venerdì 12 marzo 2021

IL CANTO SOCIALE DI PEPPINO MEREU di Stefano Flore

Piccola antologia poetica ragionata
IL CANTO SOCIALE DI PEPPINO MEREU




 


Giuseppe Ilario Efisio Antonio Sebastiano Mereu, nacque a Tonara il 14 gennaio 1872 da Giuseppe Mereu, e da Angiolina Zedda di Cagliari.

Nel 1887, quando il poeta aveva quindici anni, muore la madre e circa due anni dopo perde il padre, medico condotto di Tonara a seguito ingestione di una sostanza velenosa, e non si capisce se la morte sia dovuta a una tragica fatalità o a determinata volontà suicida. A diciassette anni si ritrova, quindi, quarto di sette figli, senza il sostentamento paterno. La vita di Peppino Mereu, che, sen


za tanti privilegi, poteva considerarsi agiata, con la perdita dei genitori subisce una drastica svolta.

Non è difficile immaginare quanto negativamente, queste due disgrazie, in un così breve lasso di tempo, possano aver influito sul normale corso di vita dei fratelli Mereu sia dal punto di vista affettivo, che da quello economico. Può essere che questi eventi luttuosi abbiano avuto anche ripercussione sugli studi di Peppino Mereu, che sappiamo limitati alla terza elementare, anche perché non esistevano allora a Tonara classi scolastiche superiori il che non toglie che nelle sue poesie dimostri conoscenze non acquisibili solo attraverso la sua bassa scolarizzazione.

  In sintesi, il contenuto socio-culturale, l’attualità dei contenuti poetici, la metrica espressa con una carica di sensibilità non comune, la forza della sua denuncia sociale fanno di Mereu un poeta unico ed originale per i suoi tempi.

Il ritmo e la lirica nelle poesie di Peppino Mereu, la fanno da padrone, decretano le sue alte capacità di compositore che accompagnano il lettore piacevolmente dentro i contenuti meditati, spontanei, quanto profondi, del suo pensiero. I suoi versi sono piani difficilmente, nelle poesie la rima è fatta a scapito del contenuto, ma ambedue camminano in sintonia con la consapevolezza del discorso, che si distende con grande capacità narrativa:

Egli comincia giovanissimo a cantare con i poeti estemporanei di allora:

Bachis Sulis, Lorenzo Zucca, Agostino Diana e Francesco Capeddu.1 Sono questi nomi che ricorrono diverse volte tra le rime delle sue poesie e di cui purtroppo non abbiamo testimonianza alcuna circa la loro produzione poetica, che, dai versi del Mereu deve essere stata di grande spessore lirico come evidenziato in alcune sue poesie, prima fra tutte quella dedicata a Paolo Hardy:   


 

“Da-e s’altu nuraghe

cun supremu disgustu

mi meravigli’ ‘e su tou ardimentu

Lassa dormir’in paghe

su sonnu a cuddu giustu

chi de liricu summa fama hat tentu.

S’insultu est meda grave

turbare sa suave

armoni’ ‘e sos sonnos de Larentu…”

 

 

E ancora nella poesia dedicata a Tonara:

 

“Canta, canta continu,

o patria de Larent’ e de Capeddu;

de musas ses giardinu,

cara ses a Tommasu e Bachiseddu;

t’allegrat Aostinu,

ca possedit bernescu su faeddu,

cun sa musa brullana

si mustrat dignu fiz’e Peppe Egiana.”

 

Il sette aprile del 1891, compiuti i diciannove anni, non avendo altre speranze di lavoro, alla pari di molti suoi coetanei, si arruola volontario nell’arma dei carabinieri, ove rimane fino al dicembre del 1895, quando viene congedato per infermità.

Nei primi anni di arruolamento conosce le prime amarezze: viene accusato ingiustamente ed artatamente di furto da parte di un suo superiore, che la voce popolare vuole suo diretto rivale in amore. Da tale accusa il poeta viene in breve completamente scagionato ma da buon sardo conserva in fondo al cuore tutto il suo rancore anche di fronte alla tragica morte del suo avversario. Questo suo ex superiore viene trucidato a Fonni, a fine ‘800.1 In una lettera in rima del 5 luglio 1896 indirizzata al suo collega e poeta Eugenio Unali di Pozzomaggiore così commenta Peppino Mereu:

 

Bi nd’ hat in compagnia e disciplina

samben’hat fattu s’istrale fonnesa

 basada siat sa manu assassina.

 

No t’indignet sa mia cuntentesa

chi dimustr’in basare cudda manu

chi sever’hat punidu sa vilesa

 

Peus pro chie de cor’es villanu

daghi est soldadu ponet in olvidu

chi su soldadu det essere umanu.

 

         Ma è proprio il periodo di arruolamento nell’arma quello in cui Peppino Mereu acquisisce una forte consapevolezza sociale, forse grazie ai contatti con le miserie umane della Sardegna di allora, una prossimità che lo vede, suo malgrado, testimone e protagonista impotente. Attraverso le sue poesie, ci fa pervenire passionali e temerari versi, quasi un invito alla rivolta contro le ingiustizie ed i patimenti del popolo sardo. In qualche strofa chiama in causa proprio i carabinieri, a testimoniare che la Benemerita non era, in quei tempi evidentemente, un grande esempio di giustizia.3

 

 Deo no isco sos carabineris

 in logu nostru proite bi sune

E no arrestant sos bagarruteris

 

         Nella stessa poesia del 1892, dedicata all’amico Nanni Sulis, sembra insita la consapevolezza del poeta - carabiniere di due diversi “modelli” di giustizia, una severa per i poveri ed una tollerante o assente per i furbi e potenti:

 

Viles ch’ant meritadu sa cadena

Sa giustissia puru hana trampadu

Gai s’ant infrancadu d’ogni pena

 

Mentre chi unu poveru appretadu

Furat pro s’appittitu unu cogone

Lu ides arrestadu e cundannadu

 

Su famidu chi furat un’anzone

est cundannadu dae sos giurados

fin’a degh’annos de reclusione

 

E narrer chi b’at palattos fraigados

dae sa man’infame e sa rapina

sos meres ladros sunt pius amados…

 

