venerdì 27 settembre 2013

Tonara. Festeggiamenti per Sant’Antonio nel tempo articolo di Nino Mura

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Corriga. Processione a Tonara
   A Tonara i festeggiamenti civili e religiosi in onore di sant’Antonio durano otto giorni, dal 13 al 20 giugno. L’organizzazione è affidata a due comitati dei quali il primo si occupa delle manifestazioni relative alla prima settimana mentre il secondo di quelle inerenti all’ottavo giorno, chiamato appunto l’Ottava, Sa die de s’ottada. Di quest’ultima festività, riservata unicamente ai produttori e rivenditori di torrone, ricorre quest’anno il centenario. Grande interesse viene riservato dagli organizzatori per detta ricorrenza.
   I giorni interessati a detti eventi rappresentano, specie per i più piccoli, una parentesi di colore delegata all’insegna del divertimento e del lieto vivere. I rigori invernali che hanno accompagnato l’intero anno scolastico non possono che arrendersi incondizionatamente alla ventata primaverile proposta dalla seconda decade di giugno. Un toccasana dai mille risvolti positivi. E il mondo dell’effimero non tradisce mai le attese di quanti si rifugiano con impazienza nel variegato percorso delle vacanze dietro l’uscio.
   Già prima di giungere in Sardegna avevo ricevuto dai miei genitori, sardus pater et sarda mater, tutte le istruzioni del caso sui temi della sagra di sant’Antonio ed in particolare sui colori delle bandierine, sulle animazioni dei personaggi del circo, sulle bancarelle dei dolciumi, sulle processioni religiose in costume e sulle emozioni della folla alle corse dei cavalli.
   Questo succedeva nel 1945. Gli americani, col loro ingresso nella città eterna, avevano preso posizione con i loro mezzi blindati in tutte le piazze. In via Satrico, nel giorno della liberazione, di fronte a casa mia, si era fermata una guarnigione di carristi che, dopo essersi concessi al plauso degli abitanti del quartiere, avevano iniziato una interessante distribuzione di zucchero nero e formaggio giallo. Io e mio fratello, proseguimmo poi in Piazza Epiro ad inseguire con molta tranquillità i nostri giochi preferiti. Si trattava di piazzare sulle rotaie dei tram i tappi inservibili delle bottiglie del latte. Dopo il passaggio dei mezzi rotanti recuperavamo il prodotto finito, vale a dire le lattine, per giocare nel vicinato. Impossibile uscire di casa quando i tedeschi scorrazzavano nella borgata con i loro sidecar. Ma questa è tutta un’altra storia che sa di bombardamenti, rappresaglie, corse ai rifugi, carenze di cibo e tanta paura.
   Mio padre, durante le continue retate effettuate dai tedeschi a danno degli appartenenti all’Arma dei carabinieri, era riuscito a far salva la pelle. Nel suo appartamento di via Satrico aveva creato lo spazio necessario per la sua sopravvivenza. Per farti un’idea dello stratagemma usato immagina in successione, all’interno di una camera, una credenza, un tramezzo provvisto di una piccola apertura, una piccola striscia superficiaria ed il muro divisorio con gli altri alloggi. Un colpo di tosse o un’indagine più accurata avrebbero compromesso il tutto. Si è scritto poco sulla deportazione dei carabinieri avvenuta il 17 ottobre del 43. Di queste cose seppi da grande, ma non da mio padre, molto riservato, né da mia madre, deceduta di crepacuore qualche anno dopo. Da grande ho visitato l’azienda di spazzole per calzature gestita da operatori ebrei a Berlino. Ho anche inquadrato il mobile che mascherava l’abitacolo segreto in fondo alla costruzione. Ho fatto un ripensamento alla dimora romana. Mi sono rivisto nella innocenza del bambino del film di Benigni.
   Era bella l’abitazione di via Satrico, molto solare. In quell’anno avevo frequentato la prima elementare presso le scuole del Preziosissimo Sangue. Poi a ottobre, con alle spalle una città martoriata dalle sofferenze e dai danni causati dalla guerra, un estenuante viaggio via terra e via mare, depositò me ed i miei familiari sulla banchina del porto di Cagliari come dei sacchi a perdere, comprese le masserizie che mio padre aveva cercato di portare in Sardegna. Vedere il capoluogo isolano dalla darsena non mi fece una buona impressione. I bombardamenti avevano reso un bel servizio alla città. Questa volta erano stati gli americani. Il trenino delle complementari, che oggi chiamano verde, ci condusse sino alla stazione di Tonara e di qui procedemmo per il paese con la carretta di uno zio paterno, un torronaio per l’esattezza, e con il carro a buoi a sponde allungate di uno zio materno.
   Dalla vendita dell’appartamento i miei genitori erano riusciti a realizzare una cospicua somma che, a causa della svalutazione galoppante, era servita a mala pena a pagare una trasferta di viaggio durata, con treni che non si formavano e con navi che non salpavano, più di dieci giorni. Era il periodo delle lire americane, le cosiddette AM lire.
   Andammo ad abitare in Pratza manna nella casa dei nonni materni. Si trattò di una sistemazione provvisoria che si protrasse per più di un anno. Frequentai la seconda elementare ad Istraccu, contrada del rione di Arasulè, ma, con l’avvicinarsi della chiusura delle scuole, già cominciavo a pregustare il sapore del mondo dei divertimenti per sant’Antonio. Volle il caso che, proprio nella settimana precedente i festeggiamenti, caddi malato. Una strana foruncolosi, mi impedì di uscire di casa, anzi dalla mia stanza. Mia madre, che aveva capito la mia situazione, cercava di confortarmi dicendomi che almeno per l’Ottava mi sarei ristabilito. I brufoli, semos in vernacolo, nel momento in cui sembravano cicatrizzarsi si rigeneravano con maggiore ostinazione. La testa si appesantiva sempre di più ed ogni movimento mi creava notevoli disagi. Non so quante volte ho sfogliato i vecchi numeri della Domenica del Corriere, il periodico dei pensionati. Avevo letto senza capirci gran che della Stanza di Montanelli. Avevo anche cercato di dare risposta alle domande dei cruciverba delle ultime pagine del settimanale ma le caselle delle righe e delle colonne rimanevano sempre in bianco. Al medico Dottor Giovanni Sulis, alias Nanneddu meu, non feci mai ricorso. L’unica medicina che risolse il problema venne offerta dal tempo. E il tempo si lasciò dietro anche l’Ottava e i miei sogni.
