso da Taliseri per un ruscello, che ha le sue scaturigini nella parte superiore della montagna, volgarmente appellata del Sèssini. Le acque di questo ruscello per ragione del sito scosceso e sassoso scorrono rapide e tanto sonanti, che pure, quando esse sono in poca quantità, bisogna gridare perché si senta la voce da una sponda all’altra. Le strade del paese sono in generale scoscese e strette. Ma fuori del paese a piccola distanza trovansi alcuni tratti dove si può passeggiare e nell’estate rallegrasi la vista in una prospettiva amenissima, e da qualche parte assai larga. Trovandosi Tonara presso al gruppo del Montargento in molta elevazione e presso montagne che mantengono nel dorso per molti mesi la neve, intendesi che il clima deve esser freddo; tuttavolta per la situazione che abbiamo accennata restando tutte le frazioni del medesimo difese dalla tramontana ed in esposizione all’austro il freddo invernale non è tanto intenso , quanto si potrebbe supporre, epperò il suolo facilmente si disgombra delle nevi se a’ temporali nevosi seguano giornale serene. Spesso dentro i paese il nevazzo levasi ad un metro e resta delle settimane intere, I vecchi conservan memoria della nevata del gennajo 1793, quando in alcuni siti dentro l’abitato il nevazzo elevossi a metri 10 e più ancora dove la tormenta ammucchiava le falde. Si rammentano tanti altri temporali ma non di effetto tanto notevole. Il freddo in certi notti d’inverno va sino a -8°. Come le nevi così le piogge estive cadono qualche volta a torrenti , e tutti ricordano il temporale notturno del 3 ottobre 1830, che durò sole due ore, e rovesciò molte case, e cagionò gravissimi guasti nelle campagne e nei boschi, e l’altro de’ 24 luglio 1831, il quale scoppiò dopo le due pomeridiane e proseguì per due ore danneggiando molto più che aveva fatto il precedente. Di primavera e di autunno si vedono nelle valli e nelle gole delle montagne nebbie dense, le quali però non sono mai state riconosciute maligne, essendo esse veri nuvoli. L’umidità sentesi ne’ tre rioni inferiori e nulla nel superiore. Il maestrale riflesso dalla montagna di Genna de Floris vi si fa sentire e spiega molta forza, che nuoce a’ seminati ed agli alberi. Il libeccio fa altrettanto. L’aria di Tonara è pura d’ogni maniera di miasmi.
Non è questo molto esteso perché forse la sua area non pareggia le 20 miglia. Esso è quasi tutto montuoso, non pertanto non mancano de’ piccoli piani. La montagna principale è la così detta Genna-de-Floris, la quale è una dipendenza del Montargento, di cui può trovarsi la descrizione nell’articolo Sardegna. Dalla sua giogaja scuopronsi tutte le regioni occidentali e lo sguardo distendesi ne’ mari di ponente. In molti tratti la selva de’ ghiandiferi, mescolati di altre specie, è folta, e si vedono alberi annosi e folti ; in altri è rara e gli alberi di aspetto meschino. Le fonti si aprono a tutti i passi per così dire, e alcune di una copia notevole. Le acque sono di tutta bontà. Qui però devesi fare una eccezione , e sarebbe per l’acqua che bevesi nel vicinato di Toneri, acqua che non è di cattivo gusto , ma che tuttavolta si sente men buona di quella che bevesi negli altri rioni. Alla quale si attribuisce certa deformità che patiscono molti di coloro che ne bevono e specialmente le donne, e voglio dire il gozzo , che in alcune cresce al volume d’un’arancia ordinaria, in altre anche più. Intanto questa supposizione viene a confermarsi in quanto parecchie donne degli altri rioni , le quali frequentano il rione di Toneri e vi stanziano per le loro faccende contraggono per lo più la stessa deformità. Si è fatta osservazione sopra alcune donne di Arasulè, le quali per matrimonio o per altro qualunque motivo avendo trasferito il loro domicilio in Toneri indi a poco lasciaron vedere nel collo un piccol nodo, che andò crescendo a poco a poco sino al sunnotato volume. Nel territorio di Tonara si formano alcuni rivi, de’ quali uno discende nella valle boreale, l’altro nella valle australe, il quale, come abbiam notato, ha origine nel monte Sessini. il grosso selvaggiume vi è abbondante, e si trovano cervi, cinghiali e mufloni. E’ pure abbondantissimo l’uccellame grosso e gentile.



La Popolazione

Nel censimento del 1846 si notarono in Tonara anime 2476 , distribuite in famiglie 648 ed in case 472 . Il detto totale distinguevasi in uno ed altro sesso secondoi diversi periodi dell’età nelle seguenti parziali;sotto gli anni 5 maschi 145, femmine 159; sotto li 10 mas. 137, fem.134; sotto i 20 mas. 154, fem. 196; sotto i 30 mas 118,fem. 154; sotto i 40 mas. 131 , fem. 128; sotto i 50 mas.116 , fem. 138; sotto i 60 mas. 104 , fem. 117; sotto 70mas. 98 , fem. 118; sotto gli 80 mas. 81 , fem. 98 sotto i 90 mas. 76, fem. 30; sotto li 100 mas 27, fem. 17. Distinguevasi poi secondo le varie condizioni domestiche il totale de’ maschi 1187, in scapoli 695, ammogliati 436, vedovi 58; il totale delle donne 1289 in zitelle 691, maritate 439, vedove 159. I numeri medi del movimento della popolazione sono i seguenti; nascite 95, morti 65, matrimoni 18. Molti vivono alla decrepitezza, e tra il 1830 e il 1852 morirono due più che secolari. Le malattie più frequenti sono i dolori laterali per le quali molti muoiono nell’età più verde La popolazione è pessimamente servita nel rispetto sanitario, perché non si hanno né medici, né chirurghi di abilità. I flebotomi suppliscono, e sarebbe meno male che mancassero anche questi. Nel vestiario i Tonaresi non hanno alcuna differenza dai popoli vicini;se non che le donne usano per velo un taglio di panno nero quadrilatero, non più lungo di metri 0,75. Esso è contornato di nastri di tal colore secondo il gusto, stringesi con un gancetto sotto il mento, e con le falde copre il petto. E se questa è la moda antica, provasi un’altra volta che il Dante non scrisse storicamente, quando notò la nudità impudente del petto delle donne toscane nella maniera delle barbaricine di Sardegna. Negli usi sono simili agli altri sardi e massime a’ loro compaesani della Barbagia: quindi vedi l’articolo Barbagia. Hanno gran passione per i balli e questi si fanno all’armonia del canto, non potendosi che di rado avere uno zampognatore. La professione principale è quella de’ pastori; vengono poi li agricoltori, i quali sono in minor numero e per lo più sogliono praticare qualche mestiere per occuparsi in quei mesi, ne’ quali non si può state sui campi. Oltre i mestieri comuni agli altri paesi noterò quello che è particolare a molti tonaresi , che faticano per asciare i tronchi e segarli , e poi smerciano nelle altre contrade in tavole, travicelli, e dogarelle. L’opera assidua alle donne è la filatura e la tessitura , e con la loro diligenza procurano alle famiglie un lucro talvolta notevole da tessuti, che vendono a rigattieri gavoesi, o cillonari, vedi art. Barbagia. La scuola elementare vi fu aperta prossimamente alla parrocchia, poco dopo l’editto delli 23 giugno 1824, e qualche volta fu frequentata da più di 80 fanciulli. Poi questo numero è andato in diminuzione, come andata stancandosi la vigilanza del parroco e la cura del maestro. Le persone che in tutto il paese sanno leggere e scrivere forse non sorpassano i 65.

L'Agricoltura

Credono i tonaresi che il loro territorio sia più atto alla cultura degli alberi, che a quella de’ cereali e molti vorrebbero che fosse così, perché non si dovrebbe faticare sull ‘aratro, e sulla vanga, e forse non desidererebbero più che pane di castagne o di ghiande, delle quali si nutrivano i loro maggiori. Contrariamente a codesta loro asserzione, il territorio di Tonara è buono pure alle viti, e se fosse meglio coltivato produrrebbe maggior copia di cereali. La quantità ordinaria che si semina annualmente da’ tonaresi è di circa 700 starelli di grano, di 500 d’orzo, e di circa 70 starelli di legumi. La fruttificazione comune è del 7 per uno. L’orticoltura si restringe a pochi articoli, tra’ quali sono principali le zucche e i cavoli. Non sappiamo se la cultura delle patate siasi estesa , se quella della meliga fu introdotta. La vite vegeta con molto vigore , ma sopravvenendo il freddo prima che i frutti siano ben maturati, i tonaresi non sanno far altro per conservare i vini, che mescolarlo con sapa. Da questo si può intendere quanto essi sono ignoranti nell’arte di manipolare le uve. Siccome resta molto vino alla consumazione, non potendosi il superfluo vendere, però se ne brucia una notevole quantità per acquavite,la quale spesso riesce buona, e quasi basta alla provvista della popolazione, cioè degli uomini che vanno in campagna. Degli alberi fruttiferi la specie più comune è il castagno e vedonsi lunghissimi tratti dove questi piani fanno foltissimo bosco. Il numero de’ ceppi forse sorpassa i 200mila, Lungo i fiumi e i ruscelli trovansi in gran numero i noci. Nelle vigne si coltivano i nocciuoli, i ciliegi, i peri, i susini, i peschi, i meli di diverse varietà. Le prime tre specie si trovano pure insieme co’ noci fuor delle vigne. Dopo le vigne sono poco estese le terre chiuse, nelle quali non vedesi altro che i castagni e gli alberi che abbiamo indicato colti nelle vigne. Egli è però vero che in qualche parte sgombra si semina. In che ragione stia l’area chiusa alla superficie intera territoriale non abbiamo avuto dati per computarlo.