Sempre dalla stessa poesia è facile dedurre che, idealmente, Mereu aderisce al nascente socialismo utopistico, dove trova motivo di speranza e di riscatto sociale. Tale corrente di pensiero e di azione è rappresentata in Sardegna dal giovane militante Jagu Siotto, studente universitario di Orani. Siotto, attivissimo in quegli anni, è per un breve periodo nel 1889, redattore del giornale “La Volontà”, che ebbe solo un paio di mesi di vita, ed in seguito, nel 1901 fonda un periodico chiamato “La Lega”. Tanto basta per far sì che Peppino Mereu si entusiasmi e ne predichi un verbo che pare essere un vera apologia alla sovversione politica e un appello a favore della giustizia sociale:

 



Tottu sos poverittos sun mandrones
pro sos atatos ca no hant connotu
famine affannos e afflissiones

Ma si si averat cussu terremotu
su chi Jagu Siotto est preighende
puru sa poveres’at aer votu

Happ’a bider dolentes esclamende
mea culpa sos viles prinzipales
palatos e terrinos dividende

Senza distinziones coriales
devimus esser, fizzos de un’insigna
liberos rispettados uguales
Mereu non sembra, nelle sue esternazioni poetiche, tenere in alcun conto la divisa che rivestiva nè limitazioni imposte dai regolamenti della Benemerita. Questo fatto meraviglia non poco, conoscendo il controllo ferreo dell’Arma sui propri militi, che arruolava solo dopo approfondite informative favorevoli, vegliando costantemente sulla loro fedeltà assoluta, e interferendo pesantemente anche nella vita sentimentale dei suoi Carabinieri, che erano obbligati ad avere il nulla osta dai propri superiori anche per sposarsi.

Stupisce pertanto, per quei tempi, il suo azzardo di pensiero, considerando i contenuti del messaggio politico che nessun altro poeta sardo prima di allora ci avasse mai trasmesso.

Gli ultimi anni trascorsi con la divisa, poco prima che una grave malattia lo portasse al congedo anticipato e alla morte poi, il carabiniere Mereu li passa in alcune sedi del nord Sardegna, tra cui Codrongianos ed Osilo. E’ in quella circostanza che entra in contatto con Genesio Lamberti, maestro educatore laico, al quale dedica una bellissima ed interessante composizione poetica. Genesio Lamberti, nato a Tempio nel 1859, era stato, tra l’altro, direttore del giornale “Le Bocche di Bonifacio di S.Teresa Gallura”. Dopo varie esperienze, in diverse parti della Sardegna, approda a Osilo nell’anno 1892, assunto, col voto unanime del Consiglio Municipale caldeggiato dall’allora provveditore scolastico Delogu, per dirigere ed organizzarvi le nuove scuole elementari, probabilmente in attuazione della legge Coppino del 1877 riguardo l’istruzione obbligatoria, ancora disattesa in molti centri della Sardegna. Tre anni dopo il suo arrivo, Osilo vantava il primo caseggiato scolastico, che un’inchiesta del tempo, per conto della società editrice Dante Alighieri, classifica come:”Non inferiore ad edifici scolastici costruiti a Torino e Milano”4.

Il Maestro riuscì molto bene nel suo intento, tanto che non mancarono attestati di stima e riconoscimenti pubblici anche da parte del Superiore Ministero, che, in seguito, lo nominò Benemerito con l’attribuzione della medaglia d’oro. Proseguendo nella sua missione di educatore, constatata la scarsa frequenza scolastica da parte dei ragazzi, riuscì a fondare, sempre a Osilo, la Società di Mutuo Soccorso, con l’intento di avvicinare gli operai e i contadini e convincerli dell’importanza di mandare i propri figli a scuola.

Peppino Mereu coglie l’ansia ed il significato dell’opera di Genesio Lamberti in una poesia datata Osilo 7 maggio 1895, viscerale e istintiva, ove il poeta esprime i suoi dubbi, senza trovare la pace, circa la capacità dei sardi, di operare per una positiva trasformazione sociale della loro realtà. Rimane, nel contesto un documento sempre attuale con una grande carica umana che irrompe sin dalle prime ottave, con i sogni svaniti del suo credo, con una lirica dolce e disperata, una voce che si alza dal silenzio della passività, sempre senza rassegnazione:

 

 Ue che sezis dados,

o sognos de amore,

o penseris de gloria? Distruttos

sezis e calpestados

dae su giustu rancore

chi proat custu coro: sognos bruttos

mi turbant s’intellettu

e isparghent velenu intro su pettu.

 

…ite cosa est su mundu

 in su cale vivimus,

 privos de lughe, amore e libertade?

Unu mare est, prufundu;

da-e cando naschimus

bi navigamus. Cun felizidade?

No: pro chi parzat gai,

felizidade no nde’esistit mai.

 

E sos abitadores

de sa terr’ ite sune?

Terra fang’ischifosu, no sun terra.

Tristas faccias de funes:

sos frades a sos frades faghent gherra.

E in sa terr’intantu

aumentat s’infamia e su piantu.

 

Vivimus avvilidos

 in custa tenebrosa badde ingrata de ais e de ois.

Sutta sos fioridos campos

sa velenosa arza bomind’est, su velenu

 e nois genia poveretta

 rittinimus su gridu e sa vinditta.

 

Poi continua, forte e diretta, la sua rabbia argomentata, la sua esortazione, quasi un’arringa contro un popolo impotente e pavido, ove lui stesso si immedesima e al quale la sua poesia sembra negare il diritto di cittadinanza in questo mondo:

 

Ah perfida genia!

Proite ti lassa tinghere

su cor’a luttu? Ischida e faghe prou.

O forsi villania

no ti paret su lingher

s’ispada tinta de su sambene tou?

Su cane a orulare,

s’arzat si no li dana a mandigare

 

E tue senza pane,

istancu famidu e nudu

no alzas de disdign’una protesta!

Ses peus de su cane,

vile servis e mudu:

linghes sa manu ingrata e faghes festa

a chie ti deridet,

cando pedinde,

a manu tesa t’idet

 

De su grassu sarau

chi sos riccos segnores

faghent a palas tuas, cun fastizos,

populu ses isciau,

fadigas e sudores

cunsacras pro caprizios e disizos

de cussa zente ischiva,

e tue famidu gridas: viva evviva!

 

Viva chie su punzu

ponet in su siddadu

de su sambene tou pius ardente.

Su pane senza aunzu

si nd’has, avvelenadu

lu pappas, ca ses dannadu eternamente

a vivere in s’ischifezza,

famidu umiliadu e postu in beffa.

 

O populu famidu

 da-e te cazz’addane

 su pan’ ispel, iscudel’ a baleu.

