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A Tonara i festeggiamenti civili e religiosi in onore di
sant’Antonio durano otto giorni, dal 13 al 20 giugno. L’organizzazione è
affidata a due comitati dei quali il primo si occupa delle
manifestazioni relative alla prima settimana mentre il secondo di quelle
inerenti all’ottavo giorno, chiamato appunto l’Ottava, Sa die de s’ottada.
Di quest’ultima festività, riservata unicamente ai produttori e
rivenditori di torrone, ricorre quest’anno il centenario. Grande
interesse viene riservato dagli organizzatori per detta ricorrenza.
I giorni interessati a detti eventi rappresentano, specie per i
più piccoli, una parentesi di colore delegata all’insegna del
divertimento e del lieto vivere. I rigori invernali che hanno
accompagnato l’intero anno scolastico non possono che arrendersi
incondizionatamente alla ventata primaverile proposta dalla seconda
decade di giugno. Un toccasana dai mille risvolti positivi. E il mondo
dell’effimero non tradisce mai le attese di quanti si rifugiano con
impazienza nel variegato percorso delle vacanze dietro l’uscio.
Già prima di giungere in Sardegna avevo ricevuto dai miei genitori, sardus pater et sarda mater,
tutte le istruzioni del caso sui temi della sagra di sant’Antonio ed in
particolare sui colori delle bandierine, sulle animazioni dei
personaggi del circo, sulle bancarelle dei dolciumi, sulle processioni
religiose in costume e sulle emozioni della folla alle corse dei
cavalli.
Questo succedeva nel 1945. Gli americani, col loro ingresso nella
città eterna, avevano preso posizione con i loro mezzi blindati in tutte
le piazze. In via Satrico, nel giorno della
liberazione, di fronte a casa mia, si era fermata una guarnigione di
carristi che, dopo essersi concessi al plauso degli abitanti del
quartiere, avevano iniziato una interessante distribuzione di zucchero
nero e formaggio giallo. Io e mio fratello, proseguimmo poi in Piazza Epiro
ad inseguire con molta tranquillità i nostri giochi preferiti. Si
trattava di piazzare sulle rotaie dei tram i tappi inservibili delle
bottiglie del latte. Dopo il passaggio dei mezzi rotanti recuperavamo il
prodotto finito, vale a dire le lattine, per giocare nel vicinato.
Impossibile uscire di casa quando i tedeschi scorrazzavano nella borgata
con i loro sidecar. Ma questa è tutta un’altra storia che sa di bombardamenti, rappresaglie, corse ai rifugi, carenze di cibo e tanta paura.
Mio padre, durante le continue retate effettuate dai tedeschi a
danno degli appartenenti all’Arma dei carabinieri, era riuscito a far
salva la pelle. Nel suo appartamento di via Satrico aveva
creato lo spazio necessario per la sua sopravvivenza. Per farti un’idea
dello stratagemma usato immagina in successione, all’interno di una
camera, una credenza, un tramezzo provvisto di una piccola apertura, una
piccola striscia superficiaria ed il muro divisorio con gli altri
alloggi. Un colpo di tosse o un’indagine più accurata avrebbero
compromesso il tutto. Si è scritto poco sulla deportazione dei
carabinieri avvenuta il 17 ottobre del 43. Di queste cose seppi da
grande, ma non da mio padre, molto riservato, né da mia madre, deceduta
di crepacuore qualche anno dopo. Da grande ho visitato l’azienda di
spazzole per calzature gestita da operatori ebrei a Berlino. Ho anche
inquadrato il mobile che mascherava l’abitacolo segreto in fondo alla
costruzione. Ho fatto un ripensamento alla dimora romana. Mi sono
rivisto nella innocenza del bambino del film di Benigni.
Era bella l’abitazione di via Satrico, molto solare. In quell’anno avevo frequentato la prima elementare presso le scuole del Preziosissimo Sangue.
Poi a ottobre, con alle spalle una città martoriata dalle sofferenze e
dai danni causati dalla guerra, un estenuante viaggio via terra e via
mare, depositò me ed i miei familiari sulla banchina del porto di
Cagliari come dei sacchi a perdere, comprese le masserizie che mio padre
aveva cercato di portare in Sardegna. Vedere il capoluogo isolano dalla
darsena non mi fece una buona impressione. I bombardamenti avevano reso
un bel servizio alla città. Questa volta erano stati gli americani. Il
trenino delle complementari, che oggi chiamano verde, ci condusse sino
alla stazione di Tonara e di qui procedemmo per il paese con la carretta
di uno zio paterno, un torronaio per l’esattezza, e con il carro a buoi a sponde allungate di uno zio materno.
Dalla vendita dell’appartamento i miei genitori erano riusciti a
realizzare una cospicua somma che, a causa della svalutazione
galoppante, era servita a mala pena a pagare una trasferta di viaggio
durata, con treni che non si formavano e con navi che non salpavano, più
di dieci giorni. Era il periodo delle lire americane, le cosiddette AM
lire.
Andammo ad abitare in Pratza manna nella casa dei nonni
materni. Si trattò di una sistemazione provvisoria che si protrasse per
più di un anno. Frequentai la seconda elementare ad Istraccu, contrada del rione di Arasulè, ma, con l’avvicinarsi della chiusura delle scuole, già cominciavo a pregustare il sapore del mondo dei divertimenti per sant’Antonio.
Volle il caso che, proprio nella settimana precedente i festeggiamenti,
caddi malato. Una strana foruncolosi, mi impedì di uscire di casa, anzi
dalla mia stanza. Mia madre, che aveva capito la mia situazione,
cercava di confortarmi dicendomi che almeno per l’Ottava mi sarei ristabilito. I brufoli, semos
in vernacolo, nel momento in cui sembravano cicatrizzarsi si
rigeneravano con maggiore ostinazione. La testa si appesantiva sempre di
più ed ogni movimento mi creava notevoli disagi. Non so quante volte ho
sfogliato i vecchi numeri della Domenica del Corriere, il periodico dei pensionati. Avevo letto senza capirci gran che della Stanza di Montanelli.
