Da Santa Nosta a Damasco
I preparativi per la partenza
Ottobre è il mese designato dagli organizzatori per il pellegrinaggio in Siria. Centoquarantadue, questo il numero dei partecipanti, rappresenta il limite massimo dei posti disponibili sul Boeing, l’aereo utilizzato per il viaggio di andata e ritorno..
Ognuno di noi è pronto per la nuova avventura. Chissà che sulla via di Damasco non si rafforzino le nostre già deboli linee di difesa religiosa. E’ quanto spera e si augura ognuno di noi. Io parto con questo intento anche se, nel taccuino della mia memoria, ho altri propositi e fra questi, in primo luogo, l’apprendimento di nuove nozioni sugli impianti idrici del passato. Mi riferisco alle norie, un tipo di ruota idraulica ancora utilizzato in Medio Oriente.
Le norie sarde
Da noi in Sardegna, soprattutto nel Campidano, i mulini per il sollevamento dell’acqua dalle viscere della terra e per la successiva distribuzione alle utenze agricole hanno fatto la loro storia da tempo.
E’ leggendo Pastori e contadini di Sardegna di Maurice Le Lannou che ho fatto la conoscenza per la prima volta di questa singolarissima macchina a trazione animale. Incuriosisce in particolare la foto di un contadino di età non ben definita che con molta pazienza governa il movimento di un asino bendato nel suo percorso circolare attorno agli strumenti di bordo del bindolo, la struttura in legno montata ad arte sulle estremità superiori del pozzo.
Da quando sono entrate in funzione le pompe a motore il mulino ha ultimato la sua corsa. Ad onor del vero io non ho mai visto una noria in attività e tanto meno allo stato dismesso. I più anziani di me di dieci e più anni potranno dire di aver visto o sentito parlare di questi mezzi utili all’agricoltura.
La curiosità mi ha sempre stimolato a saperne di più, ma non abbastanza. Agli inizi dell’anno Duemila, durante una degenza in un ospedale di Cagliari, ebbi la fortuna di conoscere Efisio Nonnis, uno dei pochi esperti della materia in campo isolano, il quale mi trasmise molte nozioni utili alle mie indagini. Tutto il materiale raccolto attraverso la ricerca condotta in biblioteca sulle opere di vari autori dei secoli scorsi quali l’Angius, il La Marmora, il Cossu, il Wagner, lo studio di molte schede dei vari Condaghi e la attenta rilettura del De Architectura di Vitruvio finiva per avere, grazie alle lezioni impartitemi dall’amico di Uta, una più efficace valenza.
Adesso, dopo una più attenta rivisitazione di alcuni pozzi di Uta, e di quelli che ancora esistono ad Oristano, mi reputo in grado di modellare e costruire con le mie mani l’impianto che una volta regolava il deflusso dell’acqua dalla falda sotterranea. Di ogni organo conosco il funzionamento, le misure, la sua utilità e la sua denominazione in dialetto campidanese. Dieci anni fa il Nonnis mi aveva anche pregato di rendere pubbliche le sue testimonianze in quanto riteneva che, in capo a poco tempo, tutto sarebbe passato nell’oblio. La mia pigrizia in particolare e molti altri miei impegni di varia natura mi hanno sempre impedito di onorare la promessa fatta.
A Cagliari i fontes publici, quelli che si possono identificare nella Cosmografia del Munster, che è del 1553, erano ubicati nel rione di Castello. Nel periodo dedicato ai monumenti aperti ho visitato per ben due volte il pozzo di San Pancrazio, forse il più interessante dell’isola per la sua storia e per i suoi novantadue metri di profondità. Ogni volta un’emozione diversa. Sino a metà Ottocento la noria di Piazza Palazzo, identificata dall’impalcatura lignea e dal giogo di buoi impegnato nel trasportare in superficie le centinaia di vasi di terracotta pieni d’acqua, rappresentava uno scenario alquanto indecoroso. Si decise di trasferire l’intera struttura alcuni metri più in basso, di rinnovare il manto stradale e di posizionare su detta superficie un affusto di cannone. Per chi intende rendere visita a questo importante monumento deve sottostare al sacrificio di infilarsi per pochi metri nello stretto cunicolo che porta direttamente alla imboccatura del pozzo. Ci sono sempre tanti curiosi per la ricorrenza cagliaritana.