   La prima volta da spettatore ai festeggiamenti per sant’Antonio fu nel 1947. A quei tempi il quotidiano dell’Unione Sarda costava 25 lire ed il numero degli abbonati era così ridotto da contarsi sulle dita di una mano. La lettura era riservata a pochi eletti e spesso succedeva che chi sapeva leggere non sempre capiva il vero significato del contenuto. Talvolta il giornale veniva letto di proposito a voce alta per favorire fra i presenti oltre che l’audizione anche l’apprendimento e la successiva discussione.
   Per accedere al sagrato, gli abitanti dei rioni ubicati in fondo al paese potevano inseguire diversi percorsi che, in prossimità della strada provinciale, permettevano di raggiungere di spalle la chiesa attraverso sentieri vagamente tracciati sulla roccia dell’ultimo dislivello.
   Allo stesso modo si comportò anche il Lawrence, quando, in una fredda mattina di gennaio del 1921, dovette rimontare in salita assieme alla moglie (l’ape regina) i diversi metri che lo separavano dalla porta laterale del tempio. Riferisce lo scrittore in Mare e Sardegna che entrambi si arrampicarono sul breve tratto roccioso we climbed back up the little rock-track sino ad arrivare all’ingresso laterale dove trovarono la chiesa gremita di fedeli when we came to the side-door we found the Church quite full. La traduzione del primo passaggio inglese potrebbe rappresentarsi con la seguente espressione dialettale tonarese Noso seus arzaos a orrugadura in su tremeneddu mentre per la seconda parte potrebbe valere il seguente andante Canno chi noso seus arribaos a s’intrada de fiancu aus agatau sa cresia giai prena.
   Nella descrizione dello scrittore d’Oltre Manica intorno alla processione in costume dei parrocchiani tonaresi la prosa diventa poesia e la poesia come tale, dopo una forte implosione di effetti magici, si libera verso l’alto, sempre più in alto, lasciando il lettore sgomento, senza parole, incredulo, quasi incapace di inseguire i virtuosismi dell’impareggiabile artista. E’ una tela d’autore nella quale le tinte impiegate fanno fede di una visione attenta e reale dei vari passaggi nei quali i personaggi ripresi sono gli inconsapevoli protagonisti di una scena da consegnare all’immortalità. Ogni volta che faccio una rilettura della sua esposizione trovo sempre qualcosa di nuovo come se il Lawrence continuasse a lavorare da dietro le quinte sullo spartito della sua musica. E sono passati ormai più di novanta anni dalla sua visita. Non so in quante lingue siano stati tradotti i suoi messaggi. Nessuno che abbia mai tentato di fare una traduzione in dialetto tonarese della sua narrazione.
   Antonio Corriga, il pittore isolano recentemente scomparso, simulando le attenzioni del britannico, riesce a trasferire efficacemente sulla tela alcuni passaggi della celebre descrizione. Non so chi sia il possessore del quadro. Mi auguro appartenga ad un tonarese. Io propongo all’attenzione del lettore solamente una fotografia del dipinto che l’autore mi aveva donato alcuni decenni addietro. Sul retro leggo una data: dicembre 1984.
   I residenti del rione superiore, invece, non avevano da faticare per accedere al luogo di culto. Dopo la discesa dai loro casolari si trovavano in breve tempo in dirittura d’arrivo.
   Oggi la struttura ecclesiastica è protetta di spalle e di fianco da un’accurata recinzione mentre la parte esposta a nord difetta del cancello.
   La piccola chiesa sta al termine di un altopiano che funge da diaframma con le frazioni alte e quelle basse dell’abitato. Su pranu, il pianoro su cui è ubicato l’edificio, accoglie, da una cinquantina d’anni a questa parte, una nuova frazione che attualmente è diventata la più numerosa.
   Il tempio, che oggi per disposizioni parrocchiali funge quasi da pieve, sorge sul colle da pochi secoli. E’ citato per la prima volta nell’atto di morte di Giovanni Pala, decesso avvenuto in data 13 marzo 1746. Fra le varie disposizioni del testatore, curate dal notaio Anselmo Floris, figura un lascito di due pecore en beneficio de la Iglesia. Per ulteriori approfondimenti si rimanda a Segni di devozione per Sant’Antonio e la sua chiesa, paragrafo citato a pagina 182 e seguenti del secondo volume di Memorie tonaresi dal titolo I testamenti più significativi del passato (1668-1847).e presentato nella seconda parte di questo servizio.
   Dalla lettera datata 1 gennaio 1825 ed indirizzata ad Antonio Tore, vicario generale capitolare ad Oristano negli anni che corrono dal 1821 al 1827, vertente sui quesiti posti dalla circolare del 20 novembre del 1824 intorno al divieto di seppellimento dei cadaveri all’interno delle chiese, apprendiamo quanto segue:
   Il Villaggio di Tonara si compone di quattro Rioni, il più popolato e grande è quello, che si dice Arasulè. Contiguo a questo Rione esistono due chiese,
   la prima è situata nell’estremità disopra al detto Rione, quale è giornalmente abitata, e dove si adora il santis(simo) Sag(ramento) e si celebra il divino sagrifizio, ed è propriamente detto l’oratorio di S(an)ta Croce: questa chiesa è circondata da un cortile di poca estenzione, il muro non è ato a difendere di entrare nel medesimo quegli animali quadrupedi, che sono di più agilità, e nocivi.