Avevo anche cercato di dare risposta alle domande dei cruciverba delle
ultime pagine del settimanale ma le caselle delle righe e delle colonne
rimanevano sempre in bianco. Al medico Dottor Giovanni Sulis, alias Nanneddu meu, non feci mai ricorso. L’unica medicina che risolse il problema venne offerta dal tempo. E il tempo si lasciò dietro anche l’Ottava e i miei sogni.
La prima volta da spettatore ai festeggiamenti per sant’Antonio fu nel 1947. A quei tempi il quotidiano dell’Unione Sarda
costava 25 lire ed il numero degli abbonati era così ridotto da
contarsi sulle dita di una mano. La lettura era riservata a pochi eletti
e spesso succedeva che chi sapeva leggere non sempre capiva il vero
significato del contenuto. Talvolta il giornale veniva letto di
proposito a voce alta per favorire fra i presenti oltre che l’audizione
anche l’apprendimento e la successiva discussione.
Per accedere al sagrato, gli abitanti dei rioni ubicati in fondo
al paese potevano inseguire diversi percorsi che, in prossimità della
strada provinciale, permettevano di raggiungere di spalle la chiesa
attraverso sentieri vagamente tracciati sulla roccia dell’ultimo
dislivello.
Allo stesso modo si comportò anche il Lawrence, quando,
in una fredda mattina di gennaio del 1921, dovette rimontare in salita
assieme alla moglie (l’ape regina) i diversi metri che lo separavano
dalla porta laterale del tempio. Riferisce lo scrittore in Mare e Sardegna che entrambi si arrampicarono sul breve tratto roccioso we climbed back up the little rock-track sino ad arrivare all’ingresso laterale dove trovarono la chiesa gremita di fedeli when we came to the side-door we found the Church quite full. La traduzione del primo passaggio inglese potrebbe rappresentarsi con la seguente espressione dialettale tonarese Noso seus arzaos a orrugadura in su tremeneddu mentre per la seconda parte potrebbe valere il seguente andante Canno chi noso seus arribaos a s’intrada de fiancu aus agatau sa cresia giai prena.
Nella descrizione dello scrittore d’Oltre Manica intorno alla
processione in costume dei parrocchiani tonaresi la prosa diventa poesia
e la poesia come tale, dopo una forte implosione di effetti magici, si
libera verso l’alto, sempre più in alto, lasciando il lettore sgomento,
senza parole, incredulo, quasi incapace di inseguire i virtuosismi
dell’impareggiabile artista. E’ una tela d’autore nella quale le tinte
impiegate fanno fede di una visione attenta e reale dei vari passaggi
nei quali i personaggi ripresi sono gli inconsapevoli protagonisti di
una scena da consegnare all’immortalità. Ogni volta che faccio una
rilettura della sua esposizione trovo sempre qualcosa di nuovo come se
il Lawrence continuasse a lavorare da dietro le quinte sullo
spartito della sua musica. E sono passati ormai più di novanta anni
dalla sua visita. Non so in quante lingue siano stati tradotti i suoi
messaggi. Nessuno che abbia mai tentato di fare una traduzione in
dialetto tonarese della sua narrazione.
Antonio Corriga, il pittore isolano recentemente
scomparso, simulando le attenzioni del britannico, riesce a trasferire
efficacemente sulla tela alcuni passaggi della celebre descrizione. Non
so chi sia il possessore del quadro. Mi auguro appartenga ad un
tonarese. Io propongo all’attenzione del lettore solamente una
fotografia del dipinto che l’autore mi aveva donato alcuni decenni
addietro. Sul retro leggo una data: dicembre 1984.
I residenti del rione superiore, invece, non avevano da faticare
per accedere al luogo di culto. Dopo la discesa dai loro casolari si
trovavano in breve tempo in dirittura d’arrivo.
Oggi la struttura ecclesiastica è protetta di spalle e di fianco
da un’accurata recinzione mentre la parte esposta a nord difetta del
cancello.
La piccola chiesa sta al termine di un altopiano che funge da diaframma con le frazioni alte e quelle basse dell’abitato. Su pranu,
il pianoro su cui è ubicato l’edificio, accoglie, da una cinquantina
d’anni a questa parte, una nuova frazione che attualmente è diventata la
più numerosa.
Il tempio, che oggi per disposizioni parrocchiali funge quasi da
pieve, sorge sul colle da pochi secoli. E’ citato per la prima volta
nell’atto di morte di Giovanni Pala, decesso avvenuto in data 13 marzo
1746. Fra le varie disposizioni del testatore, curate dal notaio Anselmo
Floris, figura un lascito di due pecore en beneficio de la Iglesia. Per ulteriori approfondimenti si rimanda a Segni di devozione per Sant’Antonio e la sua chiesa, paragrafo citato a pagina 182 e seguenti del secondo volume di Memorie tonaresi dal titolo I testamenti più significativi del passato (1668-1847).e presentato nella seconda parte di questo servizio.
Dalla lettera datata 1 gennaio 1825 ed indirizzata ad Antonio Tore, vicario generale capitolare ad Oristano
negli anni che corrono dal 1821 al 1827, vertente sui quesiti posti
dalla circolare del 20 novembre del 1824 intorno al divieto di
seppellimento dei cadaveri all’interno delle chiese, apprendiamo quanto
segue:
Il Villaggio di Tonara si compone di quattro Rioni, il più
popolato e grande è quello, che si dice Arasulè. Contiguo a questo Rione
esistono due chiese,
la prima è situata nell’estremità disopra al detto Rione,
quale è giornalmente abitata, e dove si adora il santis(simo)
Sag(ramento) e si celebra il divino sagrifizio, ed è propriamente detto
l’oratorio di S(an)ta Croce: questa chiesa è circondata da un cortile di
poca estenzione, il muro non è ato a difendere di entrare nel medesimo
quegli animali quadrupedi, che sono di più agilità, e nocivi.
