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martedì 21 aprile 2020
domenica 19 aprile 2020
Vincenzo Cabras di Ennio Porceddu
L’insurrezione esplose nel momento in cui i piemontesi arrestarono l’avvocato Vincenzo Cabras e il fratello bernardo al posto di Efisio Pintor, che era riuscito a scappare. Ma già iniziò un anno prima, nel 1793 quando i cagliaritani respinsero con grande determinazione le armate navali francesi. Sa die de sa Sardigna è la ricorrenza popolare che rievoca i cosiddetti “Vespri Sardi”, cioè l’insurrezione popolare del esplosa il giorno 28 aprile 1794 con il quale cacciarono da Cagliari i Piemontesi e il viceré Balbiano, in seguito al diniego del governo di Torino di esaudire le richieste che venivano dall’isola, titolare del Regno di Sardegna.In effetti, cosa chiedevano i sardi? Che fossero loro riservata una parte degli impieghi civili e militari e una maggiore indipendenza rispetto alle risoluzioni della classe dirigente locale. Al rifiuto del governo piemontese di accogliere qualsiasi petizione, la borghesia cagliaritana sorretta da tutta la popolazione, s’infiammò facendo nascere il moto insurrezionale. Le prime scintille della ribellione popolare iniziarono già negli anni Ottanta del Settecento ed erano continuate negli anni novanta, interessando poi tutta l’isola.Le ragioni del malcontento, erano di ordine politico ed economico insieme, da riallacciare al 1793, quando l’isola era stata implicata nella guerra della Francia rivoluzionaria contro stati europei e contro e il Piemonte. Così quando si parla di storia sarda, dobbiamo tener conto del biennio 1793/ 1794. I francesi, dopo aver, occuparono Nizza e Savoia, decisero di conquistare la Sardegna, convinti che conquistare l’isola fosse un’impresa facilissima. C’é da rammentare che la Sardegna in quel periodo era nel caos con gli isolani scontenti con un governo piemontese incapace di difendersi. Invece, accadde l’impensabile che i francesi non si aspettavano. Quando nel febbraio del 1793, la flotta, capeggiata dall’ammiraglio Truguet, si affacciò nella rada di Cagliari e iniziarono il cannoneggiamento, trovarono un’eroica opposizione dei Sardi, in difesa della loro terra. Con tale opposizione si manifestava un sentimento nazionale, che portò a scriverla nella sua autobiografia Vincenzo Sulis. Dopo aver evitato il pericolo dei francesi, I nobili sardi che avevano sollevato il popolo contro i francesi, giustamente, dai Piemontesi, si aspettavano una riconoscenza e una giusta gratificazione per la fedeltà manifestata alla corona. Le cose però andarono diversamente: tutte le richieste furono bocciate. “Mostrandosi il Ministro Granirei, contrario alle domande presentategli – scrive Pietro Meloni Satta – in nome degli Stamenti dai Deputati a ciò delegati, e accentuandosi sempre più la tracotanza, il contegno poco corretto, le satire e le insolenze continue dei Piemontesi contro gli Isolani, il malcontento assume proporzioni gravissime in tutta l’Isola, e specialmente nella capitale”. La fiamma che fece perdere il controllo ai cagliaritani fu (28 aprile 1794), l’arresto disposto dal viceré di due capi del partito patriottico, gli avvocati cagliaritani: Vincenzo Cabras ed Efisio Pintor.
In breve i fatti: Intorno all’una di pomeriggio di quel giorno, una Compagnia di granatieri del reggimento svizzero Schmidt, scende dalla Porta Reale, a Cagliari, avviandosi verso il quartiere di Stampace. I soldati sono in uniforme di parata: la gente che passa pensa di essere di fronte ad un’esercitazione. Poi con passo veloce, una parte dei soldati si schiera accerchiando l’abitazione dell’avvocato Vincenzo Cabras. Si predispone l’arresto del Cabras e del genero, Efisio Pintor, anche lui avvocato, considerati dalle Autorità Piemontesi due pericolosi rivoluzionari ma quest’ultimo riesce a scappare. Allora è arrestato il fratello Bernardo.“A questo punto – scrive Pietro Meloni Satta – “scoppia l’insurrezione nel sobborgo di Stampace. Si corre in folla forzando e bruciando una porta della Marina, e occupansi in pochi istanti le altre porte, e le batterie che guardano il mare. Nasce un vivissimo fuoco colle truppe con morti e feriti da ambo le parti. Il più duro conflitto avviene alla porta del Castello, chiusa e ben munita, di dentro, dalle truppe. Quivi si riversa la popolazione chiedendo, con grida furibonde, la liberazione dei due arrestati. Si da fuoco alla porta e si scala la muraglia. Penetrati in Castello si sostiene, per un’ora, un fuoco vivissimo colla truppa, che occupava le diverse imboccature delle strade, e ciò malgrado le rimostranze del marchese di Laconi e del Colonnello Schmidt: il primo dei quali, colle lacrime agli occhi, esortava il Viceré a far deporre le armi per risparmiare il sangue cittadino”. La popolazione furibonda, decise di cacciare dalla città il viceré Balbiano e tutti i Piemontesi.Incoraggiati dalle vicende cagliaritane, gli abitanti di Alghero e Sassari fanno altrettanto.
Per dovere di cronaca storica, occorre segnalare che furono i macellai, nei loro costumi tipici, i primi a sollevarsi contro i Piemontesi, con Ciccio Leccis in testa, il capo popolo che arringò la folla facendo scoppiare la rivolta. Gli insorti, conquistato il Castello, sfondano le porte e occupano palazzo Viceregio. Per prima cosa, allegoricamente, nel ricordare la molla che ha scatenato la sollevazione popolare e ad attestare un beffardo e tollerante spirito che sempre ha contraddistinto i cagliaritani, nel palazzo del vicerè è banchettato un ricco pasto di tutte le pietanze trovate nelle dispense, lasciate dai piemontesi.“Fuori i Piemontesi!” urlano i popolani per le strade di Castello, gli insorti. Subito dopo Don Francesco Asquer, visconte di Flumini a capo di oltre cento persone, fa arrestare i Piemontesi presenti in Castello per imbarcarli verso Torino. In attesa del giorno dell’imbarco, previsto per il 7 maggio, i Piemontesi sono alloggiati e protetti per evitare possibili tafferugli. Il giorno stabilito, i Piemontesi, con le loro masserizie, sono accompagnati al porto e imbarcati. Al quel punto i cagliaritani incominciano a chiedersi, perchè lasciare a loro, tutti i beni rapinati ai Sardi? Allora, è suggerita l’ipotesi di chiedere un risarcimento immediato ma interviene il macellaio Ciccio Leccis: “Lasciateli andare, che noi sardi benché poveri non abbiamo bisogno della merda dei piemontesi”. “Procurad’ ‘e moderare,/ Barones, sa tirannia, /chi si no, pro vida mia, /torrade a pe’ in terra!” (Cercate di moderare / baroni, la tirannia, / ché se no, per la mia vita!, / tornate a piedi a terra! Recitano alcuni versi de Su patriottu sardu a sos Feudatarios (Il patriota sardo ai Feudatari).Fu un episodio sicuramente considerevole per l’isola, per quei moti antifeudali, anche se certuni non approvano la lettura dei fatti, che lo animarono. Rientrata la rivolta, alcune richieste saranno accolte nel 1796.Nel 1993, il Consiglio Regionale sardo, con la legge n.44, ha istituito “Sa die de Sa Sardigna” come festa regionale, il 28 aprile di ogni anno, in ricordo di quell’avvenimento del 1794. Il”Giorno della Sardegna” è raccontato con manifestazioni culturali e una “rappresentazione scenica” degli scontri del 1794 nei luoghi reali, dove ebbero luogo gli avvenimenti. Molti i sardi e i turisti che si riversarono nel quartiere di Castello, l’elefante”, siamo tra quei sardi che non si perdono quest’occasione.