 Su coldol’induridu

chi mandigas pro pane

halzalu minaciosu’in cara’a Deu

e cun disdignu in s’aera

l’imbolas custa triste preghiera.

 

A questo punto si rivolge a Dio, affinché dia uno sguardo pietoso e faccia scendere la sua ira terribille contro l’ingiustizia umana e contro i rettili che strisciano, senza ascoltare la pietosa intercessione di Maria. Poi riprende la sua drammatica arringa: 

 

Ma tue populu, finghes

de protestar’ e times:

de pedire su tou birgonzosu.

A chie t’opprimet linghes,

de islancios sublimes

ses incapace zeghu e sonnigrosu

si no si fit intesu

su gridu e vinditta de s’offesu.

 

Cagliadi, det sighire

S’infamia. Sa festa

faghes a chie de sa frusta est dignu.

Prefersi su pedire

a una giusta protesta

chi podes immolare cun disdignu.

Ti negana su pane

e tue dae sa patri andas addane.’

 

Nella parte finale di questa poesia il poeta parla della morte ed anche dell’ipocrisia umana di fronte alla morte. Cita Petrarca “cosa buona mortal passa e non dura”, quasi un presagio per la malattia che sentiva sempre più incombente. Infatti la successiva poesia la dedica al fratello, scrivendo dall’ospedale presidiario di Sassari mentre già rimpiange i tempi andati:

 

T’ammentas caru frade, cantu forte,

allegr’ e sanu fia in pizinnia?

Odiende sa morte

de solas isperanzias vivia.

 

Oe cuss’allegria s’est partida

annientad’est cuddu coro forte

manchendem’est sa vida

pro cunfortu giamende so sa morte.

 

T’ammentas caru frade, sos jucundos

Sorrisos amorosos chena pena?

Cuddos pilos biundos

chi m’abbasciant a sa nazarena?

 

Zessados sos incantos risulanos, oscurad’ est

S’allegra fantasia.

Como sunt pilos canos

Chi coronant s’istanca fronte mia.

 

Nel suo corto ma intenso percorso poetico il poeta tocca diversi temi che sono tuttora di grande attualità, primo fra tutti quello che oggi chiameremmo ecologico o ambientalista.

 

 Nella poesia a Zuanne Sulis abbiamo una diretta e drammatica testimonianza riferita al disastro ambientale causato dal taglio indiscriminato di piante da parte del governo centrale, che ha compromesso per sempre l’ecosistema allora esistente in Sardegna.5

 

Su jardinu su campu e s’olivariu

d’unu tempus antigu s’est mudadu

in d’unu trist’ispinosu calvariu

 

Buscos chi mai b’haiat intradu

rajos de sole, miseras sacchettas

hant bestidu e su log’hant ispozzadu

 

Arvures chi pariant pinnettas
pro ingrassare su continentale

hant leadu undas e marettas.

 

Inue tottue est passada s’istrale

pro seculos e seculos de zertu

si det bider funestu su sinnale…

 

Ecco allora arriva dal poeta, puntuale e dolorosa l’imprecazione, come nella tradizione sarda di fronte all’impotenza , contro i responsabili e i complici di questa rapina:

 

Vile su chi sa Gianna hat abertu

 a s’istranzu pro benner cun sa serra

 fagher de custu logu unu desertu.

 

Sos vandalos cun briga e cuntierra
 benint da-e lontanu a si partire

 sos fruttos, da chi brujant sa terra.

 

         Da quanto che si è cercato di analizzare sino a questo momento potrebbe scaturire la convinzione che ci si trova davanti ad un poeta solo arrabbiato, cosa assolutamente non vera, perché nell’insieme delle sue poesie si riscontra l’anima popolare con varie stagioni poetiche, e prima fra tutte quella umoristica.

Rileggendo alcune delle sue poesie si capisce chiaramente che Mereu si divertiva, e che divertiva gli altri, integrato perfettamente con la vitalità della sua terra, Danno irreparabile non solo agli effetti idrografici e per l’economia in generale, ma pure per i riflessi climatici e l’estensione della malaria.” scherzava spesso alle spalle dei potenti, mettendo in ridicolo le loro contraddizioni e le loro miserie con una satira straordinaria.

Un esempio di questa satira sottile e tagliente sta in “Lamentos de unu nobile” che racconta le vicissitudini del nobile di allora che rimpiange il passato benessere. Il lamento sta nei tempi, che sembrano non risparmiare nessuno ove anche il bastone della distinzione e del prestigio viene usato per acchiappare le cicche per strada.. 

 

In illo tempore

 cando tenia

richesas, benes

e nobilia,

 

pappai petta

petta ‘ e vitellu,

frisca freschissima

dae su masellu.

 

Oe mi cumtento

de pan’e casu,

cando bin’appo,

e binu a rasu.

 

E tra parentis,

gai pro cullunu,

mi narant martire

de su digiunu……….

 

Oe sa superbia,

no est de mundu;

sos pantalones

no giughent fundu.

 

Sa bacchettina

de sas pius riccas,

s’est cunvertida

in ciappaciccas…

 

Torradu a domo

 po pius dolore,

m’ido sa visita

de s’esattore.

 

Dendemi titolos

de unu nobile

mi ettat cara

ricchezza mobile.

 

Eo li rispondo

in tonu affabile:

richesa mobile

miseria stabile….

 

Anche il clero con le sue furbizie, le incongruenze, spesso in contrasto con i dettami del Vangelo, era spesso e volentieri bersaglio di vere e proprie requisitorie poetiche. In molti casi era canzonato con poesie umoristiche, come in “Su canarinu de su Rettore”:

 

Su burriccu chi tenet su rettore

non meritat sa fama de molente,

est a corinnos che un’accidente,

invidio su sou bonumore.

 

Cantende su manzanu il ”la” maggiore

no est nudda a su mere differente,

parent bessidos dae tott’una bentre

differenziat solu su colore…

 

E ancora in “Cunfessende”:

 

Cunfessore:

Creder in sognos no permittit Deu

Ca est gravissimu peccau mortale.

 

Penitente:

Mi so bisadu, su rettore meu,

nacchi l’aiant fattu cardinale,

crettidu l’hapo e mi nde fatto reu

ca su sonnu mi est parfidu reale.

 

Confessore:

Cando passat in mente nettu e giaru

Su sognu est avvisu, o fizu caru.