La seconda chiesa è foranea, ma contigua al Rione, ed è
propriamente detta di Sant’Ant(oni)o situata in una pianura non meno
distante dall’estremità di detto Rione venti minuti: questa chiesa non
viene frequentata dagli abitanti di Tonara in altro tempo, solamente dal
primo giorno del mese di Giugno, fino al tredici di detto mese nei
quali giorni concorrono gli abitanti per farvi il novenario, ed il
giorno tredici si celebra la festa in onore del santo e vi concorrono
anche molti forestieri, questa chiesa ha annesso un cortile malamente
fabbricato di non mediocre estenzione, contiguo al cortile possiede un
terreno agrario aperto di qualche estenzione
Il mittente della missiva è il vice rettore parrocchiale tonarese Michele Zucca. Vedi atti sciolti del carteggio relativo alla figura del Tore nell’archivio storico diocesano di Oristano.
Riferisce Vittorio Angius, a proposito dei festeggiamenti in onore del santo, alla voce Tonara del Dizionario del Casalis, durante la visita effettuata nel 1846, che questi duravano 2 giorni ed il piazzale assumeva l’aspetto
di un mercato. Dopo i vespri della festa si corre il palio; ma bisogna
dire che i premi sono meschini, consistendo essi in alcune decine di
palmi di velluto nero o azzurro.
Le corse equestri hanno spesso richiamato l’attenzione e
l’interesse dei comitati organizzatori. Negli anni cinquanta i cavalli
venivano impegnati sul tratto di strada che dal bivio per Toneri
porta verso il sagrato della chiesa di Sant’Antonio. Precedentemente,
intorno agli anni trenta e quaranta, si era corso, secondo la
testimonianza di Gesuino Peddes, su tracciati più impegnativi che, a partire da Otassà, località sulla provinciale Tonara-Belvì,
andavano ad interessare una percorrenza di circa quattro chilometri. La
partecipazione dei concorrenti, forte della presenza di cavalieri di
diversi paesi, era nutrita.
Ed una volta all’anno nei secoli passati c’era spazio, nel piccolo agglomerato urbano di Ilalà, rione adagiato sul fondovalle ma disabitato dal 1930, per onorare con un concorso ippico la memoria del glorioso martire San Sebastiano. Fra le varie disposizioni segnalate nel testamento di Tomaso Poddie,
deceduto il 16 giugno 1673, risulta un lascito di sei reali per
acquistare tanto panno da utilizzare per i cavalli che correranno il
giorno della festa del santo (seis reales para mercar tanto cadis el dia de San Sebastian q(ue) sirva para los cavallos (sic) q(ue) correran en d(ic)ha fiesta). Preciso che con uno scudo, corrispondente in quei tempi al valore di dieci reali, si poteva acquistare una pecora da latte.
Il quartiere di Sant’Antonio si animava soprattutto per la ricorrenza dei festeggiamenti.
L’area che accoglieva il tempio, il sagrato, il salone dell’Azione cattolica, i vecchi muristenes
a schiera accorpati in linea con la recinzione esterna, casupole
d’accoglienza prive di apertura, e le ridotte pertinenze libere della
zona retrostante alla chiesetta non superava il mezzo ettaro. In seguito
lo spazio, con la costruzione dei locali per la scuola media e
dell’istituto tecnico industriale, si è ulteriormente ridotto. L’insieme
può essere rappresentato da un semicerchio sul cui diametro scorre
principalmente il traffico pedonale mentre su buona parte della
semicirconferenza fluisce il transito automobilistico.
La chiesetta è provvista di tre ingressi dei quali uno rappresenta
l’entrata principale mentre gli altri due sono degli usci secondari.
Questi ultimi, nel rispetto della direzione nord-sud sono disposti
rispettivamente alla sinistra dell’unica navata ed in fondo alla destra
dell’abside. La capienza massima non sarà superiore alle cento unità. E
tante potevano essere le figure umane rappresentate nella processione
del Lawrence nel 1921. Aggiungi anche il numero di coloro che
non trovarono posto all’interno e puoi farti un’idea dello scenario a
tinte prevalenti di rosso, di bianco e di nero che si era presentato
allo scrittore inglese. Prova a cadenzare un gruppo di centocinquanta
persone su un percorso curvilineo e non sempre pianeggiante e ti
accorgerai dell’effetto a sorpresa.
Come accade solitamente in tali occasioni i personaggi appaiono alti, anzi altissimi. Questo mi succede ad Oristano, quando, in occasione della Sartiglia,
assisto al corteo delle dame e dei cavalieri. Forse ciò dipende dallo
spesso strato di sabbia disteso sul percorso o anche dai lunghi
pennacchi di foggia spagnola evidenziati dal copricapo dei figuranti. E’
un senso delle proporzioni che non sono mai riuscito a spiegarmi. La
stessa cosa si verifica stando a teatro o in chiesa. Commedianti e
celebranti, forse in virtù del loro portamento e del loro peso
mediatico, sembrano giganteggiare.
All’epoca dei festeggiamenti del passato, a partire dall’ingresso,
il visitatore, procedendo in senso sinistrorso attorno alla chiesetta,
incontrava le prime bancarelle di dolciumi, quindi due o tre postazioni
di tiro a segno, l’albero della cuccagna, il cannoncino da sospingere su
un breve tracciato in forte pendenza, il circo, la giostra ed il palco
degli improvvisatori del canto sardo (i cosiddetti cantadores). Prima di raggiungere nuovamente il punto di partenza, uno stretto corridoio all’aperto immetteva verso i muristenes
dove solitamente erano accampati i venditori di torrone. C’era comunque
spazio anche per i negozianti di vino e di bibite fresche. Nella zona
antistante stazionavano i rivenditori di articoli per la casa e per la
campagna. Non mancava il settore riservato ai giocattoli. In postazioni
particolari del sagrato ritrovavi prestigiatori ed imbonitori vari che
si proponevano all’attenzione dei curiosi con i giochi delle tre carte e
dei cinque dischi. Il primo richiedeva doti di tempismo, il secondo di
abilità.