   La seconda chiesa è foranea, ma contigua al Rione, ed è propriamente detta di Sant’Ant(oni)o situata in una pianura non meno distante dall’estremità di detto Rione venti minuti: questa chiesa non viene frequentata dagli abitanti di Tonara in altro tempo, solamente dal primo giorno del mese di Giugno, fino al tredici di detto mese nei quali giorni concorrono gli abitanti per farvi il novenario, ed il giorno tredici si celebra la festa in onore del santo e vi concorrono anche molti forestieri, questa chiesa ha annesso un cortile malamente fabbricato di non mediocre estenzione, contiguo al cortile possiede un terreno agrario aperto di qualche estenzione
   Il mittente della missiva è il vice rettore parrocchiale tonarese Michele Zucca. Vedi atti sciolti del carteggio relativo alla figura del Tore nell’archivio storico diocesano di Oristano.
   Riferisce Vittorio Angius, a proposito dei festeggiamenti in onore del santo, alla voce Tonara del Dizionario del Casalis, durante la visita effettuata nel 1846, che questi duravano 2 giorni ed il piazzale assumeva l’aspetto di un mercato. Dopo i vespri della festa si corre il palio; ma bisogna dire che i premi sono meschini, consistendo essi in alcune decine di palmi di velluto nero o azzurro.
   Le corse equestri hanno spesso richiamato l’attenzione e l’interesse dei comitati organizzatori. Negli anni cinquanta i cavalli venivano impegnati sul tratto di strada che dal bivio per Toneri porta verso il sagrato della chiesa di Sant’Antonio. Precedentemente, intorno agli anni trenta e quaranta, si era corso, secondo la testimonianza di Gesuino Peddes, su tracciati più impegnativi che, a partire da Otassà, località sulla provinciale Tonara-Belvì, andavano ad interessare una percorrenza di circa quattro chilometri. La partecipazione dei concorrenti, forte della presenza di cavalieri di diversi paesi, era nutrita.
   Ed una volta all’anno nei secoli passati c’era spazio, nel piccolo agglomerato urbano di Ilalà, rione adagiato sul fondovalle ma disabitato dal 1930, per onorare con un concorso ippico la memoria del glorioso martire San Sebastiano. Fra le varie disposizioni segnalate nel testamento di Tomaso Poddie, deceduto il 16 giugno 1673, risulta un lascito di sei reali per acquistare tanto panno da utilizzare per i cavalli che correranno il giorno della festa del santo (seis reales para mercar tanto cadis el dia de San Sebastian q(ue) sirva para los cavallos (sic) q(ue) correran en d(ic)ha fiesta). Preciso che con uno scudo, corrispondente in quei tempi al valore di dieci reali, si poteva acquistare una pecora da latte.
   Il quartiere di Sant’Antonio si animava soprattutto per la ricorrenza dei festeggiamenti.
   L’area che accoglieva il tempio, il sagrato, il salone dell’Azione cattolica, i vecchi muristenes a schiera accorpati in linea con la recinzione esterna, casupole d’accoglienza prive di apertura, e le ridotte pertinenze libere della zona retrostante alla chiesetta non superava il mezzo ettaro. In seguito lo spazio, con la costruzione dei locali per la scuola media e dell’istituto tecnico industriale, si è ulteriormente ridotto. L’insieme può essere rappresentato da un semicerchio sul cui diametro scorre principalmente il traffico pedonale mentre su buona parte della semicirconferenza fluisce il transito automobilistico.
   La chiesetta è provvista di tre ingressi dei quali uno rappresenta l’entrata principale mentre gli altri due sono degli usci secondari. Questi ultimi, nel rispetto della direzione nord-sud sono disposti rispettivamente alla sinistra dell’unica navata ed in fondo alla destra dell’abside. La capienza massima non sarà superiore alle cento unità. E tante potevano essere le figure umane rappresentate nella processione del Lawrence nel 1921. Aggiungi anche il numero di coloro che non trovarono posto all’interno e puoi farti un’idea dello scenario a tinte prevalenti di rosso, di bianco e di nero che si era presentato allo scrittore inglese. Prova a cadenzare un gruppo di centocinquanta persone su un percorso curvilineo e non sempre pianeggiante e ti accorgerai dell’effetto a sorpresa.
   Come accade solitamente in tali occasioni i personaggi appaiono alti, anzi altissimi. Questo mi succede ad Oristano, quando, in occasione della Sartiglia, assisto al corteo delle dame e dei cavalieri. Forse ciò dipende dallo spesso strato di sabbia disteso sul percorso o anche dai lunghi pennacchi di foggia spagnola evidenziati dal copricapo dei figuranti. E’ un senso delle proporzioni che non sono mai riuscito a spiegarmi. La stessa cosa si verifica stando a teatro o in chiesa. Commedianti e celebranti, forse in virtù del loro portamento e del loro peso mediatico, sembrano giganteggiare.
   All’epoca dei festeggiamenti del passato, a partire dall’ingresso, il visitatore, procedendo in senso sinistrorso attorno alla chiesetta, incontrava le prime bancarelle di dolciumi, quindi due o tre postazioni di tiro a segno, l’albero della cuccagna, il cannoncino da sospingere su un breve tracciato in forte pendenza, il circo, la giostra ed il palco degli improvvisatori del canto sardo (i cosiddetti cantadores). Prima di raggiungere nuovamente il punto di partenza, uno stretto corridoio all’aperto immetteva verso i muristenes dove solitamente erano accampati i venditori di torrone. C’era comunque spazio anche per i negozianti di vino e di bibite fresche. Nella zona antistante stazionavano i rivenditori di articoli per la casa e per la campagna. Non mancava il settore riservato ai giocattoli. In postazioni particolari del sagrato ritrovavi prestigiatori ed imbonitori vari che si proponevano all’attenzione dei curiosi con i giochi delle tre carte e dei cinque dischi. Il primo richiedeva doti di tempismo, il secondo di abilità.