 

In tempi di carestia, che cosa c’è di meglio che fare la serenata a pancia vuota e associare l’amorosa alle brame gastronomiche? Ecco allora:

 

Serenada:

Aiz’ aiz arrustida

tue ses modde bistecca,

tue ses pro me busecca

sa pius bene cundida

 

ses taccula saborida

mostarda grassa e purpuda,

ses una gioga minuta,

un’iscarzoffa un’olia,

 

una vera trattalia

pro fagher buffare mustu.

Cosa pius bella e gustu

non nde potto desizare.

 

Pensa bella, a t’ingrassare,

dormi tranquilla e cuntenta

faghes sonnos de pulenta,

de basolu e de patata.

 

Custa bella serenata

l’hat fatta s’amante tou;

amadu caffè cun ou,

pensa de ti riposare.

 

Nei paesi in quei tempi anche se c’erano, non esistevano eroi; persone con straordinarie vicissitudini spesso si smitizzavano da soli con la loro stessa semplicità, ma diventavano protagonisti per la maniera colorata di raccontare i loro fatti drammatici e lontani, facendo sorridere i propri compaesani:

  

<<Ebbè come la va, Signor Francesco

nesit predu passende in su caminu.>>

<<Semus a s’oritonte e su destinu

vieni, figlioccio che prendiamo il fresco.

 

 Ti voglio raccontare, se ci riesco,

comente fit sa guerra a Solferinu

si no pregunta a frade meu Peppinu

come fuggì l’esercito tedesco.

 

La notte che ci avevano attaccati

zunchiavano le balle sulla testa

come fanno i calleddi appena nati.

 

C’era un calore che nel mio termometro

Il mercurio bolliva e la tempesta

Del fuoco si sentiva a un centimetro.

 

La poesia “Nanneddu meu” è forse la più popolare, perché è stata di recente musicata con successo ed è inserita nel repertorio di canto di tutti i gruppi che si dedicano alla musica etnica in Sardegna. Si tratta di un bellissimo canto, con il necessario opportunismo e umorismo triste, dove denunce e riferimenti sono ben indirizzati. Una maniera di scherzare anche nelle disgrazie in un mondo in progressiva mutazione, al quale nostro malgrado, sembra voler dire il poeta, ci si deve gioco -forza adeguare, per poter andare avanti nel nostro cammino.

 

 

 

Nanneddu meu

Su mund’ est gai,

a sicut erat

non torrat mai

 

Semus in tempos

de tirannias

infamidades

e carestias

 

Famidos nois

Semus appende.

Pan’e castanza,

terra cun lande

 

Terra ch’hat fangu

 torrat su poveru

 senz’alimentu,

senza ricoveru….…

 

 e finisce:

 

AdiosuNanni

 tenedi contu,

faghe su surdu

ettad’ a tontu

 

A tantu, l’ides,

su mund’est gai:

a sicut erat

no torrat mai.     

 

In alcune poesie, tra cui quella a “Nanneddu meu” e “Lamentos de unu nobile” sono evidenti, importanti avvenimenti storici, come la guerra doganale tra Italia e Francia, voluta dai Savoia, con l’intento di salvaguardare le industrie del nord, messe in crisi da una agguerrita concorrenza transalpina. Tale politica fu però deleteria per l’economia isolana. Infatti la Sardegna anni prima, a fatica, era riuscita, nonostante gli alti costi di trasporto, ad aggirare il monopolio dei commercianti italiani e ad aprirsi un credito per il collocamento delle proprie merci nei mercati europei, attraverso il porto di Marsiglia.

L’economia iniziava a decollare, si esportava bestiame , formaggio, olio, e vino, in modo particolare verso Francia, Inghilterra e Belgio, nascevano nuove imprese e si aprivano sportelli bancari.6

La Sardegna aveva veramente tanto da tribolare, se si aggiunge a quanto citato tutta una serie di calamità naturali che il poeta ci racconta: 

 

…B’est sa fillossera,

impostas, tinzas

chi nos distruit

campos e binzas….

 

…Sa perenospera

 tottu hat distruttu,

binzas e campos

no dant produtu…

 

Credo non si possa parlare di Peppino Mereu nel giusto verso, se non si fanno cantare le sue poesie, se non si ha la capacità di ascoltare il ritmo delle rime, seguire la fantasia delle sue liriche, il filo sottile, talvolta drammatico, a volte dolce o ironico, con il quale lega il pensiero ai fatti. E il dramma di un ragazzo poco più che ventenne, che con la poesia fa cronaca in diretta della sua morte con il travaglio della sua agonia.

         Il rapporto del poeta con la sua terra è estremamente profondo, sembrano quasi un binomio inscindibile, che mai, nemmeno nei contrasti più forti o nella sofferenza, viene messo in discussione. E così dolci canti arrivano da lontano:

 

Gentile Tonara,

terra de musas, santa e beneita,

patria mia cara,

cand’est chi b’hap’ a bennere in bisita?

E ancora… la nostalgia struggente:

 

Ah dura lontananza,

a sa chi m’hat sa sorte cundannadu.

Mi enit s’arregordanzia

De unu tempus ispensieradu,

s’onesta comunanza

de amigos chi hapo abbandonadu;

mi torrat a sa mente

unu tempus passadu allegramente.

 

Rientrato a Tonara dopo il congedo, Peppino Mereu convive per un certo periodo con il fratello Manfredi, impiegato presso le poste del paese, ma la convivenza si rivela difficile e dopo poco tempo si trasferisce a “Muragheri” poco distante da Galusè.6 “Galusè è il titolo di un altro capolavoro di Mereu, ma è anche una fontana che scorre tra castagni e noccioli, un poco sopra Tonara. E’ il punto di ristoro “su pasu” per tutti, e dove:  

 

Tottu sunt uguales,

inoghe nemos vantant sos blasones.

Bacculos pastorales

s’aunint a ispadas e bastones.

Tottu parent fedales

sas bezzas cun sas giovines persones,

bezzones e battias

torrant piseddos a sas abbas mias.

 

E’ la fontana di Galusè, testimone delle allegrie, delle miserie umane, alla quale il poeta dà voce, e la fontana si presenta e parla a una fanciulla immaginaria, che, per lui, certamente aveva il volto di una persona amata5:

 

Eo so Galusè,

logu delissiosu de incantu.

Firm’inocghe su pè

o passizerri custu est loghu santu:

deo confido in te;

cert’has a currer a mi dare vantu

cun bellas cumpagnias

a t’infriscare de sas abbas mias.