Mons. Tore di Tonara e mons. Vargiu di Isili: due vescovi colti e forti
Mons. Tore di Tonara e mons. Vargiu di Isili: due vescovi colti e forti Giovedì, 30 Maggio 2019 di Tonino Zedda Arborense
Come per gli altri contributi di questa rubrica, attingo a piene mani dai preziosi e rarissimi volumi, frutto di particolari ricerche fatte e pubblicate dal nostro illustre storico il canonico Raimondo Bonu. Ho preso in considerazione soprattutto due saggi: Serie Cronologica degli arcivescovi di Oristano, edita nel 1959 a Sassari coi tipi di Galizzi e Diocesi di Ales-Usellus-Terralba, aspetti e valori, edito, nel 1975, con i tipi dell'Editrice Sarda Fossataro di Cagliari.
Dalla lunga teoria dei vescovi di Usellus, Ales e Terralba, i cui vescovadi furono autonomi dagli inizi della fede cristiana nell'Isola fino all’8 dicembre 1503 quando il papa Giulio II, per definire una nuova struttura delle diocesi sarde, dispose l’unione di quelle di Usellus con Terralba, con sede in Ales. Si trattava di un provvedimento deciso poco prima di morire dal papa Alessandro VI, anche in conseguenza delle continue suppliche rivoltegli dai reali di Spagna Ferdinando e Isabella, in modo da consentire una migliore e più equa utilizzazione delle modeste rendite di cui godevano le diocesi isolane. Al governo della nuova Diocesi fu confermato Giovanni Sanna, già vescovo di Usellus dal 1493 e in precedenza vescovo di Castro. Dall’unificazione delle due diocesi emerge un dato interessante: ben due sacerdoti di Oristano furono elevati alla dignità episcopale e poterono operare per il bene della Chiesa alerense: il tonarese mons. Antonio Raimondo Tore e l'isilese mons. Pietro Vargiu. Antonio Raimondo Tore, nacque a Tonara il 21 dicembre del 1781, figlio di un medico, Giovanni, laureatosi all'Università di Cagliari e di Anna Cabras. Dopo aver frequentato la “scoletta” di Tonara, gli zii materni Vincenzo Cabras, che fu anche presidente della Corte dei Conti a Torino, e il canonico Antonio, vollero che il nipotino frequentasse gli studi nella città regia di Cagliari: qui entrò ben presto nel Seminario Tridentino dove frequentò brillantemente la scuola di retorica per due anni, per altri due anni la Filosofia e, per un triennio, gli studi di Teologia. Si laureò a soli 17 anni. Essendo troppo giovane per ricevere l'ordinazione sacerdotale si diede alla predicazione e, a detta del citato dott. Bonu, divenne ben presto uno dei primi predicatori del Regno. Per queste sue grandi doti gli fu affidato l'incarico di stendere l'elogio funebre per la morte della regina Maria Adelaide nel 1802 (aveva solo 21 anni), qualche anno più tardi scrisse anche gli elogi funebri del Re Carlo Emanuele IV e e di Vittorio Emanuele I. Nel 1803, raggiunta l'età di 22 anni, fu ordinato sacerdote dall'arcivescovo Sisternes, nella cattedrale di Oristano. Nominato viceparroco di Atzara; fu poi nominato parroco prima di Aritzo e poi di Sorgono. Nel 1820, a soli 39 anni, l'arcivescovo Azzei lo volle come Canonico teologale e Vicario generale. Nel 1821, fu nominato Vicario capitolare. Nel 1828 fu nominato, a 47 anni, vescovo di Ales, ricevette l’ordinazione episcopale a Bosa. Fu tenace e instancabile predicatore e pastore e - racconta il Bonu – per nove anni girò nella sua diocesi, dai monti al mare con quei ristretti mezzi che poche volte gli permettevano il lusso di una carrozzella e l’obbligavano a viaggiare a dorso di cavallo. Nel 1837 fu traslato alla sede arcivescovile di Cagliari conservando però l’incarico di Amministratore Apostolico di Ales. Il 9 marzo 1840, a soli 59 anni di età, morì a Cagliari. A Tonara è ancora venerato e ricordato per aver lasciato a quella parrocchia la sua ricca biblioteca. Del vescovo Pietro Vargiu, nativo di Isili, abbiamo pochissime notizie: restaurò l'episcopio di Ales e visitò più volte la diocesi. Morì ad Ales il 3 agosto 1866 dopo aver governato la diocesi alerese per 23 anni. Speriamo che qualcuno faccia una ricerca profonda per riportare alla luce un vescovo che certamente operò da vero evangelizzatore della Sardegna centrale.
UN ISOLA UN CONTINENTE: IL TORRONE SARDO
i buoni ingredienti del torrone sardo
Mandorle, noci o nocciole, albume d'uovo e miele: ecco gli ingredienti tradizionali del buon torrone sardo.
Recentemente si produce anche in una variante con le arachidi, destinata al commercio ambulante.
Le ostie sono fatte di amido di mais, acqua, olio vegetale e la regola le vuole in fogli sottili, tali da non influire sul gusto del torrone.
i luoghi del torrone
In tutte le sagre paesane dell'isola troverete torronai con i loro banchetti carichi di blocchi di torrone.
I centri di produzione più rinomati si trovano in Barbagia dove all'abbondanza di materie prime si unisce l'alta qualità delle stesse: delizioso miele dalla montagna e noci e nocciole dalle verdi vallate.
Al primo posto troviamo Tonara (con almeno il 90% della produzione sarda) e Aritzo, poi Guspini, Desulo e Pattada.
originalità del torrone sardo
In Sardegna il torrone è genuino, senza aggiunta di zucchero, sciroppo di glucosio, amido o altri aromi: si scioglie in bocca senza attaccarsi ai denti e non è gommoso. Ovvero: in Sardegna il torrone se non è fatto di miele, è altro, mentre nel resto d'Italia si chiama torrone anche ciò che è altro.
A Cremona, ad esempio, la ricetta tradizionale prevede zucchero e canditi, in Lombardia invece, è diffuso il ricoperto al cioccolato, in Emilia alle mandorle si affiancano bastoncini di cioccolato e caramelle, in Abruzzo il torrone è marrone perché viene impastato con cioccolato e nocciole mentre in Veneto si usano le mandorle essiccate e non tostate. Insomma le varietà nazionali sono innumerevoli.
In Italia, benché se ne rivendichino i natali, non esiste però alcuna normativa che definisca le caratteristiche standard di questo prodotto, come invece avviene ad esempio, in Spagna. Regole a parte, la percentuale di mandorle o dell'altra frutta secca è senza dubbio un fattore decisivo in un buon torrone e influisce sia sul gusto sia sulla consistenza: si rischia di passare da un torrone con una definita percentuale di mandorle o nocciole ad uno alle mandorle o nocciole, in quantità non meglio precisata.
proprietà nutrizionali
Il torrone sardo è sicuramente un dolce sano. Apporta circa 460 kcal/100 g, è quindi poco meno calorico del cioccolato ma ha una percentuale di grassi più bassa.
Le mandorle contengono in maggior parte grassi monoinsaturi, cioè "buoni" e ciò conferisce al torrone un pregio nutrizionale rispetto agli altri dolci generalmente ricchi di grassi saturi. Altro elemento prezioso fornito dalle mandorle è la vitamina E: un naturale agente anti-ossidante.
Il miele sardo è prodotto da inflorescenze spontanee, non trattate chimicamente, che si alternano a formare un naturale pascolo continuo.
Una porzione di torrone contiene inoltre una ricca percentuale di magnesio, potassio, ferro e zinco.
la lavorazione tradizionale
Il torrone oggi viene prodotto con mezzi industriali ma fino a pochi anni fa veniva lavorato in casa mescolando gli ingredienti in " su cheddargiu" (paiolo in rame) sulla "forredda" (fornello costruito in mattoni). La lavorazione richiedeva una gran forza di braccia poiché il miele veniva fatto squagliare a fuoco lento e poi cotto e rimestato per quattro ore con gli albumi montati a neve. Il fuoco era alimentato da rami secchi d'agrifoglio che ha la caratteristica di bruciare senza fare fumo. A fine cottura si aggiungevano le mandorle pelate e tostate, o altra frutta secca,e si versava il tutto in apposite cassette di legno ricoperte di carta oleata e ostie. Dopo il raffreddamento, il torrone era pronto per essere tagliato e servito.