Poco interesse invece viene manifestato ai pochi elementi di una noria in ferro sistemata sulla parte alta dell’Orto Botanico cittadino. Poche anche le informazioni date dai depliant e nulle quelle offerte dalle guide. Per saperne di più bisognerebbe affidarsi ai pochi esperti, ora in via di estinzione.
Ciò che mi inorgoglisce di più, ai fini delle mie modeste conoscenze sulla noria, è l’essere riuscito nelle vesti di barbaricino, già conoscitore delle strumentazioni delle gualchiere e dei mulini movimentati dall’acqua, a documentarmi adeguatamente sullo studio del mulino d’acqua, su mobinu di acqua, ossia l’impianto che macina l’acqua, come viene chiamato nel Campidano, a differenza del mulino ad acqua, su molinu a abba come viene definito nel Nuorese, che invece macina granaglie.
Mi mancava la ciliegina da mettere sulla torta. Vedere finalmente in funzione le norie siriane. Il meccanismo e la struttura di queste ultime, per quanto molto semplici, sorprendono per la loro imponenza. Si diversificano da quelle sarde per la forza motrice, che è data dalla corrente dei fiumi, e per la presenza di una sola grande ruota, che trattiene attorno alla sua circonferenza i contenitori dell’acqua. Solitamente l’asse di rotazione poggia le sue estremità sulle sommità di due notevoli costruzioni in pietra di forma triangolare. La parte emergente di queste strutture portanti, che affogano le fondamenta sul greto del fiume, supera l’altezza di sei e più metri. E di sei e più metri è la lunghezza di ogni raggio che insiste sulla circonferenza e sul mozzo dell’impianto. Questo è quanto ho potuto constatare leggendo i depliant offerti dal tour operator e navigando su Internet.
Ad Oristano le norie erano di casa sino alla comparsa delle pompe a motore che le ha mandate immediatamente in pensione una settantina di anni fa. Rimangono oggi le ampie vasche di raccolta dell’acqua ed i profondi pozzi sull’imboccatura dei quali in alcuni casi si ritrovano ancora i tre monoliti che una volta supportavano l’impalcatura in legno. Sa pedra sola e is pedras de su casteddu, erano le denominazioni dialettali riservate alla pietra solitaria ed alle pietre del castello. Casteddu, forse in riferimento al castellum aquae, il grosso serbatoio d’acqua utilizzato dai romani per convogliare il prezioso liquido negli acquedotti. Ripeto questi tre supporti, perso il loro equilibrio statico di verticalità giacciono oggi scompostamente sul terreno.
Nelle adiacenze del campo sportivo erano ospitati diversi mulini d’acqua. Uno aveva le sue coordinate all’interno di una vasta area oggi incolta ed una volta interessata dalle colture agrarie. Di esso rimangono il pozzo, il cunicolo d’ingresso con diversi scalini che portano al piano sotterraneo, la vasca di raccolta dell’acqua (su accibi ma anche su orcibi) e, disseminati in superficie, i tre blocchi di basalto che supportavano il bindolo. Nelle immediate vicinanze, a distanza non superiore ai cento metri, nella tenuta appartenuta al signor Carlo Nebiolo, esisteva un secondo mulino del quale oggi rimangono il pozzo e la struttura per l’accesso sotterraneo. Ad una cinquantina di metri più avanti, tra l’abside della chiesa di San Martino e la cinta esterna dell’ASL, veniva localizzato un terzo impianto. Sino a pochi anni fa erano ben visibili sull’imboccatura del pozzo oltre alle pietre portanti, somiglianti nella loro posizione eretta a dei menhir, anche le feritoie (is buccas de sa funtana) che consentivano, attraverso il nastro trasportatore in vimini, il passaggio dei contenitori, is congius, dalla falda acquifera sino alla prima vasca di raccolta. Nessuno si cura più di questi reperti archeologici del passato. Pochi, ma veramente pochi, sanno del loro apporto dato all’agricoltura.