La Pastorizia.

Il bestiame manso numera gioghi 80, cavalli 170, majali 216. Il bestiame rude consiste in pecore 14.000, capre 7.000, vacche 1.250, porci 1.600. I pecorai ed i caprai vanno a svernare in luoghi più miti, perché discendono dal paese ne’ primi di novembre, e non vi risalgono che a’ primi di maggio, quando i nuovi pascoli sono in piena vegetazione. Le altre specie restano nel paese. I formaggi sono di mediocre bontà, e i più comuni o bianchi che poi si smerciano in Napoli, salati nelle cantine. L’aumento delle gabelle poste nelle dogane di Napoli sopra questo prodotto, avea immiserito la condizione de’ pastori. Mentre in altri tempi un pecorajo reduce dalle maremme, portava quanto era sufficiente, e altro ancora, per provvedere per tutto l’anno a’ bisogni della famiglia; poi il frutto che si ebbe nella stagione invernale bastò appena per pagare i pascoli. Nel trattato però del 1846 la tariffa delle dogane napolitane fu ribassata, ed i pastori se ne avvantaggiarono. Il prodotto delle vacche e de’ porci è nello smercio degli stessi capi o de’ feti, per il lavoro o il macello. Sono in Tonara e nette sue regioni molti alveari, che danno un profitto notevole a’ proprietari. Il numero può stimarsi di circa 2000.



Il Commercio

Abbiamo notato tutti gli articoli che i tonaresi mettono in commercio, castagne, noci ed altre frutta, tavole e travicelli, tessuti, prodotti pastorali, formaggi, capi vivi, pelli, cuoi e lane , miele e cera; or converrebbe dare la cifra totale del guadagno; ma qui pure mancano i dati, e appena si può presentare come verisimile il totale di lire 110 mila.



Religione.

I tonaresi sono sottoposti alla giurisdizione dell’arcivescovo di Oristano, e sono curati nelle cose dell’anima da un rettore assistito da tre preti, che in altro tempo giunsero sino a sette. La chiesa parrocchiale ha per titolare e patrono l’Arcangelo s. Gabriele , chiesa non ben capace se poi intervenissero molti anche dai tre rioni inferiori, poco adorna, e poveramente provveduta. Entro l’abitato sono altre quattro chiese, due nel rione di Arasulè, una intitolata dalla S. Croce,che è oratorio della confraternita dello stesso nome, ove tengonsi i sacramenti del viatico e dell’olio santo per comodo del clero e del popolo componente quel rione; l’altra dedicata a s. Antonio di Padova, la quale resta in piccola distanza fuori del rione stesso. Le altre due sono prossime ai due rioni inferiori: quella di S. Leonardo in poca distanza da Taleseri, e quella di S.Sebastiano martire a pochi passi dal rione di Ilalà. Eravi sino al 1820 un’altra chiesa filiale detta di s. Anastasia, la quale fu poi profanata e distrutta, perché era mancata la sua dote, I tonaresi credono che quella sia stata la più antica parrocchia de! comune. Le feste principali che si celebrano in Tonara sono tre, e a queste concorre gran quantità di gente dai vicini paesi. La prima per S. Antonio di Padova ricorre addì 13 giugno. La festa dura due giorni, e la piazza delh chiesa prende l’aspetto d’un mercato. Dopo i vespri della festa si corre il palio; ma bisogna dire che i premi sono meschini, consistendo essi in alcune decine di palmi di velluto nero o azzurro. La seconda è festa votiva per S. Sebastiano, e cade nella domenica immediata alle feste di S. Antonio, onorata essa pure da molto concorso di forestieri; ma senza fiera e corsa. La terza è pure votiva in onore dell’Arcangelo Gabriele, e si celebra nel primo d’agosto. Questa è una delle feste che dicono de corriolu, nelle quali gli ospiti non solo sono trattati con tutta cortesia e lautezza, ma nel partirsi sono regalati d’un brano di carne (corriolu) per portarlo alla famiglia. Manca ancora il camposanto e i defunti sono sotterrati intorno alla chiesa parrocchiale, dentro il cortile.



Chiese campestri.

Appartenente alla parrocchia di Tonara, nel territorio di Sorgono, a circa due ore verso ponente, trovasi la chiesa rurale dell’apostolo S. Giacomo, il maggiore. Occorrendo la festa a’ 25 luglio , il clero di Tonara vi si porta e funziona. Ragione di questo fatto si è che questa era la parrocchia di un paese appellato Spasulè, deserta da circa 120 anni,e che gli ultimi abitatori del medesimo,essendosi ricoverati in Tonara,riconobbero per loro parroco il rettore di Tonara, il quale da quel tempo cominciò a intitolarsi anche rettore di Spasulè, per la giurisdizione canonicamente confertagli su quella parrocchia. Gli emigrati di Spasulè avendo seco portalo i loro diritti nel nuovo domicilio, e lasciatili a’ tonaresi, questi avrebbero dovuto avere la proprietà de’ territori di Spasulè, come erasi fatto in simili casi in molti altri luoghi; ma quei di Samugheo, di Sorgono e di Atzara, quando videro deserto Spasulè, invasero quel territorio e sel divisero, togliendosi ciascuno la parte che meglio gli accomodava. I tonaresi sentendosi inferiori contro i tre popoli collegati, si astennero dalla violenza, che sarebbe tornata inutile, anzi dannosa, e tentarono le vie legali per vendicare i loro diritti. La lite, come si dee supporre, per la conosciuta natura degli avvocati, fu tratta in lungo, poi quando la causa parea matura, allora, non si sa né come né perché , sì cessò dalle instanze. Sospettasi che i tre paesi persuasi di esser obbligati a rimettere a’ tonaresi le terre di Spasulè, abbiano corrotto quelli che nel paese avevano maggiore influenza. Restano poi dentro i termini veri di Tonara in vari punti tali vestigia , che provano avervi abitato altre tribù. Non è però rimasta alcuna notizia né del nome delle popolazioni, nè del tempo in cui furono abbandonate, nè di altro accidente, per cui sieno cadute, A ponente del paese a circa un quarto d’ora nel luogo detto Petras-lobadas, scavando si sono trovati veri oggetti di archeologia, e diverse monete. Ad ostro a circa mezz’ora nella regione detta Santu Leo sono vestigie di antiche mura. Alla stessa parte, a mezz’ora da Ilalà, nel luogo detto Su Mamui, vedonsi altri inidizii, a’ quali i tonaresi danno il nome di Bidda intra errios (villa tra’ rivi). E finalmente alta parte di maestrale, nel luogo detto Mattalè, in distanza di tre quarti d’ora, si osservano altre indicazioni di antica abitazione. Non si può notare in questo territorio nessun nuraghe.

giovedì 16 ottobre 2008

Da Pratza manna a Marrakech di Giovanni Mura





Riceviamo e pubblichiamo Pratza Manna a Marrakech del Prof. Giovanni Mura (noto Nino) autore di numerose indagini sulla storia di Tonara.

venerdì 3 ottobre 2008

Tonara, etimologia del nome secondo Alberto La Marmora.


(...) Da Aritzo si può fare una puntata al vicino villaggio di Tonara, dove si arriva percorrendo un sentiero quasi sempre in piano, dopo Belvì, attraverso una lunga valle detta Isca di Belvì, notevole soprattutto per i molti e bei noci; è bagnata da un torrente le cui acque sono utilizzate per l’irrigazione di questa piccola pianura.
Il villaggio di Tonara prende il nome da un toneri che lo domina e che è formato come le altre masse omonime di un deposito calcareo dolomitico. Avendo già dato una descrizione geologica e uno spaccato di questo toneri nella terza parte del Viaggio in Sardegna , mi dispenso dall’entrare di nuovo nella materia della sua composizione mineralogica. Qui mi limiterò a dire che, sotto la roccia secondaria, in questo posto, come sotto gli altri toneri e tacchi, si trova uno strato di lignite con il maggior spessore che si possa trovare in questi luoghi; ma la lignite, più passa allo stato di galestro, meno è adatta ad essere utilizzata come combustibile, in quanto contiene piriti in ercentuale via via maggiore. Nei banchi di una specie d’arenaria che accompagna questo combustibile secondario si trovano impronte delle piante fossili proprie della flora giurassica: Calamites lehmanianus Goep. e Brachyphyllum majus Brong.
Il villaggio di Tonara è formato da quattro frazioni separate o, se si vuole, da quattro quartieri (“rioni”) che si chiamano Toneri, Arasulè, Taleseri e Ilalà; nel nome di quest’ultimo alcuni
etimologi hanno voluto riconoscere un’origine turca o araba; si è arrivati fino a cercare i padri degli abitanti di questo paese tra i Mori mandati in Sardegna dai Vandali, di cui parla Procopio e di cui è già stata fatta menzione. Il quartiere di Toneri è il più alto dei quattro; è lì che si trovano delle persone affette da gozzo; quello di Arasulè, il più considerevole, si trova
a un’altezza di 956 metri sul livello del mare. Il Toneri domina tutti questi quartieri e conta 974 metri, misurati al nuraghe detto de su Planu.