Un'isola un continente - La Storia del Torrone.
Un'isola un continente - La Storia del Torrone.
la storia del torrone: l'origine e il nome
Quando e dove è nato il torrone? La sua origine è avvolta nel mistero. Cercando di risalire il corso della storia si arriva addirittura in Cina: pare che il torrone sia nato qui, luogo dal quale proviene storicamente la mandorla.
Sarebbero stati gli arabi a portarlo nel bacino del Mediterraneo, in Sicilia, in Spagna, e a Cremona, strategico porto fluviale sul Po. Il torrone sarebbe quindi una variazione della famosa "cubbaita" o "giuggiolena", dolce arabo fatto di miele e sesamo. "Turròn" è un termine spagnolo alquanto discusso e secondo le tesi degli studiosi iberici il torrone sarebbe ad ogni modo di derivazione araba. L'inizio della produzione di torroni tradizionali in Spagna si fa risalire al XVI secolo.
In Italia, tra il 1100 e il 1150, Gherardo Cremonese tradusse il "De medicinis e cibis semplicibus", scritto dal medico di Cordova Abdul Mutarrif. Vi si esaltavano le virtù del miele e veniva citato un dolce arabo: il " turun". A Cremona, i rivenditori sostengono comunque che il torrone nacque lì, nel 1441, durante il banchetto nuziale di Bianca Maria Visconti e di Francesco Sforza, quando venne confezionato in forma di Torrazzo (l'alta torre campanaria del duomo della città), da cui avrebbe preso il nome.
Secondo un'altra tradizione infine, furono gli antichi Romani a tramandarci la ricetta di questa ghiottoneria. Nel 116 circa a.C., Marco Terenzio Marrone il Reatino citava il gustoso "Cuppedo": "Cupeto" è ancora oggi il nome del torrone in molte zone dell'Italia Meridionale.
Anche l'etimologia del nome "torrone" ci porta dallo spagnolo turròn = abbrustolito (derivato di turrar = arrostire), al latino torrere = tostare.
sabato 18 aprile 2020
Monsignor Antonio Raimondo Tore - Un vescovo e il suo territorio di Cecilia Tasca
Un vescovo e il suo territorio:
la figura e l’opera di Antonio Raimondo Tore
(1781-1840)
di CECILIA TASCA
di CECILIA TASCA
1. Premessa
In seguito al trasferimento di Mons. Giuseppe Stanislao Paradiso presso la diocesi di Ampurias e Tempio nel 1822 , la diocesi
di Ales-Terralba rimase vacante per un lungo periodo , durante
il quale, a breve distanza l’uno dall’altro, furono nominati due
vicari capitolari: il teologo Luigi Serpi, nativo di Gonnosfanadiga (2 luglio 1822), e il teologo canonico Luigi Spiga, nativo di
Collinas (14 novembre 1823). Dopo cinque anni di vacanza, il
28 gennaio 1828 fu consacrato vescovo della diocesi, a soli 46
anni, mons. Antonio Raimondo Tore .
1 Paradiso Giuseppe Stanislao, in G. Chiosso, R. Sani (a cura di), Dizionario Biografico dell’Educazione 1800-2000, Editrice Bibliografica, Milano 2013, vol. II,
pp. 285-286; cfr. (consultato il 12 dicembre 2015), sub voce.
2 Cfr. P. Martini, Storia ecclesiastica di Sardegna, vol. III, Stamperia reale, Cagliari 1840, pp. 275, 359-367; D. Filia, La Sardegna Cristiana, vol. III, Tipografia Ubaldo Satta, Sassari 1929, pp. 285, 322-324; D. Scano, Codice Diplomatico
delle relazioni fra la Santa Sede e la Sardegna, vol. II, Arti Grafiche B.C.T., Cagliari
1941; P.M. Cossu, Fasti e falsi della Diocesi di Usellus: note storico critiche, Scuola
Tipografica Arborea, Oristano 1945, p. 82; G. Sorgia, I vescovi della diocesi di Ales
(1503-1866). Nota, in Diocesi di Ales-Usellus-Terralba. Aspetti e valori, Fossataro,
Cagliari 1975, pp. 271-286, oggi in (consultato il 12 dicembre 2015); R. Turtas, Storia della
Chiesa in Sardegna dalle origini al Duemila, Città Nuova, Roma 1999. Si rimanda
inoltre alla voce Ales, Diocesi, in S. Naitza, C. Tasca, G. Masia La mappa Archivistica della Sardegna, Marmilla, vol. 2/1, Regione Autonoma della Sardegna, Cagliari,
2004, pp. 25-30.
3 D. Filia, La Sardegna Cristiana cit., p. 285; cfr., inoltre, (consultato il 12 dicembre 2015).
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2. La figura
Antonio Raimondo Tore nacque a Tonara il 21 dicembre 1781
dal medico chirurgo Giovanni e da Anna Cabras, nipote
dell’avvocato Vincenzo Cabras che partecipò ai moti rivoluzionari del 17944
.
Il giovane Raimondo ricevette i primi insegnamenti di latino
dal proprio parroco, dott. Michele Porru, e, all’età di 9 anni, fu
condotto a Cagliari dove compì i due anni di ginnasio superiore, fece in altri due anni gli studi liceali e, dopo quattro anni,
conseguì la laurea in teologia.
Non potendo essere ordinato sacerdote prima dei 22 anni di
età, Antonio Raimondo passò cinque anni occupato nella sacra
predicazione, a cui era stato autorizzato, e in cui si dimostrò
pari ai migliori predicatori del regno, tanto che fu scelto per
esporre l’elogio funebre della regina Maria Adelaide nel 1802,
come anche, molti anni dopo, ebbe l’incarico di recitare
l’elogio funebre di Carlo Emanuele IV nel 1819 e quello di
Vittorio Emanuele I nel 18245
.
Celebrata nel 1805 la sua prima Messa, fu vicario parrocchiale di Atzara sino al 1808; parroco e vicario foraneo di Ari-
4 Cfr. B. Anatra, voce Cabras Vincenzo, in Dizionario biografico degli italiani, 15,
1972, (DizionarioBiografico) (consultato il 12 dicembre 2016); A. Cabras, Vincenzo Cabras, in (consultato il 12 dicembre 2015).
5 R. Bonu, Mons. Antonio Raimondo Tore, «Tonara», 1948, in (consultato il 12 dicembre 2015). Cfr.
inoltre Rassegna storica del Risorgimento, Biblioteca Universitaria di Cagliari,
p. 239, in (consultato il 12
dicembre 2015): elogio funebre del re Vittorio Emanuele I, recitato nella chiesa
cattedrale di Oristano il 4 marzo 1824 dal canonico Antonio Raimondo Tore, vicario capitolare della Diocesi; si tratta probabilmente dell’abbozzo originale con diverse correzioni e cancellature (G. 4, 1 bis, 6 ter).
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tzo sino a 1814 e parroco di Sorgono sino al 18206
, anno in cui
fu nominato canonico teologale dall’arcivescovo di Oristano
mons. Giovanni Antioco Azzei.
Alla morte di quest’ultimo, il 14 dicembre 1821, il canonico
Tore fu eletto vicario capitolare, «ufficio che esplicò con grande zelo»
7
.
L’8 settembre 1827 il Capitolo di Ales ebbe notizia della sua
nomina a vescovo della diocesi attraverso una lettera in cui egli
stesso dispensava i canonici dal fargli visita e dall’apostrofarlo
con la tradizionale arringa8
. Il 23 settembre, il Capitolo di Ales
gli rispose accettando la dispensa e congratulandosi per la sua
nomina, con espressioni di ossequio e di vivissimi auguri9
.
L’11 marzo 1828 mons. Tore ebbe la solenne preconizzazione concistoriale10, e due mesi dopo, il 25 maggio, fu consacrato in Bosa da mons. Francesco Maria Tola. Il 4 giugno 1828
faceva il suo ingresso solenne in Ales11
.