   Ad orari stabiliti c’era spazio solo per la processione. Facendosi largo tra i passanti, sbucava all’improvviso sul sagrato per andare a guadagnare i percorsi più impensati del vicinato per poi ricomparire a passo lento in prossimità dell’ingresso principale. Non c’era in questi passaggi alcun effetto a sorpresa in quanto la lunga sfilata al seguito del santo era efficacemente preceduta e pubblicizzata dagli spari a ritmo incessante dei mortaretti (is coettes). Non so se i giovani d’oggi utilizzino ancora questo termine catalano che in campidanese sta per cuettus oppure se preferiscano italianizzare il lemma con dei neologismi di copertura o di comodo.
   La processione degli anni cinquanta era definita da un preciso intorno che andava a comprendere le donne in costume, i chierichetti, il santo, il celebrante, i confratelli del terzo ordine, incappucciati di tutto punto con le loro divise bianconere, le priorisse, ossia le delegate a rappresentare la chiesa ed il suo illustre taumaturgo nei vari aspetti logistici, i componenti del comitato e gli anonimi fedeli al seguito di tanti labari e bandiere. In quei tempi il sacro corteo rappresentava qualcosa di sentito, di partecipato, di religioso. Oggi è ben poca cosa rispetto ad allora ed i più vorrebbero rivivere e riproporre le sfilate del passato come un avvenimento profano, un festeggiamento civile, un’attrazione per i turisti. La parola turista, sinonimo di foristeri, non faceva parte in quei tempi del vocabolario sardo. Non era stata ancora coniata.
   Il circo (su giogu) andava ad occupare in quegli anni un ampio settore della zona retrostante alla chiesa con i picchetti che andavano ad affossare i rampini nella parte sud, quasi sulle estremità della strada provinciale. Mi ritorna in mente che l’arena, orfana di animali esotici, era sempre ben rappresentata da bravi acrobati, comici, suonatori e giocolieri. Un disco, azionato con la manovella del grammofono, ripeteva spesso ed in continuazione il seguente ritornello:
   Io sono fortunello,
non son brutto né bello,
son nato in una stalla,
mia madre è una cavalla.
   Con tutto quel che sono,
non ve lo posso dire,
a dirlo non son buono,
mi proverò a cantar.
   Sono passati tanti anni e ne ricordo ancora l’adagio. Talvolta mi faccio anche una cantatina. Funziona sempre. Anche quando ho il morale sotto i tacchi.
   Le canzonette di Sanremo non bollivano ancora in pentola. Benito Urgu non calcava le scene circensi. Troppo giovane. Per una strana coincidenza temporale, eravamo nati nello stesso anno, stesso mese e stesso giorno. Dall’estratto di nascita, certificato che ho l’onore di ritirare in Campidoglio, posso leggere anche l’ora ed il minuto. Non so se lui sappia del momento in cui è venuto alla luce.
   Quando venne a Tonara per la prima volta con il suo complesso, nelle vesti di comico e di cantante, non incontrò a primo acchito i favori di tutti gli spettatori. Rivolto a quelle piccole frange di incontentabili sentenziò: Credete davvero che se fossi stato veramente grande sarei venuto in mezzo a voi? Col passare degli anni quei pochi si saranno certamente ricreduti.
   A quei tempi i mezzi in circolazione erano rappresentati in maggioranza dalle carrette a cavallo degli ambulanti e dai carri a buoi dei conduttori agricoli. Di biciclette nessuna traccia. In sostituzione venivano usati dagli adolescenti, specialmente nei tratti in discesa, dei caratteristici tricicli assemblati con legni di quercia che in vernacolo venivano chiamati icicle. Quasi dei bob a due ma molto più contenuti.
   Gli apparecchi radio registrati in paese non superavano le cinque unità. Il telefono era gestito solamente dall’ufficio postale e dalla stazione dei carabinieri. Il calcio balilla non aveva ancora fatto l’apparizione nei locali pubblici. Nel periodo a cavallo tra gli anni quaranta e cinquanta si giocava ancora con le palle di pezza.
   Pochi i veicoli a motore. In ogni modo gli animali si disimpegnavano a dovere anche sulle grandi tratte. Non solo per il trasporto dei beni di prima necessità, ma anche di quelli di secondaria importanza quali il ghiaccio per la mescita delle bibite fresche. Gesuino Peddes, decano dei carrettieri di un tempo, faceva incetta di lastre congelate ad Oristano.
   Con l’avvento degli anni sessanta i mezzi di trasporto diventarono così numerosi che, per l’Ottava di sant’Antonio, che ha sempre rappresentato e rappresenta la festa dei viaggiantes, si concentravano in Su Pranu, zona del campo sportivo e dintorni, per ricevere la benedizione del parroco. I fuochi pirotecnici solennizzavano la chiusura dei festeggiamenti. Quando la grande area venne occupata dalle prime costruzioni ed a queste fecero seguito i primi quartieri, non ci fu più spazio per i raduni delle quattro ruote e gli organizzatori dovettero ripiegare per i loro programmi su altre iniziative. Peccato che nel tempo sia venuto a mancare l’elemento umano. E’ sempre la gente che crea i presupposti della festa. Il proverbio pagu gente megnu(s) festa regge sino a un certo punto.
   Agli inizi degli anni cinquanta Tonara contava più di quattromila anime, il doppio di quelle censite oggi. Il sagrato faceva il pienone di presenze umane allo scoppio dei primi mortaretti o al passaggio della processione.
   Ogni occasione era buona per inseguire i discorsi dei vari imbonitori di turno di mercanzie varie, per assistere alle evoluzioni del carrellino mobile che si impennava sulla breve rampa di lancio, per conteggiare mentalmente il numero dei gessetti abbattuti con la carabina dai tiratori di turno e per assaporare al meglio le parentesi più suggestive offerte dalla sagra.
   C’erano anche le bertucce del circo che con i loro numeri a volteggio continuo eccitavano la curiosità di chiunque. Non so se nel nostro pianeta esistano altri animali in grado di imitarle nei loro esercizi ginnici.