Dall’altra parte del paese si leva un altro monte detto “di Gennaflores” (“della Porta dei fiori”) che forma una piccola catena in direzione all’incirca nordovest-sudest; la cima più alta, chiamata Mugianedda, conta 1.498 metri d’altitudine sul livello del mare.
( Tratto da: Viaggio in Sardegna di Alberto La Marmora Ed. Illisso - 1997, pag. 67

La Barbagia di Mandrolisai secondo Alberto La Marmora

La Barbagia di Mandrolisai secondo Alberto La Marmora Da: ITINERARIO DELL’ISOLA
DI SARDEGNA - VOLUME SECONDO. Ed. Illisso - 1997-Pag. 25


(...) Il villaggio di Seulo è situato a un’altezza di 779,79 metri
sul livello del mare, misurata al suolo della chiesa parrocchiale,
e fa parte della regione detta “Barbargia” o “Barbagia”. Essa
si divide principalmente in tre parti: la Barbagia superiore, che
comprende i villaggi di Fonni, Mamoiada, Gavoi, Ollolai, Ovodda
e Lodine; la Barbagia centrale, suddivisa in due sezioni: la
Barbagia di Mandrolisai, che comprende i villaggi di Tonara,
Desulo, Sorgono, Atzara e Ortueri,
e la Barbagia di Belvì, di
cui fanno parte il villaggio omonimo e quelli di Aritzo, Meana
e Gadoni; la Barbargia inferiore, che comprende Seui, Seulo,
Esterzili e Ussassai.

IL RETABLO DI S.ANASTASIA (POST. 1585) del maestro di Tonara di Gian Gabriele CAU

di Gian Gabriele Cau

La restituzione al patrimonio culturale artistico della Sardegna di tre tavole superstiti del Retablo di S. Anastasia attribuito ad un anonimo cinquecentesco, convenzionalmente noto come “il Maestro di Tonara”, è cronaca recente. Nel 1997, la tavola della Passione del Cristo è esibita per la prima volta a Sassari, in occasione della Seconda Mostra dell’Antiquariato. Ma solo una accurata ripulitura e un attento e costoso restauro consentono il recupero anche di un S. Michele arcangelo e di un Giudizio Universale e, finalmente, l’esposizione dell’intero trittico nella sala consiliare del Comune di Tonara, nell’aprile 2004.
Le tavole del Retablo di Tonara, unico caso in Sardegna in un retablo cinquecentesco, sono in castagno, un legno tipico di quella Barbagia, che induce a credere che il Maestro abbia operato in loco. Lo stato generale dei dipinti a seguito del restauro è complessivamente discreto, per quanto si registrino non trascurabili cadute di colore e lesioni del supporto, vuoi per la riduzione della tavola (Passione di Gesù Cristo e Giudizio Universale) vuoi per l’inserzione di talune cerniere della cassapanca. Le dimensioni della piccola chiesa rapportate a quelle delle tavole superstiti sembrerebbero escludere una collocazione che non fosse quella della cappella maggiore. Diretta conseguenza di questo postulato sarebbe la necessaria rappresentazione della santa patrona Anastasia (una tavola o un piccolo simulacro in una nicchia ad incasso) cui dirigere le suppliche dei devoti.
Il retablo era verosimilmente strutturato secondo un poco comune schema architettonico di matrice gotica sarda-catalana, accostabile a quello del Retablo di S. Giacomo Maggiore di Ittireddu, caratterizzato da un trittico con tavole sfalsate di differenti dimensioni e sormontato da una canonica Crocifissione (nella fattispecie una Passione di Gesù Cristo) nella cimasa, in linea con la sottostante figura centrale della Santa Anastasia. Le strette bande marginali delle altre due tavole, sulle quali aderivano le cornici a pinnacoli, dichiarano esplicitamente il loro status di pessas foranas: il San Michele nello scomparto sinistro, il Giudizio Universale in quello destro del riguardante. La devastazione della figura del demonio nella tavola del San Michele, presuppone una collocazione del retablo bassa per l’accessibilità da parte di devoti iconoclasti. Un polvarolo e una predella forse di cinque elementi, con la canonica figura del Risorto o dell’Ecce Homo al centro completavano l’ancona.
Il polittico appare come il frutto della collaborazione di due o più personalità prossime ad un ambito culturale riconducibile alla cosiddetta Scuola Cagliaritana di Stampace, che in Pietro Cavaro ebbe l’esponente più dotato. Le tre tavole superstiti sono di grande interesse non tanto per l’intrinseca qualità pittorica, quanto per il singolare accostamento di citazioni dalle opere di un consistente numero di artisti isolani non solo di ambito stampacino. Da una maniera prevalentemente popolareggiante, spesso vernacolare, emergono taluni spunti che rivelano una sorprendente, vastissima conoscenza della realtà artistica isolana della fine del xv e del xvi secolo. Dal Maestro di Olzai, a Lorenzo, Pietro e, forse, Michelangelo Cavaro, ad Antioco e Pietro Mainas, fino ad Andrea Sanna, nel quale si crede di riconoscere il Maestro di Ozieri[1].
Il Cristo crocifisso, l’unica figura nella quale si ravvisi una maniera visibilmente più colta e raffinata, rimanda direttamente a quello realizzato nel 1518 da Pietro Cavaro per la Crocifissione del Retablo di Villamar. Da questo derivano il nimbo in foglia d’oro lavorata a bulino con tre raggi rossi a “T”, la postura degli arti inferiori flessi ad angolo retto e il particolarissimo nodo che cinge il perizoma al fianco sinistro. Di suo il Maestro disegna un fiotto di sangue che fuoriesce dal costato con un vigore che non ha raffronti nella pittura sarda del Cinquecento e che segna in lunghi rivoli il perizoma, secondo un modello comune a tutte le Crocifissioni di Lorenzo Cavaro (si vedano i Retabli di Gonnostramatza, di Giorgino e di Sinnai[2]). Un reiterato rinvio ai maestri di Stampace, pur nella consapevolezza che - è il ginocchio sinistro coperto a rivelarlo - questi stessi tratti siano del tutto estranei al Crocifisso ligneo, detto di Nicodemo di Oristano, preciso riferimento iconografico isolano di quasi tutte le Crocifissioni, per tutto il xvi secolo[3]. Un fatto che suona come qualcosa di più di un omaggio al maestro ideale e che suscita inquietanti interrogativi sul rapporto (di parentela?) del Maestro di Tonara con i capostipiti della Scuola Cagliaritana, aprendo all’eventualità di un diretto coinvolgimento della assai discussa, oscura figura di Michelangelo Cavaro, sopravvissuto alla morte del ben più noto fratello Michele nel 1584[4]. Una ipotesi affascinante, tuttavia asfittica per l’assenza di possibili concreti elementi di comparazione e per la contraddittorietà dell’unico documento disponibile che lo riguardi[5].
Ai piedi dell’immagine di un Cristo decisamente sproporzionato, ma giustificato dall’intenzione di evidenziare il divario di una grandezza divina, sono Maria, Giovanni e la Maddalena, le cui posture e il ripiegamento dei manti - determinante il particolare del fazzoletto stretto fra le mani di quest’ultima ai piedi della croce - non possono assolutamente prescindere dalla Crocifissione del Retablo di Sant’Anna di Sanluri datato 1576 e ricommissionato nel 1571 a Michelangelo Cavaro e Pietro Mainas[6]. Anche l’originale maniera di rappresentare le nuvole globulari, quasi fossero degli acini di un ceruleo grappolo d’uva, riecheggia quelli di numerosi scomparti del Retablo di Sant’Anna, in particolare quello della Nascita di Maria e, nella predella, quelli dell’Assunzione e della Resurrezione.
Nello sfondo, in prossimità di una Gerusalemme che nelle torri a pianta circolare riecheggia quelle delle città turrite del Maestro di Ozieri, come le vignette di un fumetto ante litteram sono ritagliati due originali e interessantissimi piccoli riquadri contigui. Nel primo a sinistra, in chiaro riferimento all’episodio evangelico sui preparativi di quella Pasqua che, col tradimento di Giuda, segnerà l’inizio di quella Passione che nella stessa crocifissione del Cristo raggiungerà il suo apice, sono raffigurati gli apostoli Pietro e Giovanni (uno dei quali a dorso di un asino), che incontrano davanti alle mura della città un personaggio con un otre sotto il braccio[7]. Nel secondo, come illuminato da un improbabile seguipersona teatrale che, staccandolo dallo sfondo, dà voce al brano pittorico, alcuni soldati recanti uno stendardo e delle lance sorvegliano l’esile figuretta di un Cristo in stato di arresto, con le braccia legate dietro la schiena, secondo il racconto dell’evangelista Giovanni[8].
Conferma della diretta e inequivocabile derivazione di entrambi gli episodi dalla Passione di Cristo, cimasa del Retablo di Sant’Elena[9] dell’ozierese Andrea Sanna, è la palmare citazione anche di quel personaggio che, appena occultato dal declivio di un poggio in controluce (pedissequa, si oserebbe dire “sovrapponibile”, la derivazione dal Retablo di Benetutti anche nella sua raffigurazione all’altezza del ginocchio destro del Crocifisso), indica lo svolgersi di quegli eventi, con l’evidentissimo intento di potenziare il significato della narrazione. La particolarità del prestito iconografico permette di individuare un preciso termine post quem nel 1585, data della consacrazione del Retablo di Sant’Elena[10], per la realizzazione del Retablo di Tonara.
Nella seconda tavola, l’unica integralmente riconducibile ad un solo maestro evidentemente più dotato, nella postura il San Michele arcangelo ricalca, per il tramite di una stampa di Nicola Beatricetto, un’idea di Raffaello per il celebre dipinto San Michele debella satana[11]. Al Retablo della peste del Maestro di Olzai[12], da taluni forse identificabile in uno dei capostipiti dei Cavaro, Antonio o lo stesso Lorenzo[13], rimanda, invece, il gesto dello stesso Principe degli angeli, che con un solo strumento pesa le anime e trafigge quanto resta del corpo frantumato di un maligno vittima, ancor prima che di una originale lancia-bilancia, di un malinteso sentimento religioso. Più dello stesso santo, di estremo interesse è la deliziosa rappresentazione di due episodi ispirati al culto michaelico sul Gargano (dove si trova il più antico santuario europeo dedicato all’Angelo), secondo il racconto del Liber de apparitione sancti Michaelis in monte Gargano.
Al primo dei tre prodigiosi eventi ricordati nell’Apparitio rimanda quel brano che, in prossimità della mano destra dell’Angelo, minutamente descrive, con una dovizia di particolari dal sapore vagamente fiammingo, un San Michele in groppa ad un toro presso un dirupo, secondo un modello iconografico diffuso in Italia e in Europa, ma assolutamente inedito in Sardegna[14]. In prossimità di quei gradoni di pietra, che riecheggiano in parte quelli del paesaggio della Crocifissione del Retablo di Sant’Anna e quelli dello sfondo della Crocifissione del Retablo di Iglesias[15] di Antioco Mainas, si compie il secondo episodio, che rievoca la vittoria conseguita, per intercessione dell’Angelo, dai beneventani e dai sipontini sui napoletani, qui costretti a riparare fin sotto le mura della loro città[16].
Soggetto assai raro nella pittura sarda il Giudizio Universale, terza e ultima tavola superstite, denuncia la conoscenza dell’omonimo dipinto dello smembrato Retablo di Serdiana e del Retablo della peste, entrambi del Maestro di Olzai[17], con la puntuale riproposizione di quel personaggio carico di una cesta sulle spalle con due infanti. La scena è caratterizzata da una imponente edicola in forme classicheggianti animata da una moltitudine di personaggi, ma la lacunosità della crosta pittorica non ne permette una chiara lettura. Tra di essi, al centro del tempietto è parte della figura di un angelo, forse identificabile, per il rilievo accordatogli, col San Michele, l’altro arcangelo che col San Gabriele, cui dal 1607 è intitolata la nuova parrocchiale, divide a Tonara e più in generale nelle Barbagie, una devozione antichissima e profonda[18]. Al di sopra di questo, il Risorto si libra alto su alcuni santi, tra i quali pare di distinguere la Santissima Vergine e San Pietro, e su di un certo numero di angeli, alcuni dei quali di profilo denotano una chiara difficoltà del pittore nel rappresentare fisionomie scorciate. Nell’inclinazione della figura, nei pettorali squadrati e nelle pieghe parallele, serrate e fortemente marcate del lenzuolo che gli cinge gli arti inferiori, l’immagine del Salvatore deriva, ancora una volta, da quella dipinta al centro della predella del Retablo di Sant’Anna di Sanluri. Alla sua destra sono le anime nobili e beate dei redenti, alla sua sinistra quelle deformi e sgraziate dei dannati. Tra queste ultime è un irsuto personaggio che, nella mostruosità delle anche convergenti in un solo arto, soffre, tra le fiamme, le pene di un misterioso contrappasso; mentre nella parte centrale e inferiore della tavola alcuni risorti vanno incontro al loro destino, presi in consegna chi da un angelo, chi da un demone alato, sinistramente ittifallico.
La forte incisività della linea che si rileva in taluni tratti conferma – qualora ve ne fosse ancora bisogno – la maniera di un maestro sardo in questa importantissima opera, che a tutti gli effetti segna il luogo di incontro e di compenetrazione tra le Scuole più rappresentative del manierismo isolano. La Stampacina dei Cavaro e la Logudorese di Andrea Sanna. Nel senso, del tutto inedito, nord-sud.