 

Umil’ in custa rocca

mai de murmurare appo zessadu,

Bentu frittu e fiocca

hana sa venas mias astragadu,

mai però sa brocca

 hat su nettaru sou irmentugadu;

pedidu m’hat continu

 sos bundantes umores ch’appo in sinu.

 

Ancoras e in dies

no mi mancant dulzuras e bisittas.

Tottu current a mie,

e si consolant cun sas abbas frittas,

e deo, rie rie,

contento broccas mannas e brocchittas.

Da-e custas frittas venas

Sempere partine sas broccas pienas.

 

          La fontana che sente, ma non vede per l’oscurità, le cose che non devono essere viste, l’allusione alle capriole col corpetto, (Crabolas in paletta de fagher meraviglia e ispantu e atteras suzzettas incarezzadas de nieddu mantu) le donne più santarelle che si bagnano le labbra arse, la fontana complice omertosa che rimanda ad una fila di puntini…7

E’ sempre la fontana, il centro di ristoro e del canto, il punto ideale per appianare le divergenze, e il luogo dove vanno a:

 

Faghes paghe sos contrarios. 

 

Il luogo di ritrovo per spie e commissari di pubblica sicurezza, dove possono accordarsi e perfezionare le loro trame occulte; con il delitto che fa l’occhiolino alla giustizia.

E’ il posto dove, nel momento cruciale del voto, si tiene il famoso pranzo elettorale, con i maccheroni ingurgitati da bocche fameliche, mescolati e conditi da promesse che non si compiranno mai.

Alla fine del dialogo ecco il riferimento autobiografico: la fontana chiede alla ragazza notizie di un giovane pallido

e magro, del quale oramai da tempo non aveva nessuna notizia, tanto da avere il sospetto che fosse morto.

 

Un’epoca beniat

unu giovanu pallidu e romasu.

Inoghe invocaiat

Sas noe virginellas de Parnasu

afflittu pianghiat

e mentres m’imprimiat unu basu,

misciaiat amaras

lagrimas a sas mias abbas giaras.

 

 In questa breve escursione lungo il canto di Peppino Mereu, il tempo ha scandito le sue regole e ci ha fatto percorrere le sue poesie con inevitabili saltelli, come i canguri, con il rimpianto di averne tralasciate tante, tutte meritevoli di menzione.

Ma conviene ancora fare un riferimento ai rapporti del poeta con le donne. Molti dolci versi sono dedicati alle donne, con nomi che fanno parte della lirica tradizionale sarda: una rosa, una viola, s’ amabile fiore, rosa ses cun su lizu, s’ anzone chi tenia o nomi convenzionali come: Lia cara o cudda candida Maria.

Nelle poesie il rapporto con le sue donne raramente è contemplativo, statico o descrittivo, ma si inquadra nel contesto di un’azione o una storia, incrociandosi con il cammino delle sue sventure o dei suoi rimpianti.

 Nella poesia titolata ”Amore”, ad esempio, egli canta:

 

Beni dami sa manu isfortunadu

Tue ses dignu de s’istima mia;

lottende in d’unu mar’ e angustia

custu virgine cor’has meritadu

 

 E in “adiu a Nuoro” recita:

 

…cale orfanu fitzu isconsoladu

passo sas dies cun su cor’affrantu

suspirende a Nuoro profumadu,

giardinu d’ una rosa ch’amo tantu.

 

         Sempre in riferimento al tema del rapporto con l’altro sesso , nel libro”Vecchia Florinas”,8 c’è una curiosa storia, che, a mio modesto avviso non ha avuto il giusto rilievo e che ha per titolo “Il poeta e la ragazza”.In quella sede si racconta che Giuseppe Mereu poeta carabiniere di stanza nella stazione di Codrongianos, amoreggiava con una certa Maria Domenica, secondogenita di cinque figlie, di Giovanni Dore. Questi, proprietario di due mulini, uno a Florinas e l’altro in una impervia località di campagna chiamata Briai, quando scoprì le simpatia che correva tra i due giovani non ebbe di meglio da fare che confinare la figlia nel mulino di campagna, sotto la vigile sorveglianza di una zia. Racconta il Manconi che Maria Domenica fu accompagnata dal padre a cavallo e lei a piedi, dietro, scalza e a testa bassa.

Giuseppe Mereu non si dava pace e appena poteva, servizio permettendolo, andava verso il mulino di Briai per cercare di intravedere anche da lontano la sua innamorata. Manifestando tutto l’ardore dei suoi vent’anni, non pago delle visite di giorno, cercò il contatto con la sua amorosa anche di notte. Una notte oscura passando in quel luogo impervio sbadatamente, il poeta scivolò e finì nel fiume infradiciandosi fin dentro il midollo delle ossa. Maria Domenica dopo poco tempo rientrò a Florinas col padre disposto ad accettare, anche dietro pressioni del parentado, il fidanzamento della figlia con il giovane carabiniere tonarese. Racconta sempre il Manconi che ci fu una breve corrispondenza di lettere e poesie inedite conservate sino a qualche anno prima.

Nel frattempo, la caduta nel fiume la trascuratezza del poeta stesso l’imperizia dei medici tramutò una banale infreddatura in qualche cosa di molto più serio. Per causa di questo fatto, e concordemente, il fidanzamento fu sciolto, a causa della sua malattia e, sempre secondo il documento citato, il poeta ritornò nella nativa Tonara, ad aspettarvi la morte. Maria Domenica Dore per diversi anni rifiutò qualsiasi proposta di matrimonio; infine cedette alle pressioni della famiglia e si sposò. Mori anche lei a causa di un male incurabile nell’anno 1918 e volle essere sepolta con il costume tradizionale che aveva usato il giorno del suo matrimonio.

         E’ questa una storia abbastanza interessante, ma la cosa più curiosa è che a raccontarla, con una grande delicatezza e tenerezza, è il figlio di Maria Domenica Dore, che probabilmente per avere notizie così dettagliate e minuziose ha attinto dalla memoria e dai i ricordi delle sue zie.

Giuseppe Mereu moriva a Tonara il giorno 11 marzo del 1901 all’età di soli ventinove anni. Nell’ultima poesia testamento il poeta descrive con fredda lucidità il suo funerale, rifiutando il prete i pianti e le parole inutili e ipocrite:

 

E nessunu pro me ispendat peraulas

In laudare comente bind’ada

Chi finzas in sa fossa narant faulas.