   Spesse volte e per lunghi tempi mi ritrovavo a fare da spettatore al gioco dei cinque dischi. Per partecipare bisognava spendere 50 lire. In caso di vincita, evento molto raro, il giocatore intascava dieci volte la posta. L’occorrente era rappresentato da un tavolinetto sul quale era disegnato un cerchio bianco dal diametro non superiore ai venti centimetri. Le cinque piastre, ciascuna di raggio intorno al mezzo decimetro, dovevano ricoprire, una volta fatte cadere sul piano del mobile, l’intera superficie circolare. Durante una fase di stanca, il padrone del gioco mi invitò a fare delle prove senza impegno. Con mia grande sorpresa riuscii nell’intento al secondo tentativo. Tenne a precisare che la mia partecipazione al gioco vero mi era preclusa in quanto minorenne.
   Il gioco delle tre carte fece una rapida e fugace apparizione. Capii che non poteva essere gestito legalmente alla luce del sole.
   L’albero della cuccagna (su pinnone), definito da una grossa e lunga biga in castagno, ancora prima di essere infossato nel terreno per almeno un metro, veniva ripulito della corteccia e abilmente ingrassato con sego di porco (oggiuseu). Lo spazio di operatività per i concorrenti era definito da una ampia area definita esternamente dalla fiancata laterale del tempio, quella che dispone di un ingresso secondario, dalla recinzione esterna che lambisce un tratto dell’arteria provinciale e dal circo equestre. In elevazione superava di alcuni metri la sommità del campanile a vela che dà sul sagrato. La posta in palio era solitamente alta. Si aggirava sull’importo di diecimila lire.I valori di un chilo di torrone, un carro di legna d’ardere, una giornata di lavoro di un muratore, il corrispettivo giornaliero per un conduttore col carro a buoi, secondo le annotazioni dei registri comunali tonaresi, erano espressi rispettivamente dai seguenti importi: 700 lire, 3120 e 700 per l’anno 1949 e 1750 per il 1948.
   Mio padre, per aver sofferto lo scotto da prigioniero in Germania per la disfatta di Caporetto, per aver navigato nel deserto in tre anni di campagna d’Africa a caccia di dissenterie e malaria, per aver giocato, dopo aver fiutato aria di deportazione nei campi di concentramento, al gatto col topo con i tedeschi e per aver servito la Benemerita per trent’anni, il massimo allora, percepiva la pensione di 16.000 lire. Non si era mai lamentato. Erano purtroppo gli anni del dopoguerra.
   Agli orari convenuti dagli organizzatori, solitamente di pomeriggio, i partecipanti all’arrampicata si presentavano sempre numerosi. Alcuni si cimentavano nella sfida creando alla base una piramide umana. Il palo, ingrassato a dovere, sembrava respingere tutti gli attacchi.
   Fu la volta di un ragazzo di Arasulè, il rione a monte dell’abitato, il quale si presentò all’appuntamento con l’abito migliore, un vestito di panno verde, camicia bianca, scarponi di gomma e copricapo con le bande laterali calate sulle orecchie. Allora la scelta per la divisa di ogni ragazzo ricadeva sul panno, sul velluto o sul fustagno. Erano pochi coloro che indossavano gli indumenti di stoffa. Le donne vestivano il costume già da età adolescenziale. Facevano eccezione quante frequentavano le scuole dell’obbligo.
   Quel giovane del rione superiore, dopo aver guadagnato qualche metro verso l’alto, sembrò desistere dall’impresa dopo i primi tentativi. Forse aveva tenuto conto dei consigli della sorella che, ricordandogli le spese sostenute per la confezione dell’abito, lo aveva invitato a rinunciare all’inutile sfida. In ogni modo, dopo essersi riposato per una decina di minuti, incurante degli avvertimenti ed esortazioni della congiunta, salì spedito sino alla bandierina e quando ridiscese ricevette molti applausi, compresi quelli del familiare il quale rassicurava il fratello di non preoccuparsi minimamente di aver ridotto il vestito in cattivo stato in quanto un buon lavaggio avrebbe rimesso tutto a posto. Forse era stata la morbidezza del panno vellutato a garantire il successo dell’operazione. Il ricorso ad un abito usato non avrebbe sicuramente dato i risultati sperati.
   In giro tra i muristenes, sia tra quelli ubicati in prossimità dell’ingresso e sia tra quelli improvvisati dai rivenditori di bevande c’erano sempre tanti avventori. Ma la gente comune si riversava disordinatamente e scompostamente un po’ dappertutto e non mancava mai, specie di notte, di assistere allo spettacolo offerto da is cantadores. Erano questi ultimi degli estemporanei di lingua sarda che, su temi proposti dagli organizzatori, deliziavano gli ascoltatori con composizioni rimate. Ad onor del vero non ho mai avuto alcun interesse per questo genere di canto.
   Quando le coppie di ballo sardo si esibivano con le loro evoluzioni nei pressi del palco degli organizzatori, i colori bianchi, rossi, neri e verdi dei vestiti delle donne e quelli più severi evidenziati dal velluto e dal fustagno dei loro cavalieri dominavano la scena e focalizzavano l’attenzione di grandi e piccoli.