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[1] Per un approfondimento sull’identificazione del Maestro di Ozieri in Andrea Sanna (1535 ca. - 1607/1611) si segnala: G. G. Cau, Il Retablo di S. Elena di Benetutti (1585) del pittore Andrea Sanna detto il Maestro di Ozieri, in «Quaderni Bolotanesi», n. 29, Cagliari 2003, pp. 197-244. G. G. Cau, Il Retablo di S. Maria degli Angeli di Bortigali (post 1550) del pittore Andrea Sanna detto il Maestro di Ozieri, in «Quaderni Bolotanesi», n.30, xxx, Cagliari 2004, pp. 297-332. M. Farina, Retablo firmato da Andrea Sanna. Sarebbe il Maestro di Ozieri l’autore dell’opera in Cattedrale [di Ozieri}, in «La Nuova Sardegna», Sassari 5 marzo 2003, p. 27.
[2] Lorenzo Cavaro, Retablo di Gonnostramatza, 1501, doppio trittico, tempera su tavola; Lorenzo Cavaro e bottega (attr.) Retablo di Giorgino, 1508, due elementi di polittico, tempera su tavola, Torino, collez. Ballero; Retablo di Sinnai, 1508 circa, doppio trittico, tempera su tavola cm 168 x 128, Sinnai, chiesa di Santa Vittoria.
[3] Il prezioso simulacro conservato presso la chiesa di San Francesco ad Oristano è caratterizzato dalle gambe ripiegate ad angolo retto, da una marcata strozzatura della vita, dal perizoma annodato al fianco destro, dal ginocchio destro scoperto, dall’alluce del piede destro divaricato e ripiegato, dalle dita delle mani contratte nello spasmo della morte, dallo scorrere di rivoli di sangue sugli avambracci e da un disegno delle sopracciglia inclinate all’esterno.
[4] Nel testamento di Michele Cavaro, Michelangelo è investito dell’incarico di esecutore testamentario, cf. Archivio di Stato di Cagliari, Minutario del notaio Gerolamo Ordà, atti notarili legali n. 1557, f. 273, in G. Olla Repetto, Contributi alla storia della pittura sarda nel Rinascimento in “ Commentari”, XV, n. I - II, Roma 1964, p. 126. Per certo Michelangelo Cavaro è già morto il 29 aprile 1594, quando un certo Antonio Cavaro compare in nota ad uno strumento notarile in qualità di suo erede, cf. C. Aru, La pittura sarda nel Rinascimento in «Archivio Storico Sardo», XVI, Cagliari 1926, p. 173.
[5] In più riprese Carlo Aru manifestò il dubbio sulla possibilità di riconoscere la qualifica di pittore al minore dei figli di Pietro Cavaro. L’equivoco nasce dall’ambiguità dell’atto di allocazione del Retablo di Sant’Anna di Sanluri, nel quale il nome «Michelangelus» compare una sola volta, volvendo in «Michael» nelle successive citazioni all’interno dello stesso documento. Di qui il dubbio che possa trattarsi di un errore del notaio che rogò quell’atto. L’ipotesi si fa forte del fatto che in tutti i rimanenti documenti reperiti al nome di Michelangelo non segua mai la qualifica di pittore, cf. Archivio di Stato di Cagliari, Minutario del notaio Gerolamo Ordà, atto rogato il 30 luglio 1571, f. 163, in C. Aru, La pittura sarda nel Rinascimento in «Archivio Storico Sardo», XV, fasc. 1 e 2, Cagliari 1924, p. 6, n.1; C. Aru, La pittura sarda nel Rinascimento, cit., pp. 175-176.
[6] Il Retablo di Sant’Anna fu commissionato ad Antioco Mainas, ma a seguito della sua prematura scomparsa (ante 30 luglio 1571) il figlio Pietro Mainas e Michelangelo (o Michele) Cavaro assunsero il compito di portare a termine l’opera, che fu consacrata, probabilmente sull’altare maggiore, nella parrocchiale di Sant’Anna di Sanluri il 12 dicembre del 1576.
[7] “Nel primo giorno degli Azzimi, all’ora in cui si immolava l’agnello pasquale [crepuscolo], i suoi discepoli gli dicono: «Dove vuoi che andiamo a preparare perché tu possa mangiare la Pasqua?» (cf. Nuovo Testamento, Vangelo di Marco, cap. 14, vers. 12.). Rispose loro: «Ecco, quando sarete sul punto d’entrare in città, vi si farà incontro un uomo che porta una brocca d’acqua […]»”, (ibidem, cap. 22, vers. 8).
[8] Cf. Nuovo Testamento, Vangelo di Giovanni, cap. 18, vers. 1, 3, 12-13.
[9] Andrea Sanna, Passione di Cristo, cimasa del Retablo di Sant’Elena di Benetutti, 1585, cm 145 x 149, olio su tavola, Benetutti, parrocchiale di Sant’Elena.
[10] Per un’analisi più dettagliata della complessa allegoria della data e della firma del Retablo di Sant’Elena si rinvia al saggio di G. G. Cau, Il Retablo di S. Elena di Benetutti (1585) del pittore Andrea Sanna detto il Maestro di Ozieri, cit. pp. 225-237.
[11] L’incisione (bulino, 1540 ca. mm 454 x 310) presenta differenze sostanziali col dipinto realizzato da Raffaello per incarico di Leone X e Lorenzo de’ Medici nel 1518. Essa deriva da un disegno oggi disperso che è una importante testimonianza dell’idea originale del Maestro, prima delle numerose alterazioni subite dal dipinto nel corso dei secoli. La tela originale del San Michele debella satana (1518) di cm 268 x160, è conservata a Parigi presso il Museo del Louvre.
[12] Maestro di Olzai, Retablo della peste, post 1477, polittico, tempera su tavola con fondo oro, Olzai, chiesa di Santa Barbara.
[13] R. Serra, Pittura e scultura dall’età Romanica alla fine del ‘500, collana “Storia dell’arte in Sardegna” diretta da Corrado Maltese, Nuoro 1990, p. 173.
[14] La storia del santuario e del culto dell'Angelo sul Gargano è riassunta in tre episodi nel Liber de apparitione sancti Michaelis in monte Gargano un testo agiografico, risalente alla fine dell'VIII secolo. Il più noto di questi è sicuramente quello del toro, divenuto quasi un simbolo del culto michaelico del Gargano. Gargano, un ricco pastore di Siponto (Foggia), al rientro del gregge, accortosi della mancanza di un toro ne organizza la ricerca. Ritrovato il toro presso una grotta, il bovaro, preso dall'ira, gli scaglia contro una freccia avvelenata che, tornata inspiegabilmente indietro, colpisce lui. I Sipontini, impressionati dall'episodio, chiedono spiegazione al loro vescovo che dispone tre giorni di digiuno. Al termine dei quali appare al vescovo l'arcangelo Michele, che dichiara che l'episodio misterioso era stato voluto da lui per dimostrare di essere patrono e custode del luogo. L'episodio, segna il trionfo del cristianesimo sul paganesimo rappresentato da Gargano.
[15] Antioco Mainas (attr.), Retablo di San Francesco di Iglesias, polittico, tempera e olio su tavola, Iglesias chiesa di San Francesco.
[16] Secondo il racconto del Liber de apparitione, nell’anno 492 la città di Siponto era assediata dagli Eruli guidati da Odoacre ed era sul punto di capitolare. Cosicché, il vescovo Maiorano mandò da Odoacre degli ambasciatori, ottenendo una tregua di tre giorni che la popolazione sipontina dedicò in preghiere e penitenze a San Michele. E fu allora che l’Arcangelo fece la sua apparizione, promettendo il suo aiuto a patto che la città non si fosse arresa ai barbari. Il contrattacco della popolazione sipontina si rivelò un successo, dal momento che una tempesta di grandine e sabbia mise in fuga le orde barbariche di Odoacre. In segno di ringraziamento, il Vescovo ordinò una processione verso la grotta dell’Arcangelo, non facendovi, però, ingresso.
[17] Maestro di Olzai, Retablo del Giudizio Universale, fine sec. XV, due elementi di polittico, Serdiana, chiesa di Santa Maria di Sibiola (in deposito presso la Pinacoteca Nazionale di Cagliari).
[18] «La divozione agli Arcangeli Gabriele e Michele, così diffusa in Barbagia, si ricollega in Tonara al fatto che numerose comitive di fedeli, in tempi remotissimi, risalivano i contrafforti e le pendici del Gennargentu, percorrendo una trentina di chilometri fino a Villanova Strisaili, nei cui dintorni si festeggia ancora l’annuale dell’arcangelo Gabriele. Con questa divozione è unita l’antica importazione dell’orzo primaticcio dai campi pressi il mare di Tortolì », cf. R. Bonu, Tonara, Nuoro 2004, p. 20, n. 20. Ad Aritzo, a soli 14 km da Tonara, la stessa parrocchiale è sotto il titolo S. Michele Arcangelo.