Domani verrà effettuata una visita ad Aleppo, città cara alla cristianità, alla storia ed alla sua vitalità economica, e dopodomani si arriverà ad Hama, la tappa più importante della mia visita in Medio Oriente, dopo quella riservata alla via Recta di Damasco. Sono ben preparato ad incontrarmi con queste strutture lignee ed a conversare con esse il più a lungo possibile, come se avessero un’anima disponibile al dialogo. Le impressioni che ne ricaverò faranno parte del mio inconscio e so che dureranno a lungo nel tempo. So che non tradirò alcuna emozione esterna. Farò finta di nulla come se fossi uno qualunque dei 142 pellegrini. Quando l’ultimo dei turisti avrà voltato le spalle a questi curiosi marchingegni io non mancherò di avvicinarmi e di salutarli con simpatia.
In volo verso la Siria
Queste cose vado ripassando nella mia memoria durante il volo Cagliari-Aleppo. Fa una certa fatica l’hostess a governare avanti e indietro il carrello carico di bevande e cibarie. Mi sembra di avvertire in lei un certo disagio, ben mascherato dalla solita indifferenza. Forse è una mia impressione. Ma, affrontare sempre con il sorriso delle migliori occasioni quattro ore di viaggio non è né facile né semplice. Purtroppo nel tempo le aspettative dei tanti precari sono appannate dall’incertezza di un futuro non sempre roseo. Non sempre i sogni vanno di pari passo con la realtà.
A bordo siamo distribuiti in 24 file orizzontali da sei posti ciascuna. I più fortunati, quelli che hanno trovato sistemazione a diretto contatto con gli oblò del velivolo, hanno la possibilità di leggere il paesaggio sottostante.
La nostra età media è stimabile intorno alle sessantacinque primavere. Gli anni di vita probabile si aggirano sui quindici autunni. Sembriamo cambiali in scadenza o meglio dei titoli obbligazionari pronti ad essere estratti e conseguentemente cancellati dal debito pubblico. Finora vale il pagamento periodico degli interessi ma alla liberazione del titolo non vi sarà alcuna corresponsione del valore capitale. Il nostro valore attuale equivale quindi alla capitalizzazione delle rate di pensione ancora da riscuotere. Intanto si vive alle spese dello stato e sulle spalle di chi è in attività lavorativa.
E’ strana la vita. Erano pelate le zucche degli anziani del mio paese quando, durante le funzioni religiose della parrocchia, sul finire degli anni quaranta del secolo scorso, facevano capolino dal bavero del cappuccio d’orbace o quando, durante le processioni, ondeggiavano lentamente e pesantemente a destra e a manca lungo le strette vie del villaggio.
Già da lungo tempo quelle zucche pelate hanno ceduto il testimone della calvizie a molti dei partecipanti di questo pellegrinaggio in terra d’Oriente. Ma cosi è. Invecchiare non piace a nessuno. Conosco lo stato più meno precario di alcuni passeggeri. Vi è chi dichiara stati di benessere soddisfacenti ma vi è anche chi si attesta su percentuali di invalidità molto elevate. Ognuno ha la sua riserva di medicinali nella borsa da viaggio. Valgono come toccasana per invecchiare meglio e vivere il più a lungo possibile. Se il tempo non esistesse non avrebbe senso parlare di malanni e stati malessere. Non conosco al momento formule di azzeramento di tale entità astratta.
Dall’altezza di undicimila metri non si può vedere gran che dal finestrino dell’aereo. La rotta di volo non è stata dichiarata dagli operatori di volo per cui ognuno è libero di leggere il territorio sottostante a seconda delle sue conoscenze geografiche. A me sembra di riconoscere un’isoletta dal manto nero. Deve trattarsi di Stromboli. Più avanti vedo lo stretto di Messina e quindi i versanti occidentali ed orientali della Calabria. Di lì a poco il mare Ionio è pronto a cedere il passo all’Egeo. Tante isole sotto di me ma non riesco ad identificarne alcuna. L’isola di Cipro è riconoscibile per la sua vasta estensione. Dopo si entra in territorio Siriano. I parametri di una metropoli come Aleppo mi sfuggono. Forse l’aeroporto è distante alquanto dal centro abitato. L’atterraggio è morbido, molti applaudono. Le hostess e gli steward riferiranno certamente di questo atto di omaggio al comandante.