Ad orari stabiliti c’era spazio solo per la processione. Facendosi
largo tra i passanti, sbucava all’improvviso sul sagrato per andare a
guadagnare i percorsi più impensati del vicinato per poi ricomparire a
passo lento in prossimità dell’ingresso principale. Non c’era in questi
passaggi alcun effetto a sorpresa in quanto la lunga sfilata al seguito
del santo era efficacemente preceduta e pubblicizzata dagli spari a
ritmo incessante dei mortaretti (is coettes). Non so se i giovani d’oggi utilizzino ancora questo termine catalano che in campidanese sta per cuettus oppure se preferiscano italianizzare il lemma con dei neologismi di copertura o di comodo.
La processione degli anni cinquanta era definita da un preciso
intorno che andava a comprendere le donne in costume, i chierichetti, il
santo, il celebrante, i confratelli del terzo ordine, incappucciati di
tutto punto con le loro divise bianconere, le priorisse, ossia
le delegate a rappresentare la chiesa ed il suo illustre taumaturgo nei
vari aspetti logistici, i componenti del comitato e gli anonimi fedeli
al seguito di tanti labari e bandiere. In quei tempi il sacro corteo
rappresentava qualcosa di sentito, di partecipato, di religioso. Oggi è
ben poca cosa rispetto ad allora ed i più vorrebbero rivivere e
riproporre le sfilate del passato come un avvenimento profano, un
festeggiamento civile, un’attrazione per i turisti. La parola turista,
sinonimo di foristeri, non faceva parte in quei tempi del vocabolario sardo. Non era stata ancora coniata.
Il circo (su giogu) andava ad occupare in quegli anni un
ampio settore della zona retrostante alla chiesa con i picchetti che
andavano ad affossare i rampini nella parte sud, quasi sulle estremità
della strada provinciale. Mi ritorna in mente che l’arena, orfana di
animali esotici, era sempre ben rappresentata da bravi acrobati, comici,
suonatori e giocolieri. Un disco, azionato con la manovella del
grammofono, ripeteva spesso ed in continuazione il seguente ritornello:
Io sono fortunello,
non son brutto né bello,
son nato in una stalla,
mia madre è una cavalla.
Con tutto quel che sono,
non ve lo posso dire,
a dirlo non son buono,
mi proverò a cantar.
Sono passati tanti anni e ne ricordo ancora l’adagio. Talvolta mi
faccio anche una cantatina. Funziona sempre. Anche quando ho il morale
sotto i tacchi.
Le canzonette di Sanremo non bollivano ancora in pentola. Benito Urgu
non calcava le scene circensi. Troppo giovane. Per una strana
coincidenza temporale, eravamo nati nello stesso anno, stesso mese e
stesso giorno. Dall’estratto di nascita, certificato che ho l’onore di
ritirare in Campidoglio, posso leggere anche l’ora ed il minuto. Non so se lui sappia del momento in cui è venuto alla luce.
Quando venne a Tonara per la prima volta con il suo complesso,
nelle vesti di comico e di cantante, non incontrò a primo acchito i
favori di tutti gli spettatori. Rivolto a quelle piccole frange di
incontentabili sentenziò: Credete davvero che se fossi stato veramente grande sarei venuto in mezzo a voi? Col passare degli anni quei pochi si saranno certamente ricreduti.
A quei tempi i mezzi in circolazione erano rappresentati in
maggioranza dalle carrette a cavallo degli ambulanti e dai carri a buoi
dei conduttori agricoli. Di biciclette nessuna traccia. In sostituzione
venivano usati dagli adolescenti, specialmente nei tratti in discesa,
dei caratteristici tricicli assemblati con legni di quercia che in
vernacolo venivano chiamati icicle. Quasi dei bob a due ma molto più contenuti.
Gli apparecchi radio registrati in paese non superavano le cinque
unità. Il telefono era gestito solamente dall’ufficio postale e dalla
stazione dei carabinieri. Il calcio balilla non aveva ancora fatto
l’apparizione nei locali pubblici. Nel periodo a cavallo tra gli anni
quaranta e cinquanta si giocava ancora con le palle di pezza.
Pochi i veicoli a motore. In ogni modo gli animali si
disimpegnavano a dovere anche sulle grandi tratte. Non solo per il
trasporto dei beni di prima necessità, ma anche di quelli di secondaria
importanza quali il ghiaccio per la mescita delle bibite fresche. Gesuino Peddes, decano dei carrettieri di un tempo, faceva incetta di lastre congelate ad Oristano.
Con l’avvento degli anni sessanta i mezzi di trasporto diventarono così numerosi che, per l’Ottava di sant’Antonio, che ha sempre rappresentato e rappresenta la festa dei viaggiantes,
si concentravano in Su Pranu, zona del campo sportivo e dintorni, per
ricevere la benedizione del parroco. I fuochi pirotecnici solennizzavano
la chiusura dei festeggiamenti. Quando la grande area venne occupata
dalle prime costruzioni ed a queste fecero seguito i primi quartieri,
non ci fu più spazio per i raduni delle quattro ruote e gli
organizzatori dovettero ripiegare per i loro programmi su altre
iniziative. Peccato che nel tempo sia venuto a mancare l’elemento umano.
E’ sempre la gente che crea i presupposti della festa. Il proverbio pagu gente megnu(s) festa regge sino a un certo punto.
Agli inizi degli anni cinquanta Tonara contava più di quattromila
anime, il doppio di quelle censite oggi. Il sagrato faceva il pienone di
presenze umane allo scoppio dei primi mortaretti o al passaggio della
processione.
Ogni occasione era buona per inseguire i discorsi dei vari
imbonitori di turno di mercanzie varie, per assistere alle evoluzioni
del carrellino mobile che si impennava sulla breve rampa di lancio, per
conteggiare mentalmente il numero dei gessetti abbattuti con la carabina
dai tiratori di turno e per assaporare al meglio le parentesi più
suggestive offerte dalla sagra.
C’erano anche le bertucce del circo che con i loro numeri a
volteggio continuo eccitavano la curiosità di chiunque. Non so se nel
nostro pianeta esistano altri animali in grado di imitarle nei loro
esercizi ginnici.