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lunedì 29 settembre 2008

Storia di Tonara: la ferrovia, la stazione di Monte Corte, su pont'e su Samuccu. Tonara fine '800.




Il Retablo dell’Assunzione della Vergine e il Retablo della Passione di Cristo due inediti del maestro di Tonara di Gian Gabriele Cau



(articolo inviatoci da Gian Gabriele Cau al nostro indirizzo di posta elettronica)
Al modesto corpus delle opere del Maestro di Tonara sin qui rappresentato dalle tavole del Retablo di S. Anastasìa è possibile associare oggi un secondo polittico in legno di castagno, il Retablo dell’Assunzione della Vergine, e un terzo, il Retablo della Passione, in castagno e abete. I due retabli, entrambi smembrati, mutilati e in parte dispersi, provengono da Oliena, dall’ex parrocchiale di S. Maria Assunta.
Nel 1947, con il nulla osta dell’allora parroco canonico Pietro Bisi, l’Ancona dell’Assunzione fu pietosamente raccolta, quando giaceva in totale abbandono in una sorta di legnaia all’aperto, presso la nuova chiesa madre di S. Ignazio di Lodola. Nel nucleo di tavole superstiti, pertinenti al retablo si annovera una Passione di Cristo, un frammento di una Annunciazione, parte di una Assunzione di Maria Vergine e di una Incredulità di S. Tommaso. Lo smembramento del retablo sarebbe da collocarsi in anni successivi alla visita che Georgiana Goddard King compì ad Oliena prima del 1923, quando pubblicò i risultati di una ricerca sulla pittura in Sardegna tra Quattrocento e Cinquecento.
In quella occasione la studiosa americana osservava che nel paese «si conserva ancora un numero impressionante di dipinti» per l’indigenza dei suoi abitanti impossibilitati ad aggiornarsi al gusto corrente del xvii secolo.
Il Retablo dell’Assunta era strutturato secondo un poco comune schema architettonico di matrice tardogotica sarda-catalana, accostabile a quello superstite del Retablo di S. Giacomo maggiore di Ittireddu e – si crede – a quello di S. Anastasìa di Tonara, caratterizzati da un trittico con tavole sfalsate di differenti dimensioni, sormontato da una cimasa. Al centro, tra una Annunciazione a sinistra (della quale si conserva solo un frammento con il volto dell’Angelo e parte dell’Annunciata) e una Incredulità di S. Tommasoa destra del riguardante (della quale avanza oggi la figura del santo apostolo), era l’Assunzione della Vergine. Nella cimasa, in linea col compartiment, sovrastava la Passione di Cristo. Nessuna memoria della predella (verosimilmente composta di un numero dispari di elementi, forse cinque) e del canonico polvarolo che impreziosiva e riparava il retablo dalla polvere.
Spezzata l’unitarietà dell’ancona, le singole tavole erano state sommariamente “bonificate”, forse per un culto particolare, segando le parti ritenute allora insanabili. In queste condizioni compaiono nella relazione del 14 maggio 1947 del restauratore Riccardo De Bacci Venuti, che stende un preventivo per un intervento da effettuarsi privatamente sotto la sua direzione. Gravissime lesioni mostrava la tavola della Passione di Cristo mutila degli angoli inferiori e quella dell’Incredulità di S. Tommaso dimezzata in senso longitudinale al punto quasi da compromettere la lettura e l’identificazione dello stesso brano pittorico. Quasi tutti gli scomparti presentavano spaccature e contorsioni del supporto, con numerosi sollevamenti della crosta pittorica, caduta delle imprimiture e generale inscurimento per l’ossidazione delle vecchie vernici. I dipinti trasferiti a Cagliari per l’intervento proposto dal De Bacci Venuti furono restituiti al nuovo proprietario con una sorta di expertise del restauratore, che ne proponeva l’attribuzione ad un pittore sardo, appartenente alla Scuola di Michele Cavaro.
A metà degli anni Novanta, la Passione di Cristo, in esecuzione di una volontà testamentaria del nuorese don Graziano Guiso Gallisay, fu donata alle Suore Carmelitane Scalze di Nuoro, in occasione del loro trasferimento nel nuovo convento “Mater Salvatoris”. Lo stesso architetto francese Savin Coüelle progettista del monastero di colle Cuccullìo si interessò del suo restauro, concluso a Roma nel 2003 dopo un iter affatto breve, durante il quale la tavola ha rischiato di essere dispersa. Dal 2005 questa sola tavola ha trovato collocazione in una nicchia, sulla parete sinistra della cappella conventuale.
L’impianto compositivo della Passione di Cristo (cm 106,5 x cm 87) ricalca in certa misura quello dell’analogo soggetto del Retablo di Tonara. La scena è dominata dalla imponente figura di un Cristo iconograficamente dipendente dal modello ligneo oristanese, di dimensioni maggiori di quello già grande del Retablo di S. Anastasìa, che si staglia su di un cielo crepuscolare, segnato da basse nubi globulari. Il Crocifisso, l’unica figura nella quale si ravvisi una maniera visibilmente più colta e raffinata, rimanda direttamente a quello realizzato nel 1518 da Pietro Cavaro per la Crocifissione del Retablo di Villamar. Da questo derivano il nimbo in foglia d’oro lavorata a bulino con tre raggi rossi a “T”, la postura degli arti inferiori flessi ad angolo retto e il particolarissimo nodo che cinge il perizoma al fianco sinistro. Di suo il Maestro disegna un fiotto di sangue che fuoriesce dal costato con un vigore che non ha raffronti nella pittura sarda del Cinquecento, ma ben rappresentato in numerosi Crocifissi del Duecento e del Trecento di Scuola Umbro-Toscana, che segna in lunghi rivoli il perizoma, secondo un modello comune a tutte le Crocifissioni di Lorenzo Cavaro (si vedano i Retabli di Gonnostramatza, di Giorgino e di Sinnai). Un reiterato rinvio ai maestri di Stampace, pur nella consapevolezza che – è il ginocchio sinistro coperto a rivelarlo – questi stessi tratti siano del tutto estranei al Crocifisso ligneo, detto di Nicodemo di Oristano, preciso riferimento iconografico isolano di quasi tutte le Crocifissioni, per tutto il xvi secolo.
Il sangue che fuoriesce dal costato e scorre su di un perizoma ancora annodato al fianco sinistro, il singolare disegno degli addominali con un solco tangente l’ombelico a delineare una singolare lettera “P”, la robusta corona di spine e il cartiglio con eguali segni romboidali tra i caratteri inducono, fondatamente, a credere che il Cristo sia opera dello stesso artefice del Crocifisso dell’omonima tavola del Retablo di Tonara. La ricchezza plastica del panneggio del perizoma, la levigatezza del modellato del torace, il volto del Salvatore così denso di sfumature ma soprattutto un uso più sapiente dell’effetto chiaroscurale e una maggiore conoscenza delle regole prospettiche dichiarano un affinamento e un percorso artistico successivo all’esperienza tonarese, ipotizzabile sul volgere degli anni Novanta del xvi secolo o, più probabilmente, agli albori del secolo successivo. Di sicuro interesse è il labbro superiore del Cristo insolitamente pressoché glabro, dal sapore vagamente peruginesco, incorniciato dal disegno di una barba memore di quella del Crocifisso del Retablo di S. Elena di Benetutti, mentre la bocca è serrata in una espressione serena di straordinaria efficacia, quasi che il Redentore fosse assopito.
Con geometrica precisione l’asse verticale della croce del dipinto di Oliena interseca la bassa linea dell’orizzonte a metà della tavola, ripartendola in quadranti uguali. La costruzione nel suo insieme è decisamente priva di equilibro: eccessivamente affollata nella parte sinistra (del riguardante), vuota, al limite dell’opprimente nel lato destro. Al piede della croce, in primissimo piano, è una Maddalena clone perfetto di quella del Retablo di S. Anastasìa. Alle sue spalle un improbabile S. Giovanni asciuga dalle lacrime l’occhio sinistro (lontana citazione dal Retablo di N. S. Loreto del Maestro di Ozieri), mentre con una seconda mano destra [sic!] conforta una Vergine straniata e attonita, irradiata da un nimbo perfettamente circolare, in visibile disaccordo con quelli scorciati di Giovanni e della Maddalena. E se ciò non bastasse di per sé a suscitare quantomeno stupore, il piede destro del Cristo, per una incredibile, imperdonabile disattenzione del restauratore (il De Bacci Venuti o un secondo tecnico intervenuto nel nuovo intervento degli anni Novanta?), ha l’alluce rivolto innaturalmente all’esterno, come il sinistro.