6 Diocesi di Ales-Terralba, Memorie del passato. Appunti di storia diocesana di
Mons. Severino Tomasi pubblicati su Nuovo Cammino dal marzo 1954 al gennaio 1960 (di seguito Memorie del passato), vol. I, Carta Bianca, Villacidro
1997, pp. 153-154.
7 A. Tore, Lettera circolare ai fedeli di Oristano, per il S. Giubileo, Cagliari 1826;
Epistola ad clerum et populum dioec. Usellensis et Terralbensis, Tip. Reg., Cagliari 1828.
8 AS Ca, Regia Segreteria di Stato e di Guerra, Serie II (di seguito AS Ca, SS II s),
vol. 435 (Regie nomine di Arcivescovi e Vescovi, 1791-1848), 61, I, 9 settembre
1827. Corrispondenza sullo stato dei fondi della vacante Mitra di Ales, e ivi, 61,
II, 15 settembre 1827. Mons. Tore ringrazia per la nomina al R. economo della
vacante di Ales. Per i fondi archivistici cfr. F. Loddo Canepa, Inventario della
Segreteria di Stato e di Guerra dell’Archivio di Stato di Cagliari, Società nazionale per la storia del Risorgimento italiano, Roma 1934.
9 AS Ca, SS II s, vol. 451 (Regie nomine di Arcivescovi e Vescovi, 1791-1848),
17, XXIII, 8 novembre 1828, Nomina dell’Arcivescovo Bua e Tore, e ivi, vol.
435, 14 novembre 1827, Mons. Tore informa il Randacci della sua nomina.
10 Ivi, 17, XLVIII, 11 marzo 1828, Preconizzazione al Vescovo di Ales.
11 D. Filia, La Sardegna Cristiana cit., p. 285.
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3. L’opera
Poche settimane dopo, il nuovo vescovo si trasferì a Villacidro,
come consueto, per la stagione estiva e autunnale; e da quel palazzo, mentre si preparava alla sua prima Visita pastorale, scriveva frequenti lettere per dare alla diocesi il vigoroso impulso del
suo governo.
Il 4 luglio esortava il clero a versare sollecitamente i donativi
dovuti al regio governo; il 20 agosto invitava clero e popolo a
contribuire per la fondazione di un ‘Collegio Generale’ in Cagliari; il 1° gennaio 1829 scriveva un’altra lettera ai fedeli della diocesi perché contribuissero generosamente per la costruzione della
‘strada massima’ della Sardegna, che dalla piazza Carlo Felice di
Cagliari doveva arrivare fino a Sassari12
.
Oltre allo spirito di collaborazione con l’autorità civile per il
benessere materiale dell’isola, mons. Tore esplicava, contemporaneamente, le sue premure per il progresso spirituale della diocesi, come ebbe modo di fare anche nella Sacra visita, iniziata a Villacidro il 5 novembre, proseguita a Gonnosfanadiga, Fluminimaggiore, Arbus, Guspini, Pabillonis entro dicembre dello stesso
anno, ma conclusa nelle restanti parrocchie solamente alla fine del
successivo mese di maggio13
.
Nonostante la salute malferma, mons. Tore teneva sempre
vigile la sua attenzione «agli interessi soprannaturali delle anime, e provvedeva con ogni diligenza alla perfetta disciplina del
suo clero». Quando egli giunse, trovò in diocesi centocinquanta
sacerdoti. Soltanto in Ales ve ne erano trenta: diciotto canonici
e dodici beneficiati. Il Seminario aveva per preside il canonico
Antioco Ibba di Ales, per economo il beneficiato Francesco
Secchi di Mogoro, per professore di Filosofia e Teologia il teologo Francesco Frongia di Samugheo, per insegnante di Sintas-
12 Memorie del passato cit., p. 155.
13 Archivio Storico Diocesano di Ales (di seguito ASDA), Archivio del Capitolo
della Cattedrale (di seguito ACCAL), Visite Pastorali, 3/19, Circolari del 15 novembre 1828 e del 24 e 31 marzo 1829.
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si il chierico Pasquale Concu di Arcidano, per maestro elementare il chierico Alessio Floris di Oristano, incardinato ad Ales.
Gli alunni del Seminario erano undici. Il decano del Capitolo
era il nobile don Cosimo Cao di Cagliari. Il cancelliere vescovile non era un sacerdote, ma un pubblico notaio, Raimondo
Soru di Pau; il vicecancelliere, detto applicato, era un altro secolare: il notaio Michele Figus di Morgongiori.
Con parola franca e senza sottintesi, mons. Tore diceva a
tutti, e molto più ai suoi sacerdoti, ciò che sentiva nell’animo.
In tempi in cui si solevano fare tre anni di Teologia o anche
soltanto due, egli scriveva al chierico Francesco Moi che non
gli poteva conferire i sacri Ordini senza conoscerlo, se voleva
essere ordinato avrebbe, perciò, dovuto compiere un quarto anno di Teologia ad Ales. Al parroco di Arbus, Sisinnio Massenti
di Sardara, rimproverava di non aver mandato un sacerdote a
celebrare la Messa a Santadi. E in quello stesso anno mandava
la scomunica da pubblicarsi in chiesa ad Arbus, perché nella
notte precedente al 16 ottobre 1833, alcuni ladri, rompendo la
serratura della sagrestia, avevano rubato la grande artistica
lampada d’argento14
.
Di tutte le attività delle parrocchie mons. Tore voleva essere
messo al corrente, e a tempo opportuno non mancava di intervenire per dare le sue direttive; era inoltre molto geloso
dell’onore e del decoro dei suoi sacerdoti. Al rev. Antioco Efisio Casu, che in Mogoro aveva dato una porzione della sua casa in affitto a un taverniere con relativa bottega, mons. Tore
scrisse il 25 febbraio 1830 che si recasse al Convento di San
Gavino e vi stesse in raccoglimento fino a suo nuovo ordine. Il
1° gennaio 1832 spedì, da affiggersi nelle sagrestie parrocchiali, il seguente decreto:
Incorreranno nella sospensione a divinis ipso facto i sacerdoti nei
seguenti casi:
14 Memorie del passato cit., pp. 191-192.
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– Se avanti di celebrare la prima Messa del mattino festivo non
abbiano recitato col popolo il credo, il Padre Nostro, i comandamenti di Dio e della Chiesa, i sette sacramenti e gli Atti di Fede,
Speranza, Carità e Contrizione.
– Se, camminando entro il paese, il sacerdote non sia vestito
dell’abito talare e se fuori del paese, andando anche a cavallo,
non porterà il capello proprio dei sacerdoti con le falde piegate a
triangolo.
– Se ardirà con la zappa o con l’aratro o con qualsiasi strumento
agricolo lavorare il campo o la vigna. Gli sarà permesso soltanto
usare le forbici o il potatoio per tagliare i rami inutili degli alberi
nel giardino.
– Se entro lo spazio di ventiquattro ore non avrà passato a registro, con tutte le particolarità da annotarsi, i nomi dei bambini che
avrà battezzato, o dei matrimoni a cui avrà assistito, o dei defunti
che avrà accompagnato alla sepoltura.
– La stessa sospensione incorrerà il Parroco che dal 2 gennaio
entro la domenica precedente alla Quaresima non abbia preparato il Registro di anagrafe, ossia Stato d’Anime del nuovo anno, o che entro la terza domenica dopo la Pasqua abbia trascurato di riferire al Vescovo i nomi di coloro che hanno tralasciato di adempiere all’obbligo Pasquale.
– Dato in Villacidro 1° gennaio 1832. Antonio Raimondo Vescovo15
.
4. Il Seminario Tridentino
Una delle cure più attente fu quella che mons. Tore rivolse al
Seminario. Non era ancora passato un anno dal suo ingresso in
Ales quando, l’11 aprile 1829, scriveva al cav. Giuseppe Manno, suo amico:
Caro Manno, il nostro Seminario ha bisogno di un ampliamento dei locali, per poter ricevere i nuovi allievi; e bisogna anche
15 Ibidem.
65
crescere il numero dei maestri. Credereste Voi che in un Seminario Tridentino non vi sia destinato un Direttore Spirituale
e non vi sia neppure una Cappella Domestica, tanto da dover
mandare ogni giorno gli alunni in Cattedrale per ascoltar Messa? Eppure in Ales è proprio così16
.