Siamo in Medio Oriente, nella vasta area che comprende anche la Fenicia e fenici sono stati coloro che, dopo essersi attestati in terra d’Africa, hanno maturato i loro propositi per importanti sbarchi in Sicilia ed in Sardegna. Sono diversi gli insediamenti del passato nella nostra isola. Cito per brevità ed importanza le sole città di Cagliari, Nora e Tharros (l’odierna Oristano).
Siamo qui anche per rendere visita ai nostri colonizzatori del passato.
Aleppo di notte
Prima notte ad Aleppo. L’albergo che ci ospita svetta alto, altissimo sulla verticale di Cassiopea. I septem triones, ossia i sette aggiogamenti stellari dell’Orsa minore, vagano, con coordinate mobili rispetto al nostro punto di osservazione, più a nord. Ben distesi a grappolo sul firmamento di questo emisfero boreale sembrano dare il benvenuto al nostro gruppo, quasi a proteggere dall’alto i giochi d’acqua espressi dalle fontane inserite nelle piscine di giardini ben curati. Molte piante esotiche sono disseminate lungo i percorsi della nostra residenza. Nella hall, il servizio d’ordine del personale addetto alla reception, è impeccabile. Bon ton, musiche di sottofondo e luci soffuse nelle varie sale di riposo creano i presupposti per una buona permanenza. Viene offerto agli ospiti il drink di benvenuto in calici di pregevole fattura. Molti ne approfittano ma la minoranza non gradisce affatto. Non si sa mai. La maledizione di Montezuma è sempre in agguato. No grazie. Su pistighignu alias su pennitziu, la preoccupazione o meglio il rischio che si corre nel dissetarsi e nell’alimentarsi costituirà una costante per tutto il viaggio. Finora mi è sempre andata bene, ma d’ora in avanti non so.
Al mattino i centoquarantadue pellegrini vengono suddivisi in tre gruppi e ad ognuno di essi è assegnata una guida. Vengono distribuiti anche i cappellini di appartenenza secondo la provenienza: blu per i turisti della Barbagia, e gialli e rossi per quelli del Campidano. Quando si va a prendere posto sui pullman non c’è da sbagliare. Anche i mezzi di trasporto sono riconoscibili non per la targa ma per i numeri 1-2-3 incollati e ben evidenziati in alto sulle fiancate.
I componenti del gruppo barbaricino
Il sottogruppo dei tonaresi è costituito da Tonino, Antonietta, Maria e dal sottoscritto. Sono tutti di origine controllata. I loro cognomi sono citati nei registri parrocchiali già dalla fine del Cinquecento. Li presenterò in questo viaggio con la sigla d.o.t, cioè di origini tonaresi, per distinguerli da quelli affini, i nuovi entrati, che chiamerò d.o.i, vale a dire de intradura. Fra questi una sassarese che risiede da molti anni in paese ed una del Campidano di Cagliari che vi abita col marito saltuariamente. L’età media del sestetto è di settanta anni. Più numerosa la componente dei desulesi, definibile intorno alle sette od otto unità. Non mancano gli aritzesi, i meanesi ed i gadonesi. Tra i barbaricini sono da annoverare due ovoddesi ed una fonnese.
Inseriti nel nostro gruppo Barbagia, una signora di Tiesi, una di Giave, un coppia di Marrubiu, un signore di Bosa e diversi rappresentanti di Oristano. Fanno eccezione alla regola alcune presenze extra-regionali fra le quali una signora milanese e tre siciliani dell’isola di Lipari.
Di alcuni altri non conosco la provenienza. Non si può sempre chiedere le generalità di questo e di quello. La privacy va sempre rispettata. Per i non identificati userò all’occorrenza l’abbreviazione d.o.n.c (di origine non controllata).