In secondo piano, sul crinale di un poggio è la stessa figura che nella omonima tavola di Tonara, in prossimità della Gerusalemme, stringe un grosso orcio sotto il braccio. Il riferimento è all’episodio evangelico sui Preparativi della Pasqua che, col tradimento di Giuda, segnerà l’inizio di quella Passione che nella stessa crocifissione del Cristo raggiungerà il suo apice. Potrebbero, invece, alludere all’Arresto di Gesù quei soldati attigui, pressoché identici nella postura e nell’atteggiamento agli stessi dell’omonimo brano della Passione di Cristo di Tonara.
Conferma della diretta e inequivocabile derivazione di entrambi gli episodi dalla Passione di Cristo, cimasa del Retablo di S. Elena attribuito ad Andrea Sanna, è la palmare citazione anche di quel personaggio che, appena occultato dal declivio di un poggio in controluce – pedissequa, si oserebbe dire “sovrapponibile”, la derivazione dal Retablo di Benetutti anche nella sua raffigurazione all’altezza del ginocchio destro del Crocifisso – indica lo svolgersi di quegli eventi, con l’evidentissimo intento di potenziare il significato della narrazione. La particolarità del prestito iconografico permette di individuare un preciso termine post quem nel 1585, data della consacrazione del Retablo di S. Elena, per la realizzazione del Retablo dell’Assunzione di Maria.
Nell’ultimo quadrante in basso a destra è un soldato romano, di spalle. Potrebbe essere Longino ma è privo di quella lancia con cui trafisse il costato del Cristo, forse cancellata da una incolmabile, vasta lacuna della crosta e dello stesso supporto pittorico. Il ripetuto rimando, e nel Retablo di Tonara e in questo di Oliena, a due particolarissimi brani pittorici, esclusivi della tavola della Passione del Cristo del Retablo di S. Elena dichiarano una dipendenza da Andrea Sanna, che presuppone una profonda conoscenza delle sue opere e una straordinaria ammirazione per le originali invenzioni del Maestro di Ozieri.
Nell’analisi del polittico si privilegia un ordine di lettura in senso orizzontale, da sinistra a destra del riguardante. In questa logica sequenziale l’Annunciazione, con l’incarnazione del Verbo, segna il momento dell’ingresso della Vergine in quella storia della cristianità che giunge a compimento nella tavola dell’Assunzione, nella quale Maria incontra S. Tommaso protagonista dell’ultimo scomparto.
Il frammento dell’Annunciazione (cm 27 x cm 29), presumibilmente in legno di castagno, non compare nel preventivo di restauro del 1947. Forse la dimensione e la qualità pittorica decisamente modeste, se rapportate con altre tavole, indussero a non computare un intervento di restauro meno impegnativo, comunque, portato a compimento. Nella parte superstite si osserva il profilo del volto dell’Angelo e parte delle ali scalate in una ampia gamma di toni rosa, non dissimili da quelle dello stesso soggetto del Retablo dell’Assunta di Barumini attribuito ad Antioco Mainas. Nella sezione superiore destra è una piccola porzione del volto assai affilato della Vergine, ammantato di un drappo celeste con bordatura in foglia d’oro. Sullo sfondo è il morbido panneggio di una cortina verde cupo. Nel tenue tono celeste della tunica dell’angelo e nella costruzione della scena, con il volto della Annunciata più in alto di quello del S. Gabriele, entrambi presumibilmente genuflessi, si coglie una lontana, vaga eco dell’omonimo soggetto del Retablo di S. Maria degli Angeli di Bortigali del Maestro di Ozieri. Il dettaglio dei capelli del Nunzio di Dio, rimandano direttamente a quelli tirati indietro di alcuni apostoli della tavola dell’Assunzione, lasciando intendere l’opera di uno stesso artefice certamente meno talentoso del maestro, probabilmente un aiuto di bottega, cui fu delegata l’esecuzione di taluni dettagli della Passione di Cristo (il volto della Maddalena al piede della croce p.es.) e del Giudizio Universale del Retablo di S. Anastasìa di Tonara.
Il compartiment dell’Assunzione della Vergine misura oggi cm 74 x 69, ma si ritiene che, nel rispetto di una sintassi architettonica consolidata, fosse in origine della stessa larghezza del soprastante cimal (cm 87). Il sarcofago appena visibile e gli stessi apostoli, in gran parte a mezza figura, presupporrebbero un ridimensionamento forse anche in altezza. Nella santa eponima dell’altare e della stessa chiesa si intravedono alcune dirette derivazioni dalla anonima stampa del Maestro del Dado utilizzata dal Maestro di Ozieri nel Retablo di Bortigali (in particolare le posture dei tre personaggi sulla destra della tavola) e una vaga citazione (la testa d’angelo ai piedi di Maria e l’alveo del sarcofago) dalla incisione dell’Assunzione della Vergine di Cherubino Alberti datata 1571. Di suo l’artefice inserisce le figure di un Cristo glorificante ma sproporzionato, forse anche in questo caso a significare il divario di una dimensione divina, e di un S. Tommaso nell’atto di cogliere la cintura della Vergine. Il brano – un unicum nella storia della pittura del Cinquecento in Sardegna – è tratto dalla Legenda Aurea, la stessa che ispirò il Maestro di Ozieri per taluni episodi del Retablo di Benetutti. Dopo la morte della Madonna – secondo il racconto di Jacopo da Varagine – Gesù stesso fece porre il suo corpo in un sepolcro, poi, dopo tre giorni, lo riunì all'anima e l'accolse in cielo. La cintura di Maria cadde, ancora stretta, nelle mani di Tommaso; secondo alcuni, come segno di particolare predilezione, secondo altri, per vincere la sua incredulità.
Il disordinato divincolarsi degli apostoli appare del tutto inadeguato a descrivere la solennità del momento. Per rimarcare l’episodio della donazione della cintura, l’artefice offre maggiore visibilità all’apostolo, staccandolo dal gruppo dei dodici per concedergli l’onore della centralità, al cospetto di Maria. L’esito è quantomeno dubbio: la Vergine pare più protesa a discendere in una piccola valle per incontrare Tommaso, che ad innalzarsi per ascendere ad un luminoso cielo ancora distinto da nubi globulari.
Soggetto insolito nei repertori iconografici isolani del xvi secolo è l’Incredulità di S. Tommaso, di cui è nota solo un’altra tavola nella quadreria del Museo Sanna di Sassari, riconducibile alla Scuola Sassarese della seconda metà del Cinquecento, forse a Giacomo Corsetto. Questa di Oliena, per quanto mutila, manifesta pochi, chiari elementi per l’identificazione del brano rappresentato. La figura eretta di un santo si staglia su di un luminoso cielo di un giallo aurorale, che rievoca quello ben più saturo dell’Arcangelo S. Michele del Retablo di Tonara e riprende talune atmosfere care allo stesso Francesco Pinna per le quali il retablo, in via ipotetica, fu assegnato dalla Goddard King al maestro algherese, sebbene la stessa ricercatrice ne riconoscesse una qualità più elevata nel Retablo dell’Assunzione. Per un principio di simmetria bilaterale si deve presumere che la larghezza della tavola, oggi ridotta a 38 cm, dovette in origine essere uguale a quella del corrispondente pannello della Annunciazione, ipotizzabile, quindi, in una misura quasi doppia di quella residua. In basso, sulla destra, sono gli emblemi della squadra e del cuneo spaccasassi che, con il libro sul braccio destro, sono gli attributi di S. Tommaso, patrono, tra gli altri, dei geometri, dei muratori e dei tagliapietre. L’improbabile ombra tra i due piedi palesa un pentimento nella postura o nel numero delle dita. La cancellazione di quello che sembrerebbe configurarsi come un secondo alluce sortisce l’effetto di un piede affetto da valgismo. Questo che potrebbe apparire come un errore se non proprio una bizzarria dell’artefice, rientrerebbe nei ranghi di una consuetudine rinascimentale affatto rara, che portò molti pittori anche di chiarissima fama a potenziare gli arti, generalmente quelli inferiori, con analoghe soluzioni (in genere sei dita per piede), per dare maggiore fisicità e presenza al soggetto ritratto. Tra gli esempi culturalmente più prossimi si ricordano, Nel Capo di Cagliari la S. Apollonia de Retablo del Santo Cristo di Pietro Cavaro e gli evangelisti della predella predella del Retablo di Suelli per la quale si è proposta l’attribuzione ad Antioco Mainas; nel Capo di Logudoro, il Cristo deposto nel Discendimento della Croce del Maestro di Ozieri e i SS. Giacomo e Filippo nel Retablo di S. Giacomo di un suo seguace, l’anonimo Maestro di Ittireddu.