   Devo ammettere purtroppo che le sfumature cromatiche dei costumi femminili proposte dalle processioni religiose, non trasmettevano più al mio animo le emozioni e lo stupore provati le prime volte. Quell’effetto magico che sorprende e soggioga i turisti che s’imbattono con le novità espresse da dette cartoline animate di fattura barbaricina per me non suscitava più alcuna meraviglia.Sfilata di costumi tonaresi a Cagliari  nel 1955Non so quale impressione provarono i giocatori del Cagliari nel 1950 quando si presentarono nel rettangolo di gioco per disputare una partita di calcio contro la formazione del Tonara, una squadra quest’ultima alle primissime armi. In definitiva si trattò di un allenamento tra prime e seconde linee della compagine ospite. I nostri erano rappresentati dal portiere Antonio Sau, da Gabriele Zucca e da Mario Perdisci, un calciatore della Tharros. Il grande evento sportivo era stato favorito dall’interessamento di Manfredi Gessa, un industriale della lavorazione del legname che, per l’occasione, aveva voluto inaugurare le cucine della sua casa padronale. Almeno questo era stato il pretesto.Anteprima dell'incontro di calcioL’estremo difensore Sau, che apparteneva ad una famiglia tonarese trapiantata a Cagliari da tanto tempo, mi riferisce oggi dello stupore provato, tra un misto di meraviglia e sorpresa, al suo ingresso in campo. I suoi racconti, che lasciano molto spazio ai risvolti di carattere sportivo di quella manifestazione, fanno riferimento in particolare alla cornice offerta dal pubblico. La recinzione del campo di gioco era rappresentata dalle donne e dai loro costumi assortiti di tanti colori. Dietro di loro, in segno di rispetto e di cavalleria, gli uomini con scarpe gommate o chiodate per calzari, pantaloni senza risvolto e giacche con martingala per vestiario e berretti a falde tese per copricapo. Il bianco crema offerto dalla tela delle camicie dei maschi, tutte orfane del risvolto del colletto, si abbinava felicemente con il colore dei bottoncini madreperlacei, le cosiddette matripellas. Oggi viene preferita la plastica. Passa una bella differenza! Nelle donne invece gli ampi sbuffi di tela candida della camicia si concedevano elegantemente ai movimenti delle mani e delle braccia. La ricchezza di tale indumento era rappresentata non dalla filigrana, poco presente nel costume tonarese, ma dalle lavorazioni a uncinetto e dal cucito delle orlature attorno al collo ed ai polsini. Pizzo, ricamo e plissettatura valorizzavano il tutto. I colori espressi dal corpetto, dalla gonna, dal ventaglio e dal fazzoletto facevano il resto.
   Saranno stati duemila i figuranti assiepati lungo il perimetro del rettangolo di gioco. Voler riproporre oggi una kermesse di tale portata sarebbe quasi impossibile. Eppure allora, senza tanti preparativi, l’insolita rassegna, si concretizzava in poco tempo. La magia, l’incantesimo e lo spettacolo erano sempre garantiti. Come ai tempi della processione raccontata nel 1921 dal Lawrence.
   La chiesa era sempre al completo. Da giovane, pur avendo avuto mille opportunità per una capatina all’interno, non ci entravo mai. Oggi che sono anziano, il fattore distanza non mi impedisce tuttavia di fare qualche visita veloce o di assistere talvolta alla messa vespertina del sabato.
   I festeggiamenti civili e religiosi fanno affidamento su queste date
a)      13 giugno
b)      20 giugno, l’ottavo giorno dei festeggiamenti. In tale occasione i commercianti tonaresi hanno modo di ritrovarsi e di suggellare il patto di continuità con le future edizioni.
c)      1913, prima edizione dell’Ottava. Quest’anno dovrebbe festeggiarsi il centenario. Con un buon battage pubblicitario gli organizzatori potrebbero fare grandi cose e richiamare su questo paesetto alpestre numeri da favola, come succede per la festa del torrone.
d)      1746, anno di fondazione del luogo di culto.
   Non bisogna dimenticare il 1614, anno che testimonia della prima apparizione del torrone in Sardegna. E’ questo il tipico dolce che, col supporto principale degli operatori tonaresi, movimenta le sagre di tutto il panorama isolano.
   Tornando al passato ricordo sempre quelle prime edizioni dei festeggiamenti a base di circhi equestri, di giostre, di alberi della cuccagna, di processioni, di zucchero filato, di prove di forza, di abilità e di tanta spensieratezza.
   Poi a Tonara arrivarono, i biliardini, i biliardi, i juke box, i motori, i trattori ed i nuovi modi di vestire che, in un gioco d’insieme ben cadenzato nel tempo, mandarono a gambe levate carrette, carri agricoli, ruote idrauliche, antichi mestieri e secoli e secoli di storia e di folclore. I mas media fecero il resto. Ma questo è l’effetto della globalità che regola tutti in un gran calderone dove nessuno è primo e nessuno è ultimo.
   Per me è arrivata anche una terza età, un traguardo che mi permette di ripescare dalla mia memoria queste semplici testimonianze di vita vissuta.


Segni di devozione per sant’Antonio e la sua chiesa

   La devozione per il santo di Padova é documentata nei secoli passati nelle note testamentarie richiamate dai certificati di morte di molti nostri antenati.
   Estevan Machis, rappresentato dal notaio Pietro Arca, dà disposizione per la celebrazione di tre messe piane da effettuare in onore del grande taumaturgo nel giorno della sua morte, avvenuta il 19 maggio del 1676.
   Antonio Ortu Loddo, assistito dal notaio Tomaso Pipia di Sorgono, dispone che la metà del ricavato della vendita di un giogo di buoi sia destinata all’acquisto di un paramento per la statua del santo. Il decesso del testatore reca la data del 20 dicembre 1676.
   La chiesa del santo é citata per la prima volta nell’atto di morte di Giovanni Pala, avvenuta in data 13 marzo 1746. Fra le varie disposizioni, curate dal notaio Anselmo Flores, figura un lascito di due pecore en benefiçio de la Iglesia.
   I natali del nuovo luogo di culto sono ulteriormente definiti dal notaio Pietro Antioco Mura nel testamento facente capo al sacerdote Antonio Sedda Martini, deceduto in data 1 giugno 1746 e sepolto nella parrocchia di san Gabriele. In esso il testatore dispone che:
a)      con il lascito di cinquanta scudi si provveda alla costruzione di una cappella da titolare alla vergine del Rosario nella nuova chiesa di sant’Antonio.
b)      con i frutti della pensione di 150 scudi siano celebrate per due volte ogni settimana, nei giorni di lunedì e di mercoledì, delle messe votive nella chiesa citata.