Al recente edificio di pianta rettangolare (fabbricato negli
anni 1825-1826) non era stata ancora aggiunta la parte contenente la cappella con sottostante refettorio e con soprastante sala di studio. Ed erano questi gli ampliamenti a cui mons. Tore
aspirava17. Intanto egli volle subito una cappella, ricavandola,
pare, da una delle camere già esistenti. Il 6 luglio 1831scriveva
una lettera al canonico Antioco Ibba, preside del Seminario,
compiacendosi perché «si stanno dando le tinte alla cappella
del Seminario e si sta abbellendo la statua di San Luigi Gonzaga, in onore del quale ogni anno, d’ora innanzi, in Seminario si
farà la festa, ed un chierico di teologia terrà il panegirico».
Lo stesso giorno inviava una lettera al sacerdote Giuseppe
Scano Piano e gli dava l’incarico di direttore spirituale dell’Istituto, impegnandosi a trovare ogni mezzo per rinforzarne le finanze, come si evince da un suo scritto del successivo 28 luglio:
Fin dai primi di gennaio del presente anno ho presentato a Sua
maestà il re il mio progetto per un accrescimento di dotazione
al mio Seminario Tridentino di Ales, per lo scopo di potervi
accettare il numero di ventiquattro alunni e potervi collocare
dei valenti precettori, che li istruiscano nelle divine ed umane
scienze. Per l’accrescimento della dote del Seminario proposi
al Sovrano in primo luogo l’applicazione per dieci anni dei
frutti decimali della Rettoria di Gonnoscodina, ora vacante per
la morte del Rettore Francesco Atzori, avvenuta nell’anno
1827: applicazione che si comincerà dai frutti del 1830, perché
16 Ivi, pp. 188-189.
17 AS Ca, SS II s, vol. 486 (Seminari Tridentini), 1760-1840. Seminario Tridentino
di Ales, 1827.
66
quelli del 1828 e 1829 furono applicati al Regio Monte di Riscatto. E per Gonnoscodina proposi al Re che durante dieci
anni si potrebbe nominare alla Parrocchia un Vicario, dotato
bensì delle qualità necessarie, al quale si assegnerebbe per
congrua la quarta parte delle decime, nella forma che sogliono
averla i vicari delle altre parrocchie della diocesi di Usellus,
essendo altra l’usanza della diocesi di Terralba.
Il re diede il suo consenso e il papa approvò il progetto: e
così al Seminario furono concessi per dieci anni i tre quarti delle decime di Gonnoscodina18
.
Trovare i mezzi anche per l’ampliamento dell’edificio nuovo si rendeva tanto più necessario, in quanto era crollata la parte del Seminario vecchio (quello iniziato nel 1703 da Mons.
Francesco Masones y Nin, poco distante dall’abside della cattedrale)19 e non si potevano più avere neppure le camerette dei
Superiori. Scriveva infatti mons. Tore al preside don Emanuele
Orrù il 16 febbraio 1833:
Era così preveduto che quel Seminario doveva crollare. Muri
vecchi: travi aggiunti nelle due stremità per le quali venivano
infitti nei muri: tutto portava con sé il germe della distruzione
di esso. Pensiamo ora al pericolo del momento: il Rev. Figus
18 Ivi, 1827. Vacante di Ales.
19 Inaugurato il 14 maggio 1703, il Seminario ospitava inizialmente sei alunni. Si
resse attraverso le rette dei seminaristi e la tassa dell’1% applicata su tutti i benefici diocesani; fu inoltre dotato di un regolamento, dato alle stampe dalla tipografia di San Domenico di Cagliari (Constituciones del Seminario de S. Pedro,
Caller 1703); cfr. P. Tola, Dizionario biografico degli uomini illustri di Sardegna, vol. II, Tipografia Chirio e Mina, Torino 1838, p. 238. Si veda inoltre M.B.
Lai, G. Usai, Monsignor Francesco Masones y Nin, note biografiche, in Monsignor Francesco Masones y Nin, Fondatore del Seminario di Oristano, Mostra
documentaria (Seminario arcivescovile dell’Immacolata, Oristano 3-30 maggio
2007, 7 dicembre 2008-28 febbraio 2009), Scuola sarda Editrice, Cagliari 2009,
pp. 13-44, 15.
67
può star bene in casa sua, così pure il Rev. Scano, a meno che
non preferiscano ritirarsi tutti insieme con Lei in Episcopio.
Le decime di Gonnoscodina furono girate da mons. Tore a un
negoziante di Cagliari, col patto che versasse, complessivamente,
4.000 scudi, di cui metà anticipati, e si prendesse la cura di esigere
le decime per dieci anni. Il contratto fu steso in questi termini:
Ales addì 11 marzo 1833. Con la presente scrittura il sottoscritto
Vescovo di questa Diocesi di Ales per parte di questo Seminario
Tridentino dà e concede a titolo e causa di appalto e per lo spazio
di dieci anni da cominciare dal primo giorno dello scaduto mese
di gennaio corrente anno e da terminare all’ultimo giorno di dicembre dell’anno 1842 tutti i frutti maggiori e minori, della prebenda e Rettoria vacante di Gonnoscodina, che apparterrebbero al
Rettore e sono stati con Bolla pontificia applicati per dieci anni al
Seminario Tridentino per lo scopo di fabbricarvi, in applicazione
dei locali presenti, ed il sopraddetto Vescovo li dà al Signor Salvatore Rossi di Antonio negoziante della città di Cagliari per il
prezzo e fitto, tra di loro di buon accordo convenuto, di scudi 400
annui, che per anni dieci formano la somma di 4000. Di questi però, per patto espresso, tra loro accordato, il suddetto negoziante
Rossi si obbliga di pagarne anticipatamente, subito, scudi 2000 al
sottoscritto Vescovo, onde metterlo in grado di principiare a fabbricare nel Seminario. E per i rimanenti duemila il detto sig. Rossi
si obbliga di corrisponderli annualmente nella proporzione che
spetta a ciascun anno, in due rate distinte, vale a dire nei primi di
ciascun mese di giugno e di ciascun mese di dicembre. Antonio
Tore Vescovo –Salvatore Rossi negoziante20
.
I lavori di ampliamento furono iniziati subito, e il 5 ottobre
1833 mons. Tore così decretava: «il Preside Canonico Don
Emanuele Orrù anticipi al capo muratore Mastro Giovanni Mura la somma che il Seminario dispone a conto dell’importare
dell’Impresa del Seminario nuovo».
20 Memorie del passato, p. 189.
68
Ma prima ancora che il braccio fosse terminato, nuove preoccupazioni destava il fabbricato precedente, dove si erano verificate gravi lesioni; e il 14 maggio 1835 mons. Tore ebbe a scrivere di
suo pugno in un registro del Seminario:
I deputati del Seminario sono incaricati di chiedere i conti all’ex
Preside Canonico Antonio Ibba; il che è tanto necessario in
quest’anno, nel quale, dovendosi riattare il fabbricato dello stesso Seminario – che malamente costruito minaccia rovina – e
dovendosi forse abbandonare per tornare al Seminario vecchio –
per accomodare anche questo conviene riunire tutte le somme di
denaro che si possono riunire.
Nonostante il crollo del 1833, mons. Tore non si rassegnava
ad abbandonare i locali del Seminario vecchio perché, come
aveva scritto al Manno, voleva ricavarne una casa per esercizi
spirituali. L’idea era buona «e dimostra quali nobili intenti
avesse il pio Vescovo; ma l’edifizio non era idoneo e non poté
cavarsene nulla»21. Tutte le cure dovevano ormai essere rivolte
al Seminario nuovo: e nel gennaio 1837 mastro Giovanni Mura
era ancora intento a quella fabbrica, i cui lavori non volgevano
ancora al termine, neanche quando mons. Tore, ormai traslato a
Cagliari, rimase amministratore apostolico della diocesi22
.