Alla sinistra di Tommaso era il Cristo, di cui si intravede ancora la mano che invita l’incredulo a porre le dita nel Suo costato. Singolare la costruzione della scena nella quale la figura del Risorto è simmetrica, quasi speculare, si oserebbe dire, a quell’apostolo che nel nome (“Töma” in Aramaico, “Didimo” in greco) significa “gemello”, perché molto simile, secondo tradizione, al Salvatore e per questa ragione, confuso dal canonico Sale con S. Gimignano. Il modello iconografico che prevede l’accostamento di due figure erette di santi nelle tavole maggiori di un politico ha pochi riscontri nella pittura sarda del Cinquecento: nei Retabli di S. Anna di Sanluri, del Giudizio Universale del Maestro di Olzai, di Sinnai di Lorenzo Cavaro e di S. Saturno di Francesco Pinna, dai quali il Maestro di Tonara ha tratto ripetuti prestiti. Tra i due personaggi è un oscuro oggetto, forse, una cinghia (di cui pare di intravedere la fibula), quella stessa raccolta dal santo nella tavola dell'Assunzione della Vergine. In lontananza è Gerusalemme con la stessa architettura, scandita da palazzi con coperture spioventi e torrioni dalle strette finestrelle, quasi delle feritoie, della tavola della Passione di Cristo. Ancora oltre, sulla linea dell’orizzonte, sono alcuni alberi memori di quelle latifoglie dello sfondo della Madonna della Consolazione attribuita a Michele Cavaro.
Le lunghe e fini ciocche della capigliatura, il volto incorniciato da una leggera barba che lascia scoperto il labbro superiore, gli zigomi alti e pieni rimandano direttamente al volto del Crocifisso di questo retablo. Che il dato possa costituire un elemento identificativo di talune fisionomie del Maestro di Tonara è, tuttavia, vanificato dalla ovvietà che il discepolo secondo tradizione fosse simile a Cristo. Altri particolari, quali gli alluci più piccoli delle altre dita e il particolarissimo gomito spigoloso rievocano quelli del S. Michele del Retablo di Tonara, stabilendo di fatto una continuità stilistica ma anche una chiara maturazione nel segno di un maggiore equilibrio cromatico in una tavola – questa dell’Incredulità di S. Tommaso – nella quale il Maestro raggiunge i massimi vertici della sua arte espressiva.
Di grande interesse è il nimbo del santo che trae taluni decori dal repertorio della tradizione incisoria delle cassapanche sarde, della tipologia di Aritzo o Barbaricina. Specificamente, nell’ordine concentrico esterno, sottostante una semplice cornicetta a cerchielli, si rileva un zigzag segnato da quattro segmenti paralleli, scandito da un cerchiello maggiore e due minori disposti a triangolo, proprio della cornice (su ziru) del campo centrale (sa mustra) delle cassapanche di Aritzo o Barbaricine. Nell’ordine interno è il comunissimo motivo della “fava”, una baccellatura a ventaglio, identica a quella del nimbo della Madonna di Montserrat. La traslazione di motivi tradizionali della Barbagia dichiara la collaborazione di maestri della doratura locali, molto probabilmente gli stessi che si adoperarono per il nimbo della Vergine di Montserrat, di antica pertinenza della stessa ex parrocchiale olianese.
Sono almeno due i pittori impegnati nella realizzazione del Retablo dell’Assunta. Alla mano del maestro va sicuramente riconosciuta l’Incredulità di S. Tommaso e, in larga parte, la Passione di Cristo. Il resto è opera di un aiuto di bottega, la cui capacità artistica non è accostabile a quella dell’anonimo tardomanierista. La documentazione della sua attività esclusivamente a Tonara e Oliena e l’utilizzo prevalente di tavole in castagno proprie delle Barbagie, indurrebbe a credere che il Maestro possa avere avuto bottega in un centro del Nuorese.
Su un substrato prevalentemente stampacino si innestano reminiscenze perugine, citazioni dai capolavori del Maestro di Ozieri e di Francesco Pinna, sapientemente amalgamate con soluzioni originalissime, non ultima quella dei decori delle cassapanche sarde. Quello che emerge è, insomma, il ritratto di un personaggio colto che rammenta, nell’origine e nella formazione, quel Giovanni Paolo Pau nativo di Nuoro ma residente a Cagliari, il quale nell’aprile 1598 si incarta per un periodo di sei anni presso la bottega di Francesco Pinna nel quartiere di Lappola a Cagliari. Ed è quantomeno singolare che talune tangenze con il maestro algherese, già poste in evidenza dalla Goddard King al punto da spingerla ad ipotizzare l’attribuzione del Retablo del’Assunta allo stesso Pinna, trovino in questo saggio ulteriori, molteplici e inquietanti elementi di riscontro e di riflessione.
Tra gli elementi dei polittici abbandonati nel 1947 nel cortile adiacente la parrocchiale di S. Ignazio in Oliena furono rinvenute altre tre tavole, presumibilmente appartenute ad uno stesso retablo, anch’esso attribuibile al Maestro di Tonara. In queste si crede di riconoscere quelle descritte nel 1931 da Mauro Sale in Appunti di arte sacra della Diocesi di Nuoro come afferenti ad un polittico già nella chiesa di S. Maria Assunta, a lui noto nella sua integrità sin dal 1900. Il canonico dorgalese, dopo avere sommariamente descritto il Retablo del S. Cristoforo del Maestro di Oliena, il Retablo di S. Sebastiano attribuito al Maestro di Ozieri e quello di S. Gimignano qui riconosciuto in quello dell’Assunzione della Vergine del Maestro di Tonara, rende testimonianza di un solo, altro polittico smembrato dai ladri “verso il 1904”, le cui tavole furono in massima parte “vendute a qualche furbo antiquario”. Quelle poche scampate al furto si suppone – per esclusione – possano identificarsi in queste tre in esame. Sorprende che tra i quattro retabli l’attenzione dei saccheggiatori si sia rivolta verso quelle tavole presumibilmente di minore valore artistico, almeno se rapportate a quelle pervenute. La contraddizione potrebbe giustificarsi (oltre che nell’assenza di adeguati strumenti culturali nei malviventi) in un probabile, migliore stato di conservazione delle tavole trafugate. Queste rinvenute nel cortile parrocchiale, nel bene e nel male condivisero, nel secolo scorso, lo stesso destino delle tavole superstiti del Retablo dell’Assunzione della Vergine e del Retablo di S. Sebastiano, fino a confluire, in ultimo, in una stessa collezione privata, romana.
Dei tre quadri, una tavola in castagno raffigurante Gesù davanti ad Erode (cm 100 x 69) e due elementi di predella in abete – un Angelo annunziante (cm 39 x 30 circa) e un S. Cristoforo (cm 47 x 30 circa) – solo le prime due compaiono nel preventivo di restauro del De Bacci Venuti; della terza inspiegabilmente non è fatta menzione. La eterogeneità dei supporti non inficia la possibilità di ricondurre i tre dipinti ad olio ad uno stesso polittico. La testimonianza della derivazione da un solo retablo resa dal Sale sembrerebbe confermata da una maniera riferibile, quantomeno, ad uno stesso ambito, se non proprio, in taluni elementi, ad un solo artefice culturalmente e tecnicamente più dotato, nel quale si riconosce, ancora una volta, il Maestro di Tonara.
La sopravvivenza di una sola tavola tra quelle maggiori, sfavorisce la costruzione di una ipotesi sull’architettura del retablo, per quanto la specificità del Cristo davanti ad Erode – soggetto assolutamente inedito nei repertori iconografici isolani, seppure rappresentato nelle stampe dell’epoca – presupporrebbe un contesto narrativo articolato, sviluppato, forse, più su un doppio che su un singolo trittico. Di certo si può affermare che, per la peculiarità del brano pittorico, questo non possa che essere appartenuto ad un Retablo della Passione di Cristo.