Spesse volte e per lunghi tempi mi ritrovavo a fare da spettatore
al gioco dei cinque dischi. Per partecipare bisognava spendere 50 lire.
In caso di vincita, evento molto raro, il giocatore intascava dieci
volte la posta. L’occorrente era rappresentato da un tavolinetto sul
quale era disegnato un cerchio bianco dal diametro non superiore ai
venti centimetri. Le cinque piastre, ciascuna di raggio intorno al mezzo
decimetro, dovevano ricoprire, una volta fatte cadere sul piano del
mobile, l’intera superficie circolare. Durante una fase di stanca, il
padrone del gioco mi invitò a fare delle prove senza impegno. Con mia
grande sorpresa riuscii nell’intento al secondo tentativo. Tenne a
precisare che la mia partecipazione al gioco vero mi era preclusa in
quanto minorenne.
Il gioco delle tre carte fece una rapida e fugace apparizione.
Capii che non poteva essere gestito legalmente alla luce del sole.
L’albero della cuccagna (su pinnone), definito da una
grossa e lunga biga in castagno, ancora prima di essere infossato nel
terreno per almeno un metro, veniva ripulito della corteccia e abilmente
ingrassato con sego di porco (oggiuseu). Lo spazio di
operatività per i concorrenti era definito da una ampia area definita
esternamente dalla fiancata laterale del tempio, quella che dispone di
un ingresso secondario, dalla recinzione esterna che lambisce un tratto
dell’arteria provinciale e dal circo equestre. In elevazione superava di
alcuni metri la sommità del campanile a vela che dà sul sagrato. La
posta in palio era solitamente alta. Si aggirava sull’importo di
diecimila lire.I
valori di un chilo di torrone, un carro di legna d’ardere, una giornata
di lavoro di un muratore, il corrispettivo giornaliero per un
conduttore col carro a buoi, secondo le annotazioni dei registri
comunali tonaresi, erano espressi rispettivamente dai seguenti importi:
700 lire, 3120 e 700 per l’anno 1949 e 1750 per il 1948.
Mio padre, per aver sofferto lo scotto da prigioniero in Germania per la disfatta di Caporetto,
per aver navigato nel deserto in tre anni di campagna d’Africa a caccia
di dissenterie e malaria, per aver giocato, dopo aver fiutato aria di
deportazione nei campi di concentramento, al gatto col topo con i
tedeschi e per aver servito la Benemerita per trent’anni, il
massimo allora, percepiva la pensione di 16.000 lire. Non si era mai
lamentato. Erano purtroppo gli anni del dopoguerra.
Agli orari convenuti dagli organizzatori, solitamente di
pomeriggio, i partecipanti all’arrampicata si presentavano sempre
numerosi. Alcuni si cimentavano nella sfida creando alla base una
piramide umana. Il palo, ingrassato a dovere, sembrava respingere tutti
gli attacchi.
Fu la volta di un ragazzo di Arasulè, il rione a monte
dell’abitato, il quale si presentò all’appuntamento con l’abito
migliore, un vestito di panno verde, camicia bianca, scarponi di gomma e
copricapo con le bande laterali calate sulle orecchie. Allora la scelta
per la divisa di ogni ragazzo ricadeva sul panno, sul velluto o sul
fustagno. Erano pochi coloro che indossavano gli indumenti di stoffa. Le
donne vestivano il costume già da età adolescenziale. Facevano
eccezione quante frequentavano le scuole dell’obbligo.
Quel giovane del rione superiore, dopo aver guadagnato qualche
metro verso l’alto, sembrò desistere dall’impresa dopo i primi
tentativi. Forse aveva tenuto conto dei consigli della sorella che,
ricordandogli le spese sostenute per la confezione dell’abito, lo aveva
invitato a rinunciare all’inutile sfida. In ogni modo, dopo essersi
riposato per una decina di minuti, incurante degli avvertimenti ed
esortazioni della congiunta, salì spedito sino alla bandierina e quando
ridiscese ricevette molti applausi, compresi quelli del familiare il
quale rassicurava il fratello di non preoccuparsi minimamente di aver
ridotto il vestito in cattivo stato in quanto un buon lavaggio avrebbe
rimesso tutto a posto. Forse era stata la morbidezza del panno vellutato
a garantire il successo dell’operazione. Il ricorso ad un abito usato
non avrebbe sicuramente dato i risultati sperati.
In giro tra i muristenes, sia tra quelli ubicati in
prossimità dell’ingresso e sia tra quelli improvvisati dai rivenditori
di bevande c’erano sempre tanti avventori. Ma la gente comune si
riversava disordinatamente e scompostamente un po’ dappertutto e non
mancava mai, specie di notte, di assistere allo spettacolo offerto da is cantadores.
Erano questi ultimi degli estemporanei di lingua sarda che, su temi
proposti dagli organizzatori, deliziavano gli ascoltatori con
composizioni rimate. Ad onor del vero non ho mai avuto alcun interesse
per questo genere di canto.
Quando le coppie di ballo sardo si esibivano con le loro
evoluzioni nei pressi del palco degli organizzatori, i colori bianchi,
rossi, neri e verdi dei vestiti delle donne e quelli più severi
evidenziati dal velluto e dal fustagno dei loro cavalieri dominavano la
scena e focalizzavano l’attenzione di grandi e piccoli.
Devo ammettere purtroppo che le sfumature cromatiche dei costumi
femminili proposte dalle processioni religiose, non trasmettevano più al
mio animo le emozioni e lo stupore provati le prime volte.