5. Le Scuole elementari e i Campisanti
Negli anni 1832-1835, vincendo ogni resistenza e indugio,
mons. Tore fondò in tutte le parrocchie della diocesi le Scuole
elementari. Chiamate dapprima ‘Scuole Normali’, lo stesso re
Carlo Felice, che ne desiderava l’istituzione, ne indicò il programma: «insegnare a leggere, scrivere e conteggiare; dare
21 Ivi, p. 190.
22 D. Filia, La Sardegna Cristiana cit., p. 322.
69
istruzione sul modo di coltivare la terra; ed insegnare la dottrina cristiana»23
.
Da Villacidro, in data 24 ottobre 1832, il vescovo emanò
una lettera pastorale in cui, dopo aver opportunamente trasferito a nuova sede diversi sacerdoti, dettò le norme per l’istituzione delle Scuole Inferiori in ciascun paese della diocesi, e
ordinò che non più tardi del 16 gennaio 1833 «l’insegnamento
fosse dovunque in concreta e perfetta efficienza». A questo
scopo nominò 41 maestri vescovili, uno per ogni parrocchia.
Erano tutti giovani sacerdoti, maggiormente nei paesi più grossi e impegnativi, come Guspini, Mogoro, Gonnosfanadiga e
San Gavino, dove egli destinò per maestri elementari giovani
chierici; dove non poté avere chierici scelse dei giovani viceparroci, o qualche parroco giovane; rassegnandosi all’insegnamento di sacerdoti anziani soltanto nei paesi molto piccoli. Negli anni successivi alla fondazione delle Scuole, col moltiplicarsi delle classi e degli alunni furono aggiunti altri sacerdoti e, gradatamente, si accettò l’insegnamento di maestri laici,
per i quali il comune prima, e poi il governo, garantirono la retribuzione24
.
In quegli stessi anni, impegnato su più fronti contemporaneamente, mons. Tore risolse un altro annoso problema per la diocesi: la realizzazione dei Campisanti. Invero, che le sepolture dei defunti dovessero farsi in ‘Campi Santi’ fuori dell’abitato fu ordinato da mons. Tore già in una sua pastorale del 6 febbraio 1830.
Una seconda lettera del 22 agosto successivo, inviata a tutti i parroci della diocesi, annunciava:
Per ordine pervenutoci da Sua Eccellenza il Vice Re con dispaccio del 15 corrente, ordiniamo che nei villaggi, ove è già
eretto il Campo Santo fuori della popolazione, si seppelliscano i
23 ASDA, ACCAL, Ordinarium 17/183, Corrispondenza Scuole normali della
Diocesi (1835-36).
24 Ibidem.
70
cadaveri solamente in quello, senza distinzione di persone,
comprensivi anche i sacerdoti.
Lo stesso ordine egli reiterò con altra missiva del 3 settembre 1836. L’obbedienza a queste disposizioni si concluse, però,
con molti ritardi, a causa della difficoltà di ottenere i terreni, e
degli accordi che i parroci dovevano prendere con le autorità
comunali25
.
6. La ‘fabbrica’ della chiesa di Terralba
Non meno incisivo fu l’impegno che il vescovo Tore infuse
nell’annosa ristrutturazione della chiesa di Terralba, i cui lavori, dapprima per la morte di mons. Paradiso (25 luglio 1822) e
quindi del vicario Ignazio Botto (20 marzo 1825), furono ripetutamente interrotti, certamente per mancanza di denari. Il 1°
gennaio 1826, il vicario capitolare nominava nuovo vicario di
Terralba il canonico Giovanni Paderi di San Gavino. Era allora
consuetudine che, sede vacante, le decime dei paesi di Mensa
vescovile, nei primi due anni di vacanza fossero devolute
all’Istituto caritativo dei Monti di Soccorso; negli anni successivi se ne conservava l’importo a favore del futuro vescovo, a
meno che non si fosse ottenuto il permesso del re e l’indulto
del papa per devolverlo alla fabbrica di una chiesa. Per Terralba questo indulto fu chiesto troppo tardi, quando già era imminente la nomina del nuovo vescovo. Perciò il papa Leone XII,
avendo preconizzato a vescovo di Ales mons. Tore nel Concistoro del marzo 1828, nella Bolla del 28 marzo di quell’anno
gli attribuiva le decime del 1824, 1826 e 1827, però con l’onere
di versare ogni anno 300 scudi alla fabbrica della chiesa di Ter-
25 Ivi, Mons. Tore, Ordinarium, 17/184, Corrispondenza sulla creazione dei nuovi
Campi Santi (1835-36).
71
ralba fino a totale rimborso delle decime stesse26
. Era perciò naturale che mons. Tore, dovendo tanto contribuire, avesse a cuore
il completamento dell’edificio, e quando il vicario Paderi l’8 ottobre di quell’anno gli comunicò di aver organizzato le Roadie,
facendo sapere che si sarebbe cominciato a lavorare subito, egli
rispose, l’11 ottobre, approvando l’iniziativa e manifestando la
sua fiducia che nella prossima primavera si sarebbe arrivati a fare tutto il tetto del corpo della chiesa. Ma il Paderi non doveva
vedere compiuto questo lavoro: trasferitosi per ragioni di salute
a San Gavino, vi morì pochi giorni dopo il suo arrivo, il 24
maggio 1829. Venne a sostituirlo, come vicario, il dottore in
utroque rev. Ignazio Murgia di Guspini che fu parroco di Terralba fino al 1837 quando fu nominato parroco di Ales, e qui
morì all’età di 40 anni, poco tempo dopo il suo arrivo, il 27
marzo 1837.
Nel 1829 il Murgia, già segretario del vescovo, veniva mandato a Terralba appunto perché di fiducia di mons. Tore, per
collaborare con lui al proseguimento della fabbrica; e il vescovo gli scriveva il 22 giugno facendogli i suoi auguri «ad multos
annos». Vinte tutte le difficoltà e i ritardi, nel 1830 si lavorò
tutto l’anno27. Nel corso dei lavori si cambiarono alcuni punti
del progetto, come si evince dal collaudo dell’opera fatto il 27
aprile 1831.
Vi furono, poi, le spese per i marmi, perché tutte le cappelle
dovevano avere i loro altari e la loro balaustra. I contratti furono fatti col marmista genovese Francesco Cucciari, ma al momento delle consegne sorsero delle controversie, per cui si dovette andare in lite: la commissione della fabbrica si rifiutava di
pagare perché mancavano diversi pezzi di marmo per il completamento delle balaustre; il marmista pretendeva il pagamento, perché la quantità del marmo era quella corrispondente al
26 AS Ca, SS II s, vol. 435, 17, LXI, 22 aprile 1828, Fabbrica per la Parrocchia di
Terralba; ivi, vol. 497 (Nuove chiese. Ristaurazione delle medesime), Diocesi di
Ales 1797-1841.
27 Ivi, vol. 497, Nuove chiese.
72
contratto. E si dovette venire a una transazione, riconoscendo
che nelle cappelle erano state fatte delle varianti dopo che il
marmista aveva già preso le misure del marmo.
Deduciamo tutto ciò da una fitta corrispondenza: da Ales, il
1° maggio 1833, mons. Tore scriveva all’architetto Giovanni
Basso:
Il Signor Cucchiari è stato cortese di avvisarmi che, avendo finito la sua lite, è vicino a partire: in continente. Io gli ho scritto
che lei gli avrebbe parlato sui pezzi di marmo che ha portato di
meno per la barandilla di Terralba (…) Si ricordi dei danni
che va a soffrire la mia chiesa di Lasplassas per non aver potuto ancora ottenere da lei il piacere di venire a collaudare
quell’opera, che deve essere rimediata a spese dei muratori.
Nella stessa data egli scriveva anche al sig. Cucchiari:
Io non la credevo più in Sardegna, e perciò soltanto oggi scrivo
al Signor Basso perché parli con lei riguardo i pezzi di marmo
che mancarono per quella barandilla di Terralba; ed io le dico
che, tornando a Genova esamini bene fino a qual punto mi può
essere cortese per fare gli altari delle cinque cappelle ed il fonte
battesimale di Terralba e l’altare per la chiesa di San Daniele di
Gonnoscodina. Lei può ben comprendere che desidero avere altari eleganti28
.