Città di Aleppo e dintorni
L’intera mattinata verrà impiegata per rendere visita ai siti archeologici dell’antica Aleppo ed alla Moschea mentre di pomeriggio, come da programma, è prevista la partenza per il santuario di San Simeone. Si cammina tanto sotto il sole che, quando la guida si ferma per informare il suo seguito della storia dei vari monumenti, colgo l’occasione per riposarmi nei posti più ombreggiati.
Dalla parte più elevata della Cittadella, la fortificazione dai numerosi contrafforti, si può dominare con lo sguardo l’intero panorama. Sembra Parigi dice Tonino. Nulla da obiettare da parte mia. Non sono stato mai in Francia. Comunque Forza Pàris.
Minareti altissimi sembrano frazionare il panorama in tanti settori. Di tetti manco a parlarne. I lastrici solari e le costruzioni a cupola sembrano darsi il cambio in continuità senza un ordine prefissato. I primi offrono ampio spazio a grandi antenne paraboliche in perfetto allineamento con il satellite artificiale.
Girando per i vicoli della città si ha modo di notare lo strano avvolgimento verso l’esterno delle serrande dei negozi commerciali. Non ne capisco la funzione. Forse in caso di guasti sarà più facile intervenire. Anche nei vari mercati di Damasco, nei cosiddetti suk, questi avvolgibili in ferro zincato sono presentati con il ciuffo di testata in bella evidenza. E’ per guadagnare spazio specifica la guida.
Ed eccoci a San Simeone. Della colonna dello stilita, il monaco vissuto in preghiera per una quarantina d’anni su detta sommità, ora restano il piedistallo ed un primo masso. In tempi successivi alla sua morte, per onorarne la professione di fede ed il fervente apostolato, sono stati edificati, intorno al luogo di culto, quattro basiliche ed un monastero. Di dette costruzioni oggi restano le tracce più importanti delle facciate e dei muri maestri. Le rovine sono dappertutto. Se avessi potuto curare al meglio i principi basilari della storia dell’arte sarei stato, nella presentazione di questo servizio, più puntuale e preciso.
Alla santa messa, officiata dietro l’abside di una di queste basiliche da due terne di sacerdoti, presenziano tutti i partecipanti a questo pellegrinaggio. I posti a sedere sono dati dagli enormi massi di queste macerie. Le varie fasi liturgiche sono seguite, a debita distanza e con una certa curiosità, da appartenenti ad altre religioni.
Domani si partirà alla volta di Hama, con brevi sosta ad Ebla, Sergilla ed Apamea.
La sveglia suona sempre presto la mattina e, per guadagnare del tempo prezioso finisci sempre per saltare la colazione. Caffè?. No grazie! Bevande sfuse? No grazie! Soltanto un po’ di frutta e poi di corsa verso il pullman. Le zumate non sono gradite affatto. All’occorrenza porto sempre con me nella borsa da viaggio un rotolo di carta igienica, delle buste di plastica vuote e delle bottigliette d’acqua. Null’altro.
Ebla
Il mezzo di trasporto corre verso sud. Di mattina verranno visitate Ebla e le città morte. Di pomeriggio sarà la volta di Apamea. Non so che cosa mi aspetta.
E’ ancora primo mattino quando si arriva ad Ebla. La scoperta di questo importantissimo sito archeologico, situato in un’area apparentemente priva di qualsiasi interesse storico, è da ascrivere al merito di professor Matthiae, il quale, a capo di una missione composta da italiani, si occupa di questi scavi da ben quaranta anni. Il materiale raccolto fornisce un’idea dei risultati conseguiti sul campo. Sono infatti 17.000 le tavolette di terracotta recuperate nell’archivio dell’antichissima città reale. Esse raccontano la vita di quattro mila anni fa. E non è cosa da poco specie se si considera che, tanto per dare un senso alle scansioni temporali, mentre le schede dei nostri condaghi sardi raccontano fatti di ieri, quelle eblaitiche forniscono resoconti di una settimana fa. I reperti, questi come quelli, fanno riferimento a fatti normali della vita dell’uomo come permute, contratti di vendita, successioni, ma la vera discriminante è data dal tempo che risulta espresso in millenni.
In una di queste tavolette è precisato il valore massimo determinato dai contabili di allora. Un numero cosmico costituito da appena sei cifre. Non risulta segnalato lo zero in quanto non ancora conosciuto.