Quell’effetto magico che sorprende e soggioga i turisti che s’imbattono
con le novità espresse da dette cartoline animate di fattura barbaricina
per me non suscitava più alcuna meraviglia.Non
so quale impressione provarono i giocatori del Cagliari nel 1950 quando
si presentarono nel rettangolo di gioco per disputare una partita di
calcio contro la formazione del Tonara, una squadra quest’ultima alle
primissime armi. In definitiva si trattò di un allenamento tra prime e
seconde linee della compagine ospite. I nostri erano rappresentati dal
portiere Antonio Sau, da Gabriele Zucca e da Mario Perdisci, un calciatore della Tharros. Il grande evento sportivo era stato favorito dall’interessamento di Manfredi Gessa,
un industriale della lavorazione del legname che, per l’occasione,
aveva voluto inaugurare le cucine della sua casa padronale. Almeno
questo era stato il pretesto.L’estremo difensore Sau,
che apparteneva ad una famiglia tonarese trapiantata a Cagliari da
tanto tempo, mi riferisce oggi dello stupore provato, tra un misto di
meraviglia e sorpresa, al suo ingresso in campo. I suoi racconti, che
lasciano molto spazio ai risvolti di carattere sportivo di quella
manifestazione, fanno riferimento in particolare alla cornice offerta
dal pubblico. La recinzione del campo di gioco era rappresentata dalle
donne e dai loro costumi assortiti di tanti colori. Dietro di loro, in
segno di rispetto e di cavalleria, gli uomini con scarpe gommate o
chiodate per calzari, pantaloni senza risvolto e giacche con martingala
per vestiario e berretti a falde tese per copricapo. Il bianco crema
offerto dalla tela delle camicie dei maschi, tutte orfane del risvolto
del colletto, si abbinava felicemente con il colore dei bottoncini
madreperlacei, le cosiddette matripellas. Oggi viene preferita
la plastica. Passa una bella differenza! Nelle donne invece gli ampi
sbuffi di tela candida della camicia si concedevano elegantemente ai
movimenti delle mani e delle braccia. La ricchezza di tale indumento era
rappresentata non dalla filigrana, poco presente nel costume tonarese,
ma dalle lavorazioni a uncinetto e dal cucito delle orlature attorno al
collo ed ai polsini. Pizzo, ricamo e plissettatura valorizzavano il
tutto. I colori espressi dal corpetto, dalla gonna, dal ventaglio e dal
fazzoletto facevano il resto.
Saranno stati duemila i figuranti assiepati lungo il perimetro del rettangolo di gioco. Voler riproporre oggi una kermesse
di tale portata sarebbe quasi impossibile. Eppure allora, senza tanti
preparativi, l’insolita rassegna, si concretizzava in poco tempo. La
magia, l’incantesimo e lo spettacolo erano sempre garantiti. Come ai
tempi della processione raccontata nel 1921 dal Lawrence.
La chiesa era sempre al completo. Da giovane, pur avendo avuto
mille opportunità per una capatina all’interno, non ci entravo mai. Oggi
che sono anziano, il fattore distanza non mi impedisce tuttavia di fare
qualche visita veloce o di assistere talvolta alla messa vespertina del
sabato.
I festeggiamenti civili e religiosi fanno affidamento su queste date
a) 13 giugno
b) 20 giugno, l’ottavo giorno dei festeggiamenti. In tale
occasione i commercianti tonaresi hanno modo di ritrovarsi e di
suggellare il patto di continuità con le future edizioni.
c) 1913, prima edizione dell’Ottava. Quest’anno
dovrebbe festeggiarsi il centenario. Con un buon battage pubblicitario
gli organizzatori potrebbero fare grandi cose e richiamare su questo
paesetto alpestre numeri da favola, come succede per la festa del
torrone.
d) 1746, anno di fondazione del luogo di culto.
Non bisogna dimenticare il 1614, anno che testimonia della prima
apparizione del torrone in Sardegna. E’ questo il tipico dolce che, col
supporto principale degli operatori tonaresi, movimenta le sagre di
tutto il panorama isolano.
Tornando al passato ricordo sempre quelle prime edizioni dei
festeggiamenti a base di circhi equestri, di giostre, di alberi della
cuccagna, di processioni, di zucchero filato, di prove di forza, di
abilità e di tanta spensieratezza.
Poi a Tonara arrivarono, i biliardini, i biliardi, i juke box, i
motori, i trattori ed i nuovi modi di vestire che, in un gioco d’insieme
ben cadenzato nel tempo, mandarono a gambe levate carrette, carri
agricoli, ruote idrauliche, antichi mestieri e secoli e secoli di storia
e di folclore. I mas media fecero il resto. Ma questo è
l’effetto della globalità che regola tutti in un gran calderone dove
nessuno è primo e nessuno è ultimo.
Per me è arrivata anche una terza età, un traguardo che mi
permette di ripescare dalla mia memoria queste semplici testimonianze di
vita vissuta.
Segni di devozione per sant’Antonio e la sua chiesa
La devozione per il santo di Padova é documentata nei secoli
passati nelle note testamentarie richiamate dai certificati di morte di
molti nostri antenati.
Estevan Machis, rappresentato dal notaio Pietro Arca, dà
disposizione per la celebrazione di tre messe piane da effettuare in
onore del grande taumaturgo nel giorno della sua morte, avvenuta il 19
maggio del 1676.
Antonio Ortu Loddo, assistito dal notaio Tomaso Pipia di
Sorgono, dispone che la metà del ricavato della vendita di un giogo di
buoi sia destinata all’acquisto di un paramento per la statua del santo.
Il decesso del testatore reca la data del 20 dicembre 1676.
La chiesa del santo é citata per la prima volta nell’atto di morte
di Giovanni Pala, avvenuta in data 13 marzo 1746. Fra le varie
disposizioni, curate dal notaio Anselmo Flores, figura un lascito di due pecore en benefiçio de la Iglesia.
I natali del nuovo luogo di culto sono ulteriormente definiti dal
notaio Pietro Antioco Mura nel testamento facente capo al sacerdote
Antonio Sedda Martini, deceduto in data 1 giugno 1746 e sepolto nella
parrocchia di san Gabriele. In esso il testatore dispone che:
a) con il lascito di cinquanta scudi si provveda alla
costruzione di una cappella da titolare alla vergine del Rosario nella nuova chiesa di sant’Antonio.
b) con i frutti della pensione di 150 scudi siano celebrate per
due volte ogni settimana, nei giorni di lunedì e di mercoledì, delle
messe votive nella chiesa citata.