Da Cagliari, il 12 maggio 1833, il Cucchiari così rispondeva:
Ho finito la mia lite con un taglio doloroso, ma che finalmente
mi toglie ogni ulteriore fastidio. Permetta che le ricordi che
non furono già mancati i pezzi di marmo per la chiesa di Terralba, bensì mancò l’identità nel sito in cui devono essere collocati da quando io presi le misure e formai il disegno. Perché
il pavimento delle cappelle fu rialzato di un gradino di più.
Perciò non mi sono adattato a rimediare questo mio difetto per
28 Memorie del passato, p. 230.
73
il tenuissimo prezzo di trenta “colonnati”, e consegnando i
nuovi marmi in darsena a Cagliari. Ma li farò eseguire con la
condizione accettata dal Signor Basso, di essere immediatamente pagato alla consegna che ne farò in Genova, restando il
trasporto a suo carico29
.
7. La malattia
Mons. Tore fu un vescovo giovane e di bella presenza, come
può vedersi nel ritratto ancora oggi conservato nell’Aula Capitolare; fu attivo ed energico, ma di poca salute. Sano nei suoi
primi 45 anni d’età «arrivò tuttavia all’episcopato già logoro di
energie fisiche, per il troppo lavoro e per la mancanza di sonno
e di nutrizione, a cui volontariamente si sottometteva»
30
.
Il 6 aprile 1833, da Ales, così scriveva al sacerdote Giuseppe Maria Zucca di Baressa dimorante a Roma: «Scrivo dal letto, ove mi trovo da 13 giorni per rimediare al danno di un salasso fattomi ad un piede da un imperito flebotomo». Il 16 aprile comunicava al notaio Efisio Piras Meloni: «Sono inchiodato
al letto dal lunedì di Passione». Quell’anno, infatti, non poté
compiere le sacre funzioni della Settimana Santa, né il Pontificale di Pasqua, né la consacrazione degli Oli santi.
Il 1° maggio 1833 comunicava al rettore di Aritzo don Vargiu:
Sono ancora a letto in Ales: non è ancora rimarginata la piaga
del mio piede, e nei quattro o cinque giorni in cui per qualche
ora ho tentato di alzarmi, non potevo fermare il piede sul pavimento e mi si gonfiava tutta la gamba. Le disgrazie accadutemi nel solo giro di un mese sono così molteplici e tanto
grandi, che non ve le posso spiegare. Sicuramente che mi trovo anche impacciato per non sapere dove passare l’estate e
l’autunno. Non voglio rischiare la vita rimanendo in Ales – in
Villacidro il palazzo è in via di restauro – e altro luogo di aria
29 Ivi, p. 231.
30 Ivi, p. 179.
74
buona nella Diocesi non ve n’è. Quindi se troverò qualche angolo in Villacidro stesso, ove possiamo stare tutta la famiglia,
che è composta da diciassette persone, andrò lì, perché l’aria
mi quadra; e sarebbe anche bene per sorvegliare la restaurazione del palazzo. Se questo non mi riuscirà, farò una divisione: dodici andranno lì, ed io con due preti e tre servitori andrò
fuori diocesi; e se trovo casa in Laconi non andrò sicuramente
al mio paese Tonara.
Il 14 dello stesso mese annunciava al rettore di Tonara: «Io sono tuttora inabile a passeggiare sin anche dentro la stanza, dopo
due mesi incirca dacché l’imperito flebotomo mi ha dato quella
crudele stoccata; ed in questa settimana scorsa, vedendo che la
piaga si esacerbava e andava a chiudersi il vuoto, ho chiamato Padre Atanagio Spedaliere, che mi assiste tuttora e che mi ha procurato nuovo scolo alla ferita con cerotti emollienti».
Le cure della piaga non ottenevano buoni risultati, la guarigione andava a rilento e le condizioni generali del suo fisico
apparivano preoccupanti. Il 22 maggio scriveva ancora al rettore di Aritzo:
Io sono in letto e sotto la cura di Padre Atanagio. Egli mi fa
sperare che fra poco potrò andare in Villacidro, per vedere i
fatti miei. Ma anche andando lì, non posso dire che se vi farò
permanenza per la state ed autunno, non avendo luogo ove abitare con un po’ di calma.
Il 3 giugno comunicava al rettore di Guspini, Giuseppe Floris:
«La mia piaga non è guarita, non ha scolo da quattro giorni; ma
se mi alzo da letto, si gonfia nuovamente».
L’11 giugno, infine, arrivato a Villacidro, informava il Rettore Vargiu di Aritzo: «Sono venuto parte a “tracca” e parte a
carrozza, ma gli sbalzi della strada mi hanno pestato le ossa e
mi hanno scosso tutto il fisico31
.
31 Ivi, p. 180.
75
A Villacidro, mons. Tore non trovò possibilità di soggiorno,
essendo la casa in disordine per la presenza dei muratori; dovette allora trasferirsi a Tonara, suo paese natio. Ma proprio lì
«trovò quelle febbri che aveva temuto poter contrarre ad
Ales»
32
. Scriveva il 14 settembre 1833:
Fui ammalato in casa mia, di febbri perniciose, dal 24 luglio
all’ultimo di agosto. Io mi considero come morto fin dal 2
marzo, in cui caddi ammalato in Ales: risorto in luglio per poco tempo; son morto un’altra volta per una seconda malattia
che ho fatto a Tonara, e risorgo gradatamente adesso.
Non passò un anno, ed eccolo ancora gravemente ammalato.
Il 1° ottobre 1834, infatti, così scriveva al teologo Agostino
Floris, rettore di Uras: «Mi sono alzato da letto sabato scorso
da una pericolosissima infermità di 19 giorni»33
.
Tra i gravi danni che mons. Tore dice essergli accaduti
nell’anno 1833 nel breve giro di un mese – precisamente nel
mese di marzo – è da annoverarsi anche il crollo di una parte
del palazzo vescovile di Villacidro. Il 20 novembre 1833 già si
compiva il sesto mese dacché erano iniziati i restauri e in quella data egli scriveva al clero della diocesi
gli esami di confessione non potranno tenersi, come altre volte
in Villacidro, a causa del crollo che ha sofferto l’Episcopio, alla di cui restaurazione si sta lavorando da circa sei mesi. Non
c’è rimasto locale ove poter dare alloggio ai nostri signori
Esaminatori.
Del resto una parte del palazzo era provvisoriamente affittata al signor Sogno di Villacidro; e in altra parte viveva, insieme
con alcuni servitori, un sacerdote fiduciario del vescovo, il rev.
Giuseppe Antonio Dessì, nativo di Tonara.
32 ASDA, ACCAL, Mons. Tore, Ordinarium, 17/185.
33 Memorie del passato cit., p. 180.
76
Mons. Tore, malato in Ales, scriveva fin dal 17 aprile al suo
amico Antonio Orrù: «Dovendo fare grandi spese per rimediare
al danno, sofferto nel palazzo di Villacidro, mi bisogna radunare tutte le somme che esistono presso i collettori delle decime a
me spettanti». Intanto gli giungeva una lettera del rettore di Aritzo Don Vargiu:
Intesi dire della caduta di una parte del palazzo di Villacidro e
non lo credetti a motivo che mi pareva difficilissima una tale
rovina, atteso il sito il fabbrico e il terreno e non so ancora
comprendere come possa essere ciò accaduto né in qual parte.
Comunque sia bisogna aver pazienza e Vostra Signoria ha un
cuore superiore a qualunque avvenimento. Non potendo estivare in Villacidro, col risparmio che farà negli ospiti supplirà
una parte della spesa per il riparo del palazzo. È vero che pensa di venire a Tonara?
Il vescovo non era ancora in grado di muoversi per la piaga
del piede; ma un po’ al tavolino, un po’ dal letto, scriveva ininterrottamente per assicurarsi che i lavori del palazzo «si progettassero con ogni avvedutezza e si eseguissero con ogni risparmio allo stesso tempo che con ogni miglior regola d’arte»
34
.