 

Poi… due strofe ci riportano inevitabilmente alla storia con Maria Domenica Dore. Il poeta accenna a due ritratti conservati in una busta, il cui sigillo non deve essere profanato, uno è della mamma fatto il giorno della sepoltura,

 

s’atteru est de s’anzone chi tenia

in coro, cun amore tantu forte

chi m’hat leadu vida e pizzinnia.

 

De cuss’amore nde tenzo sa morte

a s’ora de sa vida sa pius bella.

Ah ! Decretu fatale e dura sorte!

 

 

Stefano Flore




 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Versione italiana delle poesie di Peppinu Mereu  

 N: 29 Quaderni bolotanesi. Pag. 400

 

 

 

“Dall’alto nuraghe

con supremo disgusto mi meraviglio del tuo ardire.

Lascia dormire in pace

il sonno di quel giusto

che ha avuto fama di grandissimo poeta.

L’insulto è molto grave,

aver turbato la soave

armonia dei sogni di Larentu”…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Versione italiana delle poesie di Peppinu Mereu  

 N: 29 Quaderni bolotanesi. Pag. 401

 

 

 

 

 

Alcuni sono nella compagnia di disciplina:

la scure di Fonni ha fatto scorrere il sangue,

sia baciata la mano assassina.

 

Non meravigliarti della contentezza

che dimostro nel baciare quella mano

che ha punito severamente la viltà.

 

Peggio per chi è di cuore villano

e si scorda quando è soldato

che il soldato deve essere umano.

 

 

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Io non riesco a capire, i carabinieri

che cosa stiano a fare nei nostri paesi

se non arrestano i bancarottieri.

 

 

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I vigliacchi che hanno meritato le catene,

hanno truffato la legge,

così si sono salvati da qualsiasi pena.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Versione italiana delle poesie di Peppinu Mereu  

 N: 29 Quaderni bolotanesi. Pag. 402

 

 

 

 

 

Mentre il povero sospinto dalla necessità

 ruba un pezzo di pane per sfamarsi

 viene arrestato e condannato.

 

L’affamato che ruba un agnello

viene condannato dai giudici

perfino a dieci anni di reclusione.

 

E dire che esistono palazzi costruiti

dalla mano infame della rapina:

e i padroni ladri sono i più stimati.

 

 

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Tutti i poveri sono fannulloni

per i sazi che non hanno conosciuto

la fame gli affanni e i sacrifici.

Ma se si realizza quel terremoto

che Jago Siotto va predicando

anche la povera gente avrà diritto di voto.

 

Potrò vedere dolenti esclamare

 <mea culpa>, i vili padroni

mentre verranno divisi palazzi e terreni.

Senza distinzioni curiali

dobbiamo essere figli della stessa bandiera:

liberi rispettati e uguali.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Versione italiana delle poesie di Peppinu Mereu  

 N: 29 Quaderni bolotanesi. Pag. 403

 

 

 

Dove siete finiti,

sogni di amore,

pensieri di gloria? Distrutti

siete e calpestati

da un giusto rancore

che questo cuore sente: brutti sogni

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Versione italiana delle poesie di Peppinu Mereu  

 N: 29 Quaderni bolotanesi. Pag. 404

 

 

 

 

 

turbano la mia mente

e spargono veleno dentro il petto.

 

…che cosa è il mondo

nel quale viviamo

privi di luce amore e libertà?

E un mare profondo,

dal momento della nascita ci navighiamo. Con felicità?

No: anche se così può sembrare,

la felicità non esiste mai

 

E gli abitanti della terra cosa sono?

Terra: fango schifoso, non sono terra.

Rettili facce da patibolo:

i fratelli fanno la guerra ai fratelli.

E intanto sulla terra

aumentano l’infamia ed il pianto.

 

Viviamo avviliti

in questa tenebrosa

e ingrata valle di lamenti.

Sotto i fioriti

campi, la velenosa

tarantola sta vomitando veleno, e noi

generazione miserabile

tratteniamo il grido della vendetta!

 

 

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Ah, perfida generazione!

Perché ti lasci tingere

 il cuore a lutto? Svegliati, agisci.

O forse viltà

no ti sembra leccare

la spada colorata del tuo sangue?

Il cane ulula

se non gli danno da mangiare.

 

E tu, senza pane

stanco affamato e nudo,

non sollevi una protesta di sdegno!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Versione italiana delle poesie di Peppinu Mereu  

 N: 29 Quaderni bolotanesi. Pag. 405

 

 

 

Sei peggio del cane,

vile servente e zitto:

lecchi la mano ingrata e fai festa

a chi ti deride

quando ti vede mendicare con la mano tesa.

 

Dei grassi banchetti

che i ricchi signori

fanno con grandi sperperi alle tue spalle,

popolo sei oppresso

fatiche e sudori

consacri per i capricci e i desideri

di quella gente schifosa

e tu affamato gridi: <Viva! Evviva!>

 

Viva chi il pugno

mette nel forziere

del tuo sangue più ardente.

Il pane senza companatico,

se ne hai, avvelenato

lo mangi perché sei dannato eternamente

a vivere nell’immondezza

affamato, umiliato e posto in ridicolo.

 

 

O popolo affamato,

da te allontana

il pane di ghiande, lancialo lontano.

Quella corteccia indurita

che mangi al posto del pane,

alzala minacciosa verso Dio:

con disdegno, nell’aria

scaglia questa triste preghiera….

 

 

 

 

Versione italiana delle poesie di Peppinu Mereu  

 N: 29 Quaderni bolotanesi. Pag. 406

 

 

Il giardino, il campo l’oliveto

di un tempo lontano, si sono trasformati

in un calvario triste e spinoso.

 

Boschi dove mai erano penetrati

i raggi del sole, miseri sacchetti

hanno riempito, ed hanno spogliato il suolo.[1]

 

Alberi grossi come Pinnettas[2] 

per ingrassare il continentale,

hanno affrontato le onde e le tempeste.

 

Ovunque sia passata la scure

per secoli e secoli di certo

si vedrà una traccia funesta.

 

 

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Vile colui che a aperto la porta

al forestiero perché venisse con la sega

e facesse di questo posto un deserto.

 

I vandali, con prepotenza e contese,

vengono da lontano per spartirsi

i frutti, dopo aver bruciato la terra.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Versione italiana delle poesie di Peppinu Mereu  

 N: 29 Quaderni bolotanesi. Pag. 407

 

 

 

 

In illo tempore

quando avevo

ricchezze, beni

e nobiltà

 

mangiavo carne,

carne di vitello,

fresca freschissima

presa dal macello

 

Oggi mi accontento

di pane e formaggio

quando ne ho,

e vino a razione.

