mercoledì 10 luglio 2013

Il generale in pensione di Nino Mura


  

Per chi, a Tonara, sul finire degli anni quaranta, a partire da Bauluru, un territorio quasi soffocato da un mare di noccioleti disposti in duplice filar lungo la provinciale che da Sa Codina porta al ponte di Chinnichinnitzò, lasciava la strada maestra per proseguire con la scorciatoia verso la regione di Istusule, non poteva fare a meno di incontrare sulla sinistra, appena un centinaio di metri dopo la fonte omonima, una caratteristica villetta in stile montano: la casa del generale.

Era l’unica costruzione a far da contraltare ad un paesaggio orfano di vegetazione e di vita umana. In un ambiente asfittico in cui i terreni ricchi di calcare, arenaria ed argilla hanno la prevalenza su quelli a vocazione produttiva, anche i piccoli arbusti faticano a sopravvivere. Tra questi terreni impregnati di un ph ingeneroso, nei pressi di Martì, una struttura funeraria a forma di cupola attesta la traccia di un probabile insediamento preistorico. E’ una delle domos de Giana del periodo neolitico.

In questa strana ed estrema periferia, che ricalca molto da vicino il modello carsico, l’alto ufficiale in pensione aveva ritenuto opportuno costruire la sua dimora. Oggi le mire espansionistiche dell’abitato hanno finito col circoscrivere nei suoi addentellati urbani anche i contorni perimetrali della villetta. Le capriate in legno poste a sostegno di un tetto a falde estremamente sporgenti e un ingresso modellato ad arte secondo disegni di foggia settentrionale fanno oggi la differenza con le altre costruzioni.

Non riesco ad immaginare quante stellette fossero ricucite sulla spallina dorata del nostro alto graduato quando era ancora in servizio attivo, né a quell’età, ancora imberbe, avrei potuto chiedermelo. Chissà, da buon stratega, a quante brigate o divisioni avrà impartito ordini decisivi e perentori e chissà quanto gli sarà costato ritrovarsi a fine carriera in un ambiente non suo. Una scelta non obbligata. Forse, parafrasando il Giusti nella sua visita a sant’Ambrogio, entrò nel branco involontariamente. Taciturno, impettito nel portamento, asciutto nel fisico ma molto slanciato, aveva un carisma tutto particolare.

A Zurigo, in concomitanza con la fine dell’inverno, si usa dar corso, lungo le vie principali, alla sfilata di un campione molto rappresentativo delle varie arti e corporazioni cittadine. Un qualcosa di simile succede anche a Torino per san Giovanni ma con la differenza che i figuranti elvetici sono di altezza notevole. Sembrano degli extra terrestri. Soltanto il borgomastro e i rappresentanti dei settori impiegatizi sono di altezza normale. Il nostro generale si sarebbe trovato certamente a suo agio.

Quando gli stavi vicino ti accorgevi della sua stazza. Questo capitava puntualmente ogni domenica mattina alla messa dei giovani. Sempre in posizione eretta andava a prendere posto nella seconda cappella a destra della chiesa di san Gabriele.

Non so con chi relazionasse nella sua vita privata, forse con pochissimi. Dei suoi lunghi silenzi e della sua solitudine ne faceva una ragione di vita. Quella venata e sottile spocchia a cui spesso fanno ricorso certe persone di successo non sembrava sfiorarlo o interessarlo minimamente. Almeno questa era la mia impressione.

Della sua solitudine e del suo modo di agire ne andava certamente fiero come militare ma ne pagava lo scotto come essere umano. D’altronde la vita spartana condotta nell’accademia e nelle scuole di guerra a base di levatacce quotidiane in ore antelucane, studi condotti con estremo rigore e comportamenti irreprensibili finiscono per forgiare e temprare il carattere di chiunque. Chissà quanto si rammaricava di non riuscire a smussare e ricucire le differenze tra sé e quelli del luogo.

Poche volte mi è capitato nella vita, e per giunta in casi del tutto fortuiti, di incontrare degli ufficiali d’alto bordo. Una volta sul Montello, negli anni sessanta, a causa di un violento temporale, il generale di brigata del Quinto Gruppo di Artiglieria di Vittorio Veneto dovette ripiegare nella nostra tenda da campo per ripararsi dall’acqua. Si trattenne a lungo con il nostro tenente e volle sapere dettagliatamente sui contributi alla guerra simulata e sul perché di certi nostri insuccessi operativi, spesso causati da dispersioni di corrente dei generatori di campo.

Io non ho alcuna idea del piano di studi del corso per ufficiali ma dalle discussioni si capiva benissimo che il generale, in un ottimo italiano, trattava i vari argomenti con competenza e bravura tanto che alla fine ordinò di potenziare le linee elettriche con la disposizione delle batterie in parallelo. Fu tutto inutile. Il maltempo ebbe il sopravvento su ogni tentativo.

Per quanto riguarda il nostro ufficiale superiore in pensione non seppi mai nulla del suo grado di specializzazione né ebbi la fortuna e l’occasione di sentire la sua viva voce.

Dagli inizi degli anni cinquanta le sue visite alle funzioni domenicali cominciarono a diradarsi tanto che noi, lupetti del sottobosco della nostra Bolgheri barbaricina, avvertimmo subito le defezioni del capo branco presso la seconda cappella di destra della parrocchia tonarese.

Forse, per ragioni di salute o per problemi familiari, aveva deciso di rimediare altrove. Le umide terre delle sue plaghe settentrionali avranno accolto le sue spoglie mortali col massimo della riservatezza e con molta benevolenza. Gli omaggi odierni da parte di quanti lo hanno conosciuto a Tonara negli anni del dopoguerra sono scontati. Era il generale Bonatti.