   Già dall’anno precedente Maria Grazia Musiu, deceduta il 5 maggio del 1745, aveva programmato la spesa di uno scudo per l’acquisto della campana quando se hiziere (quando si costruirà) in onore del glorioso San Antonio de Padua.
   Una messa votiva per il santo é segnalata in data 21 marzo del 1747 nel certificato di morte di Sebastiano Cocco. A rappresentare le sue ultime volontà é il notaio Battista Manca Deiana.
   Da alcune clausole testamentarie del sacerdote Pietro Antonio Deiana, redatte dal notaio Anselmo Floris e richiamate nell’atto di morte dell’otto gennaio 1748, risultano vari lasciti fra i quali, degni di essere menzionati, uno di cinquanta scudi a favore della parrocchia ed un altro di un solo scudo a beneficio della chiesa del santo.
   Di singole messe per il santo patavino si fa cenno nei testamenti di Paula Flore, assistita dal notaio Pedro Francisco Flores, di Bachisio Sucu, e Giuseppe Tore, quest’ultimo rappresentato dal notaio Manuel Demurtas, deceduti rispettivamente il 19 novembre del 1757, il 26 gennaio 1770 ed il 27 novembre del 1775.
   Dieci scudi in beneficio della chiesa vengono devoluti dal giovane diciassettenne don Giovanni Melis, di origini fonnesi, deceduto il 16 agosto 1776.
   Per la morte di Maria Grazia Dearca, rappresentata dal notaio Pedro Manuel Dearca, sono da segnalare, oltre ad una messa per il santo, la generosa donazione di otto quintali (si tratta di quintali da quaranta chili; il sistema metrico decimale non é ancora in vigore) di carne bovina (bubula) e quattro starelli di grano da distribuire ai poveri nel giorno della sua morte, avvenuta il 13 dicembre 1780.
   Juanna Mathias Coco, nubile ventenne, deceduta il 20 maggio del 1781, fra le varie messe indicate nel testamento, ne dedica una a sant’Antonio ed un’altra a s’Antonio Abbad, mentre, per l’anniversario della sua morte, dispone, con l’assistenza del notaio Manuel Dearca, che ai poveri dell’abitato vengano distribuiti dodici quintali di carne bubula e tre starelli di grano.
   Le ultime volontà di Antonio Ignazio Cabras, deceduto il 25 dicembre del 1785, dispongono che l’usufruttuario del piccolo chiuso di Murasé, si faccia carico di far celebrare ogni anno, per il primo lunedì del mese di giugno, una messa parata con diciotto lumas nella chiesa di sant’Antonio. A raccogliere le sue ultime volontà é il notaio Francesco Giuseppe Mereu.
   Nel testamento di Pietro Simone Murru, deceduto il 15 gennaio del 1792, rientra, fra le tante da celebrare, anche una messa in onore di sant’Antonio. Meritevole di essere segnalata la donazione ai poveri del paese di dies, y ocho quintales de carne bubula, y sinco estareles de trigo hecho a pan.
   In data primo aprile dell’anno 1792, en la Iglesia del Glorioso San Antonio de Padua, si celebra il matrimonio del notaio Antonio Maria Tore con Antioca Demurtas.
   Per la morte del notaio Giuseppe Mereu, avvenuta il 30 gennaio del 1793, le ultime volontà, raccolte da tre sacerdoti, fra i quali il rettore Porru, dispongono di un lascito particolare di tre scudi da impiegare en la fabrica dela iglesia de S(a)n Antonio de Padua. Forse si trattò di opere di rifinitura o di ristrutturazione.
   Singole messe piane sono dedicate al santo dalla vedova Maria Rosa Mura, rogito notarile Pedro Admirable Corriga, da Sebastiana Cedde, rogito di Manuel Demurtas e da Pedro Orrù, rogito del notaio Raimondo Tore. I decessi riportano nell’ordine le date del 15 maggio 1794, del 16 agosto 1796 e del 6 luglio 1802.
   Ancora messe votive semplici in onore del santo vengono segnalate nei testamenti redatti da Pedro Cedde, Luigi Tanda, Raimondo Tore e Manuel Demurtas per conto dei rispettivi assistiti Diego Dearca, deceduto il 28 gennaio del 1810, Maria Cedde (14 febbraio 1813), Domenico Orrù (22 ottobre 1813) e Basilio Albis Figus (5 marzo 1816). Nel secondo punto del codicillo allegato al testamento di Diego Dearca si evidenzia un lascito di cinque scudi en beneficio de la Iglesia de San Antonio de Padua mentre in una clausola testamentaria riguardante Basilio Albis si dispone, a favore della chiesa, la cessione del terreno sito in regione denominata Minda de Mela.
   Particolare significato assume il certificato di morte della Signora Vincenza Dearca, vedova dello scrivano Antonio Efisio Cabras, deceduta il 3 ottobre 1816 e sepolta nella chiesa di sant’Antonio. La partecipazione alle esequie fu onorata dalla presenza di sei sacerdoti (due terni), della croce parrocchiale e della confraternita di santa Croce (por ser Cofradessa). Non fece testamento.
   Francesca Pala, maritata Patta, vedova di 70 anni del rione di Arasulé, contrada denominata s’Arcu (l’attuale Istraccu), dispone che, all’atto della sua morte, avvenuta il 27 ottobre 1818, sia ceduto alla chiesa più volte citata un piccolo appezzamento sito in regione sa Tzia Clara (pressi dell’attuale ostello della Gioventù). E’ depositario delle sue ultime volontà il notaio Giuseppe Porru.
   Per la morte di Bartolomeo Cuccuru, avvenuta il 17 novembre 1818, rogito notarile Manuel Demurtas, é segnalato a favore della chiesa del Glorioso Santo il lascito di un terreno sito in Bizzialù. Pur non essendo un confratello ebbe comunque l’onore dell’accompagnamento di due terni, della confraternita di santa Croce e della croce parrocchiale.