Eppure, alla fine dell’anno, la ristrutturazione non era completata, e una nuova battuta d’arresto metteva a dura prova la
sua pazienza. Lo desumiamo da quanto, il 10 dicembre, scriveva al decano Cosimo Cao:
Sono immerso di nuovo in afflizione, perché Domenica, mentre eravamo a pranzo, è crollata quasi la metà del nuovo fabbricato che si stava ultimando alla parte del giardino, con pericolo che crollasse anche il muro vecchio del palazzo. Ma ne
sono risentito anche nel fisico, tanto che non sono in istato da
scriverle di pugno.
34 Ivi, p. 182.
77
Ciò nonostante, mons. Tore riprese il lavoro da capo. Nella
primavera successiva i lavori furono finiti, e nell’estate 1834 il
palazzo fu nuovamente abitabile. L’11 ottobre 1834, egli poteva finalmente annunciare che gli esami dei sacerdoti, per il rinnovo delle facoltà per le confessioni, si sarebbero tenuti nel
rinnovato palazzo di Villacidro35
.
8. L’impegno per i Monti di soccorso
Pur convalescente ma sempre cagionevole, mons. Tore non
cessava da una continua attività. Con lettera pastorale dell’8
marzo 1834 indiceva la seconda Visita pastorale e preparava
gli animi al Sinodo diocesano, già abbozzato, ma non portato a
compimento.
La stessa Visita, durante la quale egli si proponeva di recarsi
in tutte le chiese, le scuole e i monti di Soccorso36, regolarmente iniziata il 10 aprile a Lunamatrona, non fu conclusa. Visitati
i 18 villaggi ‘di dentro’ (Lunamatrona, Pauli Arbarei, Siddi,
Ussaramanna, Baressa, Turri, Genuri, Usellus, Sini, Morgongiori, Setzu, Las Plassas, Mogoro, Masullas, Uras, Gonnosnò,
Siris e Pompu), il programma prevedeva, il 2 giugno, il rientro
a Villacidro per il riposo estivo, per poi riprendere dal successivo novembre, percorrendo l’itinerario di San Gavino, Sardara, Collinas, Villanova, Gonnostramatza, Gonnoscodina, Simala, Curcuris, Zeppara, Ollasta, Escovedu, Tuili e Ales, con riserva di inviare un delegato a visitare Baradili, Bannari, Pau e
Arcidano.
35 Ivi, p. 187.
36 Per i quali si rimanda ai recenti lavori di C. Tasca, in particolare Monti granatici,
frumentari e di soccorso nella Sardegna spagnola e sabauda: stato degli studi e
nuove linee di ricerca, in F. Atzeni (a cura di), La ricerca come passione. Studi in
onore di Lorenzo del Piano, Carocci, Roma 2014, pp. 221-248, e alla bibliografia
ivi citata. Per un approfondimento sui Monti di Soccorso della Diocesi di Ales si
veda anche R. Ibba, I monti granatici in Sardegna: l’esperienza della diocesi di
Ales-Terralba, «Rivista di Storia dell’Agricoltura», 51, 2011, pp. 45-100.
78
Essendosi ammalato nel viaggio da Mogoro a Uras, con lettera del 26 maggio mons. Tore comunicò alla diocesi che doveva rientrare in sede, e modificare poi l’itinerario.
La Visita pastorale non fu, però, mai terminata a motivo del
suo trasferimento nell’archidiocesi di Cagliari a seguito del decesso di mons. Navoni, il 22 luglio 183637
.
L’improvvisa malattia che lo colse nel pieno della Visita pastorale, non impedì a mons. Tore di emanare – per ciascuno dei
18 paesi ispezionati dal canonico Priamo Pisu, delegato speciale
sopra i monti di Soccorso della diocesi – specifici provvedimenti
che, racchiusi in un prezioso fascicolo di 42 carte suonano, oggi
come allora, quale durissima condanna contro il «poco zelo» di
quegli amministratori laici e religiosi che «mal interpretando il
prescritto nei Regi Regolamenti dei Monti di Soccorso di questo
regno, soprattutto quelli dei 4 settembre 1767, dei 22 agosto
1780, e del pregone 10 novembre 1818», erano incorsi in gravissimi «errori, frodi, abusi e mancamenti»38
.
Ma considerando noi, che anche l’occhio più vigile delli amministratori può venire ingannato dalla furberia dei contribuenti vassalli, ne diamo più che a loro, a quelli la colpa (…) ci astenghiamo perciò di entrare in così malagevole e disgustoso esame39
. Il trasferimento alla Diocesi di Cagliari
Il Filia ricorda, a questo proposito: «Avendovi rinunziato
Mons. Bua, fu promosso alla primaziale sede Cagliaritana Don
Antonio Tore Vescovo di Ales, di cui conservava l’amministrazione. Fece l’ingresso nel Duomo di Santa Cecilia il 2
agosto 1838, ma così logorato anzitempo da infermità che il
suo compito si limitò a soffrire, e sospirare il Cielo. Fecondo
sacrificio anche questo»
40
.
Il Catalogus archiepiscoporum, su mons. Tore, fra l’altro dice:
«Grandi cose ci speravamo dal suo zelo pastorale e dalla sua
munificenza, ma dopo gli strazi di lunga infermità, che sopportò con grandissima pazienza, scambiò questa vita con quella
immortale il 9 marzo 1840»
41
.
Suo successore alla Chiesa di Cagliari fu nominato, nel 1842,
don Emanuele Marongio Nurra, primo canonico turritano ad
ascendere alla cattedra cagliaritana42
.
Antonio Raimondo Tore morì a Cagliari a 59 anni, subito dopo
aver avviato i lavori di ristrutturazione della Cattedrale, consistenti, in parte, nella «traslocazione della balaustrata ed accomodo
della Cappella del re Martino» cui lavorò anche Gaetano Cima,
come apprendiamo da una ricevuta rilasciata al Capitolo cagliaritano dal noto architetto, per Lire 190 e centesimi 1, in data 27
marzo 184043
.
L’Archivio Capitolare di Ales conserva, fra gli atti dello
«Spolio» di mons. Tore, gli inventari dei suoi effetti personali e
della sua ingente biblioteca44; ma anche i preziosi elenchi dei
40 D. Filia, La Sardegna Cristiana cit., p. 322.
41 R. Bonu, Mons. Raimondo Tore, in (consultato il 12 dicembre 2015).
42 D. Filia, La Sardegna Cristiana cit., p. 324.
43 ASDA, ACCAL, Spoglio di Mons. Tore, 1/18 (1843).
44 Poi devoluta al Comune di Tonara; ivi, Catalogo dei libri del difunto Monsig. Tore.
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paramenti e degli effetti di Cappella che, per effetto di una dichiarazione resa dallo stesso Tore il 29 dicembre 1839, «dovevano spettare alla Diocesi di Ales, perché acquistati da redditi
di quel Vescovado»45
.
Detti oggetti furono al centro di una accesa contestazione fra
il vicario capitolare di Ales e i deputati del Capitolo di Cagliari,
conclusasi di fatto solamente nella seduta del 26 luglio 184346
.
Fra gli oggetti appartenuti a mons. Antonio Raimondo Tore,
il nuovo Museo diocesano di Arte sacra di Ales espone una
pregevole pianeta «in gros de Tours laminato, ondato e ricamato e il bel parato, costituito da una pianeta, due tonacelle e un
piviale, realizzato nel 1860 dalla ditta Bertarelli di Milano in
raso avorio ricamato in fili di seta policromi»
47
.
45 Ivi, Inventaro dell’argenteria e paramenti di Cappella.
46 Ivi, Acta episcoporum, Antonio Raimondo Tore, Inventario dei mobili e
dell’argenteria di proprietà della cattedrale.
47 Il tesoro, intervento di Mons. Giovanni Dettori all’inaugurazione del Museo di
Arte sacra della Diocesi di Ales, «Nuovo Cammino», n.14, 12 luglio 2009,
(consultato il 12 dicembre 2
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