Già dall’anno precedente Maria Grazia Musiu, deceduta il 5 maggio
del 1745, aveva programmato la spesa di uno scudo per l’acquisto della
campana quando se hiziere (quando si costruirà) in onore del glorioso San Antonio de Padua.
Una messa votiva per il santo é segnalata in data 21 marzo del
1747 nel certificato di morte di Sebastiano Cocco. A rappresentare le
sue ultime volontà é il notaio Battista Manca Deiana.
Da alcune clausole testamentarie del sacerdote Pietro Antonio
Deiana, redatte dal notaio Anselmo Floris e richiamate nell’atto di
morte dell’otto gennaio 1748, risultano vari lasciti fra i quali, degni
di essere menzionati, uno di cinquanta scudi a favore della parrocchia
ed un altro di un solo scudo a beneficio della chiesa del santo.
Di singole messe per il santo patavino si fa cenno nei testamenti di Paula Flore, assistita dal notaio Pedro Francisco Flores, di Bachisio Sucu, e Giuseppe Tore, quest’ultimo rappresentato dal notaio Manuel Demurtas, deceduti rispettivamente il 19 novembre del 1757, il 26 gennaio 1770 ed il 27 novembre del 1775.
Dieci scudi in beneficio della chiesa vengono devoluti dal giovane
diciassettenne don Giovanni Melis, di origini fonnesi, deceduto il 16
agosto 1776.
Per la morte di Maria Grazia Dearca, rappresentata dal notaio Pedro Manuel Dearca,
sono da segnalare, oltre ad una messa per il santo, la generosa
donazione di otto quintali (si tratta di quintali da quaranta chili; il
sistema metrico decimale non é ancora in vigore) di carne bovina (bubula) e quattro starelli di grano da distribuire ai poveri nel giorno della sua morte, avvenuta il 13 dicembre 1780.
Juanna Mathias Coco, nubile ventenne, deceduta il 20
maggio del 1781, fra le varie messe indicate nel testamento, ne dedica
una a sant’Antonio ed un’altra a s’Antonio Abbad, mentre, per l’anniversario della sua morte, dispone, con l’assistenza del notaio Manuel Dearca, che ai poveri dell’abitato vengano distribuiti dodici quintali di carne bubula e tre starelli di grano.
Le ultime volontà di Antonio Ignazio Cabras, deceduto il 25 dicembre del 1785, dispongono che l’usufruttuario del piccolo chiuso di Murasé, si faccia carico di far celebrare ogni anno, per il primo lunedì del mese di giugno, una messa parata con diciotto lumas nella chiesa di sant’Antonio. A raccogliere le sue ultime volontà é il notaio Francesco Giuseppe Mereu.
Nel testamento di Pietro Simone Murru, deceduto il 15 gennaio del
1792, rientra, fra le tante da celebrare, anche una messa in onore di
sant’Antonio. Meritevole di essere segnalata la donazione ai poveri del
paese di dies, y ocho quintales de carne bubula, y sinco estareles de trigo hecho a pan.
In data primo aprile dell’anno 1792, en la Iglesia del Glorioso San Antonio de Padua, si celebra il matrimonio del notaio Antonio Maria Tore con Antioca Demurtas.
Per la morte del notaio Giuseppe Mereu, avvenuta il 30
gennaio del 1793, le ultime volontà, raccolte da tre sacerdoti, fra i
quali il rettore Porru, dispongono di un lascito particolare di tre
scudi da impiegare en la fabrica dela iglesia de S(a)n Antonio de Padua. Forse si trattò di opere di rifinitura o di ristrutturazione.
Singole messe piane sono dedicate al santo dalla vedova Maria Rosa Mura, rogito notarile Pedro Admirable Corriga, da Sebastiana Cedde, rogito di Manuel Demurtas e da Pedro Orrù,
rogito del notaio Raimondo Tore. I decessi riportano nell’ordine le
date del 15 maggio 1794, del 16 agosto 1796 e del 6 luglio 1802.
Ancora messe votive semplici in onore del santo vengono segnalate nei testamenti redatti da Pedro Cedde, Luigi Tanda, Raimondo Tore e Manuel Demurtas
per conto dei rispettivi assistiti Diego Dearca, deceduto il 28 gennaio
del 1810, Maria Cedde (14 febbraio 1813), Domenico Orrù (22 ottobre
1813) e Basilio Albis Figus (5 marzo 1816). Nel secondo punto del codicillo allegato al testamento di Diego Dearca si evidenzia un lascito di cinque scudi en beneficio de la Iglesia de San Antonio de Padua mentre in una clausola testamentaria riguardante Basilio Albis si dispone, a favore della chiesa, la cessione del terreno sito in regione denominata Minda de Mela.
Particolare significato assume il certificato di morte della Signora
Vincenza Dearca, vedova dello scrivano Antonio Efisio Cabras, deceduta
il 3 ottobre 1816 e sepolta nella chiesa di sant’Antonio. La
partecipazione alle esequie fu onorata dalla presenza di sei sacerdoti
(due terni), della croce parrocchiale e della confraternita di santa
Croce (por ser Cofradessa). Non fece testamento.
Francesca Pala, maritata Patta, vedova di 70 anni del rione di Arasulé, contrada denominata s’Arcu
(l’attuale Istraccu), dispone che, all’atto della sua morte, avvenuta
il 27 ottobre 1818, sia ceduto alla chiesa più volte citata un piccolo
appezzamento sito in regione sa Tzia Clara (pressi dell’attuale ostello della Gioventù). E’ depositario delle sue ultime volontà il notaio Giuseppe Porru.
Per la morte di Bartolomeo Cuccuru, avvenuta il 17 novembre 1818, rogito notarile Manuel Demurtas, é segnalato a favore della chiesa del Glorioso Santo il lascito di un terreno sito in Bizzialù.
Pur non essendo un confratello ebbe comunque l’onore
dell’accompagnamento di due terni, della confraternita di santa Croce e
della croce parrocchiale.