 

E, tra parentis

un pò per scherzo

mi chiamano martire

del digiunare…

 

Oggi la superbia

non è di mondo

i pantaloni

sono senza fondo

 

La bacchettina

delle più pregiate

si e trasformata

in acchiappa cicche….

 

Tornato a casa

per maggior dolore

trovo la visita

dell’esattore

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Versione italiana delle poesie di Peppinu Mereu  

 N: 29 Quaderni bolotanesi. Pag. 408

 

 

Dandomi titoli

di ricco e nobile

mi notifica in faccia

ricchezza mobile

 

Io gli rispondo

con tono affabile

ricchezza mobile

miseria stabile.

 

 

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 Il somaro che ha il parroco

non merita la fama di asino

raglia sempre come un accidente

invidio il suo buon umore

 

Cantando il mattino in “la” maggiore

non è per niente diverso dal padrone

sembrano usciti dallo stesso grembo

anche se sono differenti nel colore.

 

 

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Appena appena arrostita   

tu sei una tenera bistecca,

tu sei per me la trippa,

quella meglio condita.

 

sei una taccola squisita,

mostarda grassa e polposa,

sei una lumachina,

un carciofo, un oliva,

 

una vera frattaglia

per fare bere vino.

Cosa più bella e gustosa

non potrei desiderare.

 

 

 

 

 

Versione italiana delle poesie di Peppinu Mereu  

 N: 29 Quaderni bolotanesi. Pag. 409

 

 

 

Cerca, cara, di ingrassare,

dormi serena e contenta;

fai sogni di polenta,

di fagioli e di patate.

 

Questa bella serenata

l’ha fatta il tuo amante,

amato caffè con uovo,

cerca di riposare.

 

 

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<Ebbè, come la va, Signor Francesco?

Disse Pietro passando per la strada.

Siamo giunti all’orizzonte del destino:

vieni figlioccio che prendiamo il fresco.

 

Ti voglio raccontar, se ci riesco

come fu la guerra a solforino,

altrimenti chiedi a mio fratello Peppino

come fuggi l’esercito tedesco.

 

La notte che ci avevano attaccati

fischiavano le palle sulla testa

come fossero cuccioli appena nati.

 

C’era un calore che nel mio termometro

il mercurio bolliva e la tempesta

del fuoco si sentiva a un centimetro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Versione italiana delle poesie di Peppinu Mereu  

 N: 29 Quaderni bolotanesi. Pag. 410

 

 

 

 

Nanneddu mio,

cosi va il mondo:

come era un tempo

non sarà più.

 

Viviamo tempi

di tirannia,

tanti soprusi

e carestia…

 

E noi, affamati,

mangiamo

pane di castagne,

terra con ghiande.

 

Terra con fango

 ritorna il povero

senza alimenti

senza ricovero…

 

Addio, Nanni,

conservati bene

fai il sordo

e fingiti scemo.

 

Intanto lo vedi

così va il mondo:

come era un tempo

non ritornerà più.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Versione italiana delle poesie di Peppinu Mereu  

 N: 29 Quaderni bolotanesi. Pag. 411

 

 

C’è la filossera

imposte e pesti

che ci distrutto 

campi e vigne

 

La perenospera

tutto ha distrutto

vigne e campi

non danno prodotto

 

 

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Gentile Tonara,

terra di muse, santa e benedetta,

patria mia cara

quand’è che tornerò a farti visita…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Versione italiana delle poesie di Peppinu Mereu  

 N: 29 Quaderni bolotanesi. Pag. 412

 

 

 

Tutti sono uguali,

qui nessuno vanta blasoni.

Bacoli pastorali

si uniscono a spade e bastoni.

Tutti sembrano coetanei:

Le persone vecchie e quelle giovani,

vecchietti e vedove

nelle mie acque ritornano bambini.

 

 

 

 

Io sono Galusè

luogo delizioso e incantevole.

Ferma qui, il tuo piede 

ho passeggero, questo è un luogo santo

io confido in te,

certo che verrai a farmi vanto,

con belle compagnie,

a ristorarti nelle mie acque.

 

Umile in questa roccia

non ho mai smesso di gorgogliare;

il vento freddo e la neve

hanno raggelato le mie vene,

la brocca però non ha mai scordato il suo nettare;

e mi ha chiesto di continuo

gli umori abbondanti che ho nel seno.

 

Ancora oggi non mi mancano tenerezze e visite.

Tutti vengono a me

e si consolano delle mie acque fredde,

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Versione italiana delle poesie di Peppinu Mereu  

 N: 29 Quaderni bolotanesi. Pag. 413

 

 

ed io sorridendo

riempio brocche grandi e piccole.

Da queste fresche vene

le brocche vanno via sempre piene.

 

 

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Vieni e dammi la mano sfortunato

tu sei degno della mia stima;

lottando in mare di angoscia

hai meritato questo vergine cuore

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Versione italiana delle poesie di Peppinu Mereu  

 N: 29 Quaderni bolotanesi. Pag. 415

 

 

E nessuno per me sprechi parole

per gli elogi, come fanno molti

che anche nella tomba dicono bugie

 

 

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 …l’altro è dell’agnello che avevo

nel cuore, un amore tanto forte,

che mi ha rubato vita e gioventù.

 

Di quell’amore ne ho la morte

nell’ora più bella della vita.

Ha destino fatale e dura sorte!

 

        

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Canta canta continuamente,

 o patria di Larentu e di Capeddu;

 sei il giardino delle muse

 cara a Tommaso e Bachiseddu;

ti rallegra Agostino perché possiede la parola bernesca,

con la musa burlesca

 si dimostra il degno figlio di Peppe Diana”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ma tu popolo, fingi

di protestare e ai paura

di chiedere i tuoi elementari bisogni.

Lecchi chi ti opprime

e di slanci sublimi

sei incapace, ceco e assonnato

altrimenti si sarebbe sentito

il grido di vendetta dell’offeso.

 

Taci, deve continuare

 l’oppressione. Fai festa

a chi è degno della frusta.

Preferisci mendicare

ad una giusta protesta,

che puoi scagliare con disprezzo.

Ti negano il pane,

e tu dalla patria vai lontano.

 

 

 

Ti ricordi, caro fratello, come forte

allegro e sano ero da ragazzo.

Odiavo la morte

e vivevo di sole speranze.

 

Oggi quell’allegria è scomparsa,

quel cuore forte sta cedendo:

sta venendo meno la vita,

per sollievo sto invocando la morte.