La costruzione scenica del Cristo davanti ad Erode riecheggia quella dell’omonimo soggetto della “Piccola Passione” di Albrecht Dürer, ma l’eccessivo affollamento denota la difficoltà dell’artefice di stabilire nuove, efficaci dinamiche tra i protagonisti, che quasi soccombono nella moltitudine e nella ressa dei personaggi. Gesù è minacciato da una figura la quale nella postura rammenta quella del soldato che, nel Cristo davanti ad Erode del Dürer, lo trattiene legato con una fune qui ricalcata nel disegno della spada; la papalina che questo porta in capo è, invece, quella del soldato con alabarda del Cristo davanti ad Pilato, incisione n. xvi della stessa serie dureriana. Di suo il Maestro di Tonara ne ridisegna la veste, la cui manica rincalzante sul braccio – ma anche la linearità delle lunghe pieghe del panneggio della tunica e il modo in cui questa si trascina a terra – riecheggiano quelle di moltissime figure di Antioco Mainas. All’altro fianco del Salvatore è, torvo nello sguardo, un sommo sacerdote. Dinanzi Gli è Erode Antipa, assiso su di un trono riccamente decorato nel bracciolo da una protome canina, libera interpretazione dell’idea dureriana del cagnetto accucciato sotto le gambe del sovrano nella omonima stampa. Alle spalle del tetrarca della Galilea e della Perea, una anziana Erodiade, moglie di suo fratello Filippo, nasconde il volto per l’imbarazzo, avendo domandato la testa di Giovanni il battista, cugino di Gesù, quale compenso per la mirabile danza di sua figlia Salomè.
La barba del Cristo è segnata da lunghe pennellate del tutto simili a quella del S. Tommaso del Retablo dell’Assunta del Maestro di Tonara. Anche le fisionomie di taluni personaggi e il ductus delle armature dei soldati trovano precisa corrispondenza in quelle di talune figure delle tavole della Passione di Cristo del Retablo di S. Anastasìa e del Retablo dell’Assunzione della Vergine del maestro barbaricino.
La quinta mostra la sua maggiore fragilità nell’assemblaggio di elementi della classicità, quattro colonne improbabilmente illuminate, a sostegno di un ingenuo soffitto in tavolato (o, talvolta, sprovviste di trabeazione), in un indefinito interno domestico privo di profondità. Tre di queste, con la varietà di capitelli che le sovrastano, e quella finestra qui adattata ad armadio a muro, dipendono dalla incisione del Cristo davanti a Pilato della “Piccola Passione” del Dürer. Una quarta colonna (la prima a sinistra), la postura del tetrarca (seduto col braccio sinistro alzato), la corona irta di aculei che gli cinge la testa (emblema della malvagità e della sua perfidia) e il regale baldacchino che lo sovrasta discendono da quelle del Cristo davanti a Erode, della stessa serie del maestro incisore tedesco.
Su tutti i presenti incombe la figura di un diavolo-burattinaio, che emana i suoi influssi malefici attraverso un paio di corna trattenute tra le mani. Satana è qui vestito di una equivoca, splendente foglia d’oro, che non rimette la condanna del Maligno ma che è traduzione caricaturale della visione dell’angelo luciferino espressa nel Nuovo Testamento.
Nell’insieme la costruzione della scena appare decisamente sbilanciata: appesantita nella fascia inferiore, insignificante in quella superiore; così come priva di equilibrio, allora in senso longitudinale, è la Passione di Cristo del Retablo dell’Assunzione della Vergine dello stesso Maestro di Tonara. La stretta relazione tra i due dipinti, oltre che sostenere una ipotesi attributiva, dà modo di tradurre il confronto in un dato cronologico che si assume non distante, ma certo precedente, a quelle dell’altro retablo olianese, nel quale si colgono scelte coloristiche più raffinate e un uso più sapiente della prospettiva.
Le dimensioni delle tavole superstiti della predella, rapportate alla larghezza del Cristo davanti ad Erode, inducono a credere che questa fosse costituita da cinque elementi. Al centro si suppone la canonica figura di un Cristo tra una Annunciata (dispersa) alla sua destra, e l’Angelo annunciante alla sua sinistra. La postura del S. Cristoforo, che guarda verso sinistra, presupporrebbero una collocazione all’estremità destra, simmetrica ad una quinta tavola non più reperibile, che serrava l’ordine minore nel lato opposto.
L’evidente divario tra l’altezza della tavola del S. Cristoforo e quella dell’Angelo annunziante di circa cm 8, potrebbe essere conseguenza di un ridimensionamento in linea con lo stesso spirito “risanatore” che, ante 1947, giustificò prima lo smembramento, quindi lo squartamento delle singole parti dei retabli rinvenute in “su Pátiu” ad Oliena.
Il S. Cristoforo rinsalda quel culto al santo traghettatore al quale, nella stessa chiesa, nel secondo quarto del xvi secolo, il Maestro di Oliena aveva dedicato un retablo, ispirandosi al racconto della Legenda Aurea di Jacopo da Varagine. Esso è libera trasposizione dell’incisione del S. Cristoforo del Dürer del 1502-03, la prima di una serie di tre, date al torchio ante il 1525. Da questa deriva la postura del santo che porta le vesti alla vita per non bagnarle nel fiume, il manto rigonfio dal vento, l’intesa degli sguardi tra le due figure e il minuto borgo all’orizzonte; il globo terraqueo con croce che il Bambinello regge tra le mani è, invece, dalla terza e ultima stampa, datata al primo quarto del secolo.
Il volto sbarbato scopre una figura giovane dal volto liscio, ben levigato, fisionomicamente distante da quella dell’anziano ricurvo dell’iconografia dureriana e dei personaggi delle tavole del Maestro di Oliena. Per quanto appartenente alla stessa predella, la tavola in esame parrebbe in massima parte opera di altro artefice, ignaro della lezione del Maestro di Ozieri quanto fermamente ancorato alla tradizione cagliaritana della seconda metà del Cinquecento. Le tonalità del cielo e dell’abito del S. Cristoforo rimandano alle cromie delle tavole del Retablo di S. Maria di Montserrato attribuito ad Antioco Mainas. Così il tono rosa del manto del Bambinello riecheggia quello della veste iridata del Risorto della predella del Retablo di Nostra Signora di Valverde, dello stesso maestro stampacino. Alla postura artificiosa del santo si contrappone quella aggraziata, originale, composta ed efficace del Bambino, la sola attribuibile alla mano esperta del Maestro di Tonara. Questo, almeno, suggerirebbe il tratto somatico del volto, così prossimo a quello dell’Angelo annunziante.
Singolare il S. Gabriele arcangelo in volo tra i vicoli di un improbabile contesto urbano, recante in uno svolazzo, quasi un fumetto ante litteram, il glorificante saluto mariano: “Ave Gr[ati]a Pi[en]a D[omi]n[u]s [Tecum]”. Il manto dorato spiegato al vento scopre le ali bicrome, riecheggianti quelle del S. Michele arcangelo del Retablo di S. Anastasìa; mentre il risvolto della tunica alla vita, così frequente nelle tavole della Scuola di Michele Cavaro, trova, in quelle del Maestro di Ozieri, un solo riscontro nell’angelo che porge la corona e la palma del martirio al S. Sebastiano dell’omonimo, smembrato retablo di Sassari.
La scala sulla sinistra denota la chiara conoscenza, forse per mediazione di una stampa di Marcantonio Raimondi, dell’Annunciazione di Albercht Dürer, tratta dalla serie della Vita di Maria, la stessa da cui dipendono l’Annunciazione del Retablo di N. S. di Loreto e del Retablo di S. Maria degli Angeli del Maestro di Ozieri. Sul piano di questa rampa che conduce alla casa della Vergine si innestano improbabili architetture classicheggianti, coronate da taluni spunti rinascimentali, a fronte di un’altra costruzione caratterizzata da una singolare nicchia ad incasso, vagamente memore di quella del tempio laurenziano nel retablo ozierese, quanto di quella della fontanella domestica della stessa incisione del Dürer.
Di sicuro interesse è l’attenzione dell’artefice verso quella ricerca luministico-cromatica, che distingue tutta l’opera del Maestro ozierese. Per quanto i toni della veste dell’angelo, qui più marcatamente sfaldati e franti degli stessi modelli ispiratori, confliggano con una luce irreale che incide sulla Domus Mariae, resta inalterata la testimonianza di un apprendimento, di una coniugazione della maniera stampacina con quella logudorese, che costituisce uno dei momenti più significativi dell’arte del Maestro di Tonara. E non può che essere oggetto di ulteriore riflessione che due dei tre retabli, che costituiscono oggi l’ampliato corpus delle opere del Maestro di Tonara, giungano dalla stessa chiesa di S. Maria Assunta di Oliena, dalle cappelle attigue a quella dei nobili Tolo, committenti del Retablo di S. Sebastiano la più tarda delle opere attribuibili al Maestro di Ozieri