Cosimo Carneri, assistito dal notaio Raimondo Tore, un cugino di
Monsignor Tore, dispone che con parte del ricavato della vendita del suo
gregge, si celebri una messa semplice in onore del santo. Il
certificato di morte riporta la data dell’11 dicembre del 1822.
Dalla relazione di Michele Zucca, vice rettore della parrocchia
tonarese nell’anno 1825, intorno allo stato dei cimiteri e delle chiese
nel terzo decennio dell’Ottocento, abbiamo un quadro preciso e
dettagliato dei vari luoghi di culto. La chiesa é foranea, ma contigua al Rione (Arasulè),
ed é propriamente detta di Sant. Ant(oni)o situata in una pianura non
meno distante dall’estremità di detto Rione venti minuti: questa chiesa
non viene frequentata dagli abitanti di Tonara in altro tempo, solamente
dal primo giorno del mese di Giugno fin al tredici di detto mese nei
quali giorni concorrono gli abitanti per farvi il novenario ed il giorno
tredici si celebra la festa in onore del Santo e vi concorrono anche
molti forestieri; questa chiesa ha annesso un cortile malamente
fabbricato di non mediocre estenzione, contiguo al cortile possiede un
terreno aperto di qualche estenzione.
Simone Zucca, (Zuca nel certificato di morte dell’11 dicembre del
1827), dispone nel rogito notarile del notaio Demurtas, che al Glorioso San Ant(oni)o de Padua, o sea Iglesia de esta Villa siano offerti dies obejas de mardiedu, o dies escudos en denero secondo il libero arbitrio della curatrice Giovanna Zucca, sua sorella.
Della cessione di un credito di cinque scudi, vantato nei
confronti degli eredi del fu Giuseppe Zucca, si fa portavoce, con
l’assistenza del rappresentante legale Emanuele Demurtas di Arasulé,
la signora Giuseppa Dearca, moglie del notaio Gabriele Garau di Toneri.
Nel certificato di morte della testatrice é segnata la data del 18
agosto 1829.
Una messa piana in onore del santo é segnalata, in data 22
settembre 1832, nell’atto di morte di Paola Tocori, una vedova di 80
anni del rione di Ilalà e quivi sepolta all’interno della
chiesa di san Sebastiano. La stesura del testamento venne affidata al
notaio Salvatore Tore, un figlio d’arte del noto Antonio Maria.
Nell’articolo numero 10 del testamento redatto dal notaio
Giambattista Porru di Tiana in nome e per conto di Mauro Dessì Cabras,
deceduto il sei di gennaio del 1836, viene messo a disposizione della
chiesa del santo un piccolo terreno agricolo sito nella regione
denominata Tonnai.
In data 22 giugno del 1836 la piccola chiesa di sant’Antonio accoglie le spoglie mortali del notaio Antonio Maria Tore.
Le ultime volontà di Monserrata Mura Pinna del rione di Ilalà,
deceduta all’età di 95 anni il 14 aprile del 1845 e seppellita nel
cimitero rurale di san Sebastiano, dispongono due messe piane in onore
di sant’Antonio, due di san Sebastiano, due alle anime del purgatorio e
due dell’angelo custode. Così dalle note testamentarie redatte dal
notaio Michele Zucca del rione di Toneri.
L’abate Vittorio Angius, non manca di segnalare, nel resoconto
della sua visita effettuata a Tonara nell’anno 1846, che la chiesa di
sant’Antonio fa parte di uno dei due luoghi di culto del rione di
Arasulè. Tanto ai festeggiamenti religiosi quanto a quelli civili, che
ricorrono il 13 giugno ed il 14 giugno, vi concorre gran quantità di
gente dai paesi vicini e la piazza della chiesa prende l’aspetto d’un
mercato. Dopo i vespri della festa si corre il palio, ma bisogna dire
che i premi sno meschini consistendo essi in alcune decine di palmi di
velluto nero o azzurro.
L’aspetto fieristico sul sagrato della chiesa é rimarcato anche
nelle deliberazioni consiliari del comune di Tonara del 1894, anno in
cui si delibera di assoggettare i venditori ambulanti al pagamento del
dazio.
A partire dal 1925, secondo la testimonianza rilasciata in una
intervista degli anni sessanta da Giovanni Antioco Carta, la fiera
mercato cade in disuso. Buona l’affluenza di rivenditori forestieri.
Oggetto di contrattazione gli articoli in rame, ferro, ferro smalto,
latta, pelle e cuoio. Si potevano contare nel piazzale antistante la
chiesa sino a cinque o sei carretti di carne e frutta fresca.
Ai festeggiamenti religiosi di gennaio in onore al santo dedica abbondante spazio in Mare e Sardegna lo scrittore David Herbert Lawrence. E’ l’anno 1921. Dalla traduzione dall’inglese di Luciano Marrocu apprendiamo che le
donne sono inginocchiate sul nudo pavimento di pietra della piccola
chiesa grigia abbandonata sull’orlo della vetta dell’altopiano. In
un altro passaggio si parla della bellissima processione in costume. Gli
aggettivi sono distribuiti con molta eleganza descrittiva nel resoconto
della celebre penna d’oltre Manica. Di solito, precisa l’autore, il
livello della vita é ritenuto essere al livello del mare. Ma qui, nel
cuore della Sardegna il livello della vita é alto sull’altopiano
illuminato d’oro, e il livello del mare é da qualche parte, lontano,
giù, nel buio, non ha importanza. Il livello della vita é in alto, alto e
addolcito dal sole e tra le rocce.
Oggi, soprattutto in occasione dei grandi appuntamenti isolani di Pasquetta e di Autunno in Barbagia,
con le mostre del torrone e dei campanacci, le centinaia di espositori
commerciali disseminate sino al limite nel nuovo rione sull’altopiano
sembrano concedere poca libertà di movimento ai fedeli lungo i
camminamenti in direzione della chiesa. All’interno di essa c’è sempre e
comunque tanto spazio a disposizione per i veri credenti.