 

Ricordi caro fratello, i giocosi

sorrisi amorosi senza pena?

Quei capelli biondi

che si abbassavano alla nazarena?

 

Finiti i dolci sogni ridanciani, si è oscurata

l’allegra fantasia.

Ora sono capelli bianchi

che ornano la mia testa stanca.

 

 

Confessore:

Dio no permette si creda nei sogni

perché è un gravissimo peccato mortale

 

Penitente:

Mi sono sognato mio caro parroco

che ti avevano nominato cardinale.

Ci ho creduto e me ne faccio colpa

perché il sogno mi è sembrato reale

 

Quando passa in mente in modo netto e chiaro

il sogno è un preavviso o figlio caro.

 

 

 

ed io sorridendo

riempio brocche grandi e piccole.

Da queste fresche vene

le brocche vanno via sempre piene.

 

……Da paesi lontani

ci sono venute persone illustri,

e banchettando in festa

hanno arrostito capretti e agnelli,

e succulente leccornie:

galline, porchetti, pesci e maccheroni.

In queste acque pure

hanno smaltito solenni sbornie.

 

Tutti si son divertiti

dimenticando ogni contesa.

Ho visto preti

ubriachi cantando a suono di chitarra,

anzi ne ho assistito

beatamente stravaccati per terra

in braccia di una vera

solenne reverenda ubriacatura.

 

….Fresca , abbondante e pura,

quante feste ho visto e quanto gioco,

baci dati furtivamente,

carezze e sguardi di fuoco.

Ho sentito il giuramento

dell’amante all’amata; in questo posto,

tra canti e festini,

ho visto una fila di puntini.

 

Io ho visto cerbiatte venire di notte in questo luogo santo,

capriole in corpetto

da destare stupore e incanto

ed altre figure

mascherate di nero mantello:

quelle più pudiche

si sono bagnate le labbra tanto secche.

 

Ho sentito storie

che a raccontarle non sembrano accadute.

Cetre armoniose, Frusci di contrabbando e bisbigli;

ombre misteriose

hanno ballato a secondo dei suoni,

ed altre cose ancora

che non ho visto perché era buio.

 

 

…Mi vantano i dottori

vero rimedio per la gente stitica;

ai miei umori

viene per purgarsi la Politica.

Messeri e signori,

nell’ora tanto delicata del voto

qui, come un saturnale,

danno il famoso pranzo elettorale.

 

Allora i maccheroni

muoiono in bocche dote e affamate,

mescolati a discorsi

e a belle promesse mai mantenute.

Quante discussioni

ancora vive in me sono impresse!

Ma di tante parole

ho raccolto un sacco di frottole.

 

Alla mia aria fresca

Vengono a fare pace gli avversari.

Differenti contrasti,

preti, poliziotti e commissari

e nobili spie,

qui danno feste e divertimenti.

Qui il delitto

a fatto l’occhiolino alla giustizia.

 

Qui l’allegria

non veste mai l’abito della tristezza

Ho sentito Pipia

cantare a gara con l’usignolo;

l’armonia dolce

di quelle voci mi ha consolato.

Ai canti melanconici

ho risposto con soavi mormorii.

 

 

 

 

Traduzione delle poesie in sardo

 

 

 

 

 

 

Un tempo veniva

un giovane pallido e magro.

Qui invocava le nove muse del Parnaso:

afflitto piangeva,

e mentre mi dava un bacio,

mescolava le sue amare

lacrime alle mie acque chiare.

 

 

 


1 Collettivo “Peppino Mereu” di Tonara. Nanneddu meu “poesias de Peppinu Mereu”. Ed. Condaghes Cagliari 2001. pag.216.

                                                                                                                                                                                                                                       2 Scrive “La Sardegna”, nella sua corrispondenza da Fonni, il 27 ottobre 1893: “Assassinato Veracchi Giovanni colpito con l’occhio della scure. Il Veracchi è una figura conosciuta, fu arrestato come complice dell’assassinio del brigadiere Bò e poi fu il primo teste di accusa e fece arrestare due persone ritenute complici nell’assassinio. Faceva una vita ritirata e per paura rincasava sempre presto e non usciva la notte”.

 

3 Sa giustissia ti istruat si diceva allora tra la gente comune, come pur oggi si ripete.

4 R. GORLA, Genesio Lamberti “Educatore Civile”, Tipografia e Libreria Gallizzi & C, Sassari. 1904.

5 R.CARTA RASPI. Storia della Sardegna., Mursia Milano 1961, Pag. 881 “… la vandalica distruzione dei boschi consentita per cifre irrisorie ai concessionari di miniere e soprattutto agli appaltatori del ricco patrimonio forestale che dell’isola avevano fatto un immenso braciere per ricavarne carbone vegetale. Si può avere qualche idea del disboscamento operato con i dati dell’esportazione di alcuni anni. 22.315.578 (alberi tagliati) nel 1864, 32.701.922 nel 1865, 29.177.192 nel 1896; cifre tuttavia inferiori a quelle dell’esportazione in Francia e in Spagna fra il 1876 e il 1900”. Danno irreparabile non solo agli effetti idrografici e per l’economia in generale, ma pure per i riflessi climatici e l’estensione della malaria.”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

6 C.F.R. C.RASPI id, pag. 882: “Si pensi, che nell’anno 1883 furono esportati a Marsiglia via Genova 26.168 tra buoi e vitelli e i pagamenti venivano effettuati in monete d’oro (marenghi). Poi, il protezionismo del Regno Sabaudo provocò la cosiddetta guerra doganale che pregiudicò e mise in ginocchio la nostra isola per anni a venire, già mortificata da carichi fiscali esorbitanti per e tartassata da odiosi balzelli, che non davano tregua”.

6 C.F.R. Collettivo “Peppinu Mereu” di Tonara. Id. pag. 217.

 

7 Nella poesia sarda la metafora, il sottinteso la poesia cosiddetta in “suspu” spesso si respira tra le rime. le allusioni e i doppi sensi, che, in alcuni casi sono evidenti, a volte bisogna saperli cogliere come in es. Cuntento broccas mannas e brocchittas, riferimento probabile ai seni delle donne.

 

 

8 R. MANCONI, Vecchia Florinas, Tipografia Stella Alpina, Novara 1959, Cfr. da pag. 111 a p. 116.

[1] Riferito ai sacchi di carbone 

[2] Capanne circolari costruite dai pastori

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