Mentre la guida spiega, alcuni preferiscono passeggiare lungo i camminamenti che una volta portavano al palazzo del re, altri vanno a calcare le orme dell’antico archivio ed altri ancora fanno ispezioni nei dintorni.
Normalmente il professor Matthiae lavora con la sua equipe di archeologi nella zona più alta di questa collina. Per avere la fortuna di poterlo incontrare ed eventualmente intervistare bisognerà fare un po’ di strada, tutta in salita. Io decido di soprassedere anche perché, se mi sarà data l’opportunità di incomodarlo, non mancherò di ricordargli che il sito archeologico di Santa Anastasia in Tonara attende sempre una sua visita. Una capatina alle rovine di ciò che noi tonaresi consideriamo un gioiello di stile gotico non sarebbe poi male. Che si faccia quindi un’incaradedda durante i momenti di riposo.
Sergilla. Le città morte.
Nella sua marcia verso sud il pullman ci porta alle città morte del passato, non del secolo scorso ben s’intende. Tutto ciò che veniva espresso e manipolato dalle popolazioni di quei periodi è ancora sotto i nostri occhi: case in perfetto assetto statico, loggiati ben distribuiti al piano terreno, architravi che reggono ancora i piani superiori, camere per il normale lavoro e camere per il riposo. Quindi gli ambienti riservati all’igiene della persona quali tepidaria, calidaria, frigidaria e quelli interessati alla macinazione dei cereali, alla lavorazione delle olive e del vino con evidenti testimonianze di frantoi, mole e torchi.
Chiese per il culto cristiano, luoghi di sepoltura, fabbriche di sarcofaghi è quanto si incontra nei percorsi curati con molta bravura dalla guida siriana. Nei vari punti più strategici si ha anche l’opportunità di seguire le indicazioni offerte dai cartelli turistici locali, ma normalmente si cerca di saperne di più affidandosi alla viva voce del capo gruppo.
Borgate e quartieri spenti a Tonara
Nel visitare le rovine di Sergilla il mio pensiero corre velocemente al mio piccolo villaggio di montagna, nella Barbagia centrale.
Quando David Herbert Lorenz vi transitò fugacemente nel gennaio del 1921, Tonara era molto ben rappresentata demograficamente dai suoi antichi rioni di Arasulè, Toneri, Teliseri ed Ilalà. Appena dieci anni dopo, l’ultimo dei vicinati citati venne dichiarato ufficialmente disabitato. A soffrire le stesse pene di sopravvivenza è ora la frazione di Teliseri. I suoi abitanti sono ridotti a poche decine di anime mentre la borgata di Toneri, ha forze residue pari a meno della metà della popolazione censita agli inizi del Novecento. Completamente abbandonata la contrada di Cartutzè e sulla via dell’estinzione completa anche la fascia abitativa di Murù. Molto asfittiche le contrade di Maria Pra, Pratza manna ed altre ancora. Tanti hanno deciso di trasferirsi alla nuova frazione di Su Pranu ma i più hanno tentato la carta risolutiva dell’emigrazione.
Come potete osservare, precisa la guida siriana, quasi tutte le abitazioni sono orientate a mezzogiorno e da ciò potete dedurre i numerosi vantaggi ottenuti in passato dalle stesse costruzioni e dai loro abitatori.
La casa dei nonni materni
Anche la casa dei Garau-Floris, miei nonni materni, traeva enormi benefici dal punto di vista dell’esposizione a sud. Pratza manna, questo il nome della contrada in cui sorgeva l’edificio e vi ritrova ancora le stesse coordinate, è oggi creditrice dell’ampio spazio ceduto alla fine dell’Ottocento, a favore della costruzione e delle sue prossime pertinenze. Penso che l’agorà di una volta andasse a comprendere una superficie superiore ai quattrocento metri quadrati. Un’estensione notevole per un rione completamente arroccato sulla montagna. Oggi la grande piazza, sinonimo di Pratza manna, è ridotta ad una piccola arteria che ha i suoi punti di fuga a monte lungo le impennate della via Sulis, ad occidente verso le case dei Porru e ad oriente verso la contrada di Maria Pra.
Presumo che mio nonno, già proprietario dell’intera superficie libera, una volta definiti i confini della sua abitazione, avesse provveduto successivamente ad alienare a terzi gli appezzamenti limitrofi. Tutto questo è legittimato dalla presenza delle vedute ancora esistenti sulla fiancata laterale sinistra e sul lato nord. Ciò che oggi sembra l’espressione chiara di una servitù sui fondi altrui altro non è che una giustificazione della destinazione del padre di famiglia. Non si spiega altrimenti la mancata presenza di aperture verso mezzogiorno nella costruzione dei Pruneddu-Demurtas, i confinanti con il lato nord dell’edificio dei Garau Floris. Ma forse queste sono delle illazioni prive di ogni fondamento.
Quindi una costruzione, quella dei miei nonni, edificata in Pratza manna, una piazza che a monte di essa, nel tracciato che la univa al sagrato della chiesa parrocchiale di san Gabriele, non presentava alcun insediamento abitativo. Il mio convincimento si va rafforzando sempre di più specie se si considera che nel censimento del 1829 non viene fatto cenno alcuno alle arterie oggi denominate via Vittorio Emanuele e via Sulis, una bretella quest’ultima che unisce Pratza manna con la prima via citata. Nello Status animarum di tale anno, sono citate nell’ordine dal vice parroco Domenico Martini le seguenti contrade di Toneri: Craccalasi, Catzolaghedu, Cortzò, Pratza de is Garaus, Pratza manna, Pratza di Maria Abrà, Pratza di Vincenzo Cocco, Barigadu, Maria Abrà di basso, Pratza de is Zuccas, Cartucè (sic) e Murù. Sono anche certo che la contrada denominata Pratza de is Garaus non fosse l’attuale via Sulis bensì la sua parallela, oggi via Umberto I.
In ogni modo, ai fini di una ricerca più accurata è bene comparare i dati presenti nel registro citato con quelli dei censimenti antecedenti e successivi al 1829 e tenere bene in vista anche i restanti libri parrocchiali tonaresi, i Quinque Libri tanto per intenderci. Migliori risultati si potranno ottenere consultando il Fondo patrimoni ecclesiastici dei chierici tonaresi.
Dell’atto di donazione stipulato il 29 gennaio del 1786 in favore di Salvatore Garau, un sacerdote domiciliato in Pratza de is Garaus, riporto un breve passo curato da Pietro Ammirabile Corriga, il notaio di Pratza manna. Fra i beni in elenco risulta anche la casa di proprietà dello stesso Garau, il quale in detto contesto assume la doppia figura di donante e donatario. L’entità immobiliare in oggetto, valutata 375 lire ossia 125 scudi, rappresentava in quel tempo la quarta parte esatta della cifra indicata dal Vaticano per poter aspirare al sacerdozio.
Si precisa nel documento che las casas prop(ria)s del escrivente Salvador Garau, q(ue) se componen de dos sostres y dos sotanos, porchada, eo lonja [loggia o portico] con el aposento, q(ue) se suele usar p(o)r cosina confinante à las mismas casas, situadas dentro el poblado vesindado [rione] de Tonery, parage [contrada] vulgo praza de is Garaus, son las mismas q(ue) le ha recahido de herencia (…) q(ue) afrontan en una parte à casas dela q(uonda)m Antioga Sulis calle [via] en medio; parte à casas de Lorenzo Cucuru sendero [viottolo] en medio; parte à ruina de casas de Miguel Garau, y parte à casas de Fran(cis)co Dearca avalorada(s) en lib(ra)s 375.
La casa dei nonni materni si presentava sul finire degli anni quaranta del secolo scorso con un fronte di quasi otto metri, una profondità di oltre quindici ed un altezza che andava a regolare nei suoi tre livelli abitativi il pianterreno e due piani superiori.
Le aperture più interessanti della facciata principale erano rappresentate dai portoncini in castagno che davano gli ingressi nell’ordine alla bottega del calzolaio, all’abitazione vera e propria e alla falegnameria, e dalle finestre dei piani superiori in posizione simmetrica rispetto ai balconcini in ferro battuto.
Il breve andito del piano terreno portava direttamente al piano superiore lasciandosi sulla destra il lungo laboratorio del falegname e sulla sinistra il locale del ciabattino, la legnaia ed una stanza cieca sulla quale io non ho mai messo piede.
Il piano intermedio era regolato sul lato nord da una porticina che immetteva ad alcune stanze buie, insufficientemente illuminate da un sola lampadina di poche candele. Erano queste le stanze che davano l’accesso alla ritirata. Un ampio vano scala immetteva all’ultimo piano lasciandosi intorno l’andito, una camera da letto, una saletta riservata ai lavori di cucito ed una piccola cucina.
Al piano di sopra una sala spaziosa, illuminata dalla luce di una veduta del lato ovest dell’edificio, sembrava fungere da spartitraffico con le camere da letto, la cucina ed il locale adibito alla conservazione delle derrate alimentari.
I locali nei quali io mi soffermavo maggiormente erano la falegnameria, la calzoleria e la cucina del piano superiore. Doverosa una piccola presentazione.
La bottega del falegname.
Il locale era così allungato che l’apertura che dava all’esterno sul lato nord sembrava piccolissima, lontana, quasi irraggiungibile. Addossati alle pareti assi, tavole e tavoloni di castagno, di noce e di ciliegio. Sistemati alla belle meglio su apposite rastrelliere saracchi, sergenti, morsetti, scalpelli, sgorbie, martelli, mazze, trapani a manovella, pialle di varie misure, graffietti, compassi ed altri utensili strani, per me allora privi di alcuna funzionalità.
Il carattere distintivo del laboratorio era contrassegnato dalla presenza di due panconi provvisti di morse. Entrambi, soffocati alla loro base dalla abbondante segatura e dai trucioli, sembravano garantire l’efficienza della falegnameria. Talvolta l’acre e pungente odore della colla fumante e dell’alcool usato per la lucidatura a spirito, impregnava l’aria in modo quasi ubriacante. Preciso che in quei tempi non esistevano le vernici acriliche e nelle fasi di rifinitura, quali quelle della mordenzatura e della brillantezza dei mobili, si ricorreva all’olio di lino e alla gomma lacca.
Dappertutto regnava il disordine più completo. Impossibile rimettere a posto l’insieme.
La bottega del calzolaio
Era un piccolo locale caratterizzato anch’esso dal disordine di un deschetto sul quale trovavano posizione martelli, lisse, lime, trincetti, chiodi di varie misure, pece, colla, spago e l’immancabile ciuffo di setole. Alle pareti alcuni malandati scaffali presentavano le scarpe da ritirare e quelle da risuolare. Sul pavimento venivano spesso adagiati i fogli del pellame e del cuoio. Sparpagliati sul pavimento treppiedi, forme di varie misure ed altre immagini simbolo della calzoleria. Una piccola sedia era sempre a disposizione dei clienti e degli avventori desiderosi di ripassare le ultime notizie del vicinato.
La cucina dell’ultimo piano
Rappresentava l’ultimo vano utile dell’edificio. Gli svantaggi derivanti dall’infelice esposizione a nord erano largamente compensati dal tepore offerto dal caminetto in ogni ora della giornata ed in qualsiasi stagione, estate compresa, e dall’opportunità di osservare ciò che succedeva oltre la vetrata della porta finestra. Tra noi ed i Pruneddu-Demurtas, nostri vicini, correva una linea di confine mai definita, che io ho potuto varcare una sola volta.
Erano poche le cose che normalmente vedevo dalla mia cucina. Alla sinistra di questa fotografia che mi si parava davanti devo segnalare la parete priva di vedute di un edificio che si articolava e sviluppava verso nord per una trentina di metri, al centro un ampio cortile e sulla destra la fiancata, anch’essa priva di aperture, di una bassa costruzione. Queste erano le pertinenze fotografiche dei Pruneddu. La possibilità per loro di godere dei salutari benefici del sole era data unicamente dalle molte aperture sulla via Sulis, ad ovest, e da quelle danti sul piazzale interno, ad est.
E’ per l’uccisione del maiale dei nostri vicini che mi fu