   Cosimo Carneri, assistito dal notaio Raimondo Tore, un cugino di Monsignor Tore, dispone che con parte del ricavato della vendita del suo gregge, si celebri una messa semplice in onore del santo. Il certificato di morte riporta la data dell’11 dicembre del 1822.
   Dalla relazione di Michele Zucca, vice rettore della parrocchia tonarese nell’anno 1825, intorno allo stato dei cimiteri e delle chiese nel terzo decennio dell’Ottocento, abbiamo un quadro preciso e dettagliato dei vari luoghi di culto. La chiesa é foranea, ma contigua al Rione (Arasulè), ed é propriamente detta di Sant. Ant(oni)o situata in una pianura non meno distante dall’estremità di detto Rione venti minuti: questa chiesa non viene frequentata dagli abitanti di Tonara in altro tempo, solamente dal primo giorno del mese di Giugno fin al tredici di detto mese nei quali giorni concorrono gli abitanti per farvi il novenario ed il giorno tredici si celebra la festa in onore del Santo e vi concorrono anche molti forestieri; questa chiesa ha annesso un cortile malamente fabbricato di non mediocre estenzione, contiguo al cortile possiede un terreno aperto di qualche estenzione.
   Simone Zucca, (Zuca nel certificato di morte dell’11 dicembre del 1827), dispone nel rogito notarile del notaio Demurtas, che al Glorioso San Ant(oni)o de Padua, o sea Iglesia de esta Villa siano offerti dies obejas de mardiedu, o dies escudos en denero secondo il libero arbitrio della curatrice Giovanna Zucca, sua sorella.
   Della cessione di un credito di cinque scudi, vantato nei confronti degli eredi del fu Giuseppe Zucca, si fa portavoce, con l’assistenza del rappresentante legale Emanuele Demurtas di Arasulé, la signora Giuseppa Dearca, moglie del notaio Gabriele Garau di Toneri. Nel certificato di morte della testatrice é segnata la data del 18 agosto 1829.
   Una messa piana in onore del santo é segnalata, in data 22 settembre 1832, nell’atto di morte di Paola Tocori, una vedova di 80 anni del rione di Ilalà e quivi sepolta all’interno della chiesa di san Sebastiano. La stesura del testamento venne affidata al notaio Salvatore Tore, un figlio d’arte del noto Antonio Maria.
   Nell’articolo numero 10 del testamento redatto dal notaio Giambattista Porru di Tiana in nome e per conto di Mauro Dessì Cabras, deceduto il sei di gennaio del 1836, viene messo a disposizione della chiesa del santo un piccolo terreno agricolo sito nella regione denominata Tonnai.
   In data 22 giugno del 1836 la piccola chiesa di sant’Antonio accoglie le spoglie mortali del notaio Antonio Maria Tore.
   Le ultime volontà di Monserrata Mura Pinna del rione di Ilalà, deceduta all’età di 95 anni il 14 aprile del 1845 e seppellita nel cimitero rurale di san Sebastiano, dispongono due messe piane in onore di sant’Antonio, due di san Sebastiano, due alle anime del purgatorio e due dell’angelo custode. Così dalle note testamentarie redatte dal notaio Michele Zucca del rione di Toneri.
   L’abate Vittorio Angius, non manca di segnalare, nel resoconto della sua visita effettuata a Tonara nell’anno 1846, che la chiesa di sant’Antonio fa parte di uno dei due luoghi di culto del rione di Arasulè. Tanto ai festeggiamenti religiosi quanto a quelli civili, che ricorrono il 13 giugno ed il 14 giugno, vi concorre gran quantità di gente dai paesi vicini e la piazza della chiesa prende l’aspetto d’un mercato. Dopo i vespri della festa si corre il palio, ma bisogna dire che i premi sno meschini consistendo essi in alcune decine di palmi di velluto nero o azzurro.
   L’aspetto fieristico sul sagrato della chiesa é rimarcato anche nelle deliberazioni consiliari del comune di Tonara del 1894, anno in cui si delibera di assoggettare i venditori ambulanti al pagamento del dazio.
   A partire dal 1925, secondo la testimonianza rilasciata in una intervista degli anni sessanta da Giovanni Antioco Carta, la fiera mercato cade in disuso. Buona l’affluenza di rivenditori forestieri. Oggetto di contrattazione gli articoli in rame, ferro, ferro smalto, latta, pelle e cuoio. Si potevano contare nel piazzale antistante la chiesa sino a cinque o sei carretti di carne e frutta fresca.
   Ai festeggiamenti religiosi di gennaio in onore al santo dedica abbondante spazio in Mare e Sardegna lo scrittore David Herbert Lawrence. E’ l’anno 1921. Dalla traduzione dall’inglese di Luciano Marrocu apprendiamo che le donne sono inginocchiate sul nudo pavimento di pietra della piccola chiesa grigia abbandonata sull’orlo della vetta dell’altopiano. In un altro passaggio si parla della bellissima processione in costume. Gli aggettivi sono distribuiti con molta eleganza descrittiva nel resoconto della celebre penna d’oltre Manica. Di solito, precisa l’autore, il livello della vita é ritenuto essere al livello del mare. Ma qui, nel cuore della Sardegna il livello della vita é alto sull’altopiano illuminato d’oro, e il livello del mare é da qualche parte, lontano, giù, nel buio, non ha importanza. Il livello della vita é in alto, alto e addolcito dal sole e tra le rocce.
   Oggi, soprattutto in occasione dei grandi appuntamenti isolani di Pasquetta e di Autunno in Barbagia, con le mostre del torrone e dei campanacci, le centinaia di espositori commerciali disseminate sino al limite nel nuovo rione sull’altopiano sembrano concedere poca libertà di movimento ai fedeli lungo i camminamenti in direzione della chiesa. All’interno di essa c’è sempre e comunque tanto spazio a disposizione per i veri credenti.

CASULA STEMMA E BLASONE- DOSSIER ARALDICO

FONTE Antica ed assai nobile famiglia sarda, di chiara ed avita virtù, propagatasi, nel corso dei secoli, in diverse regioni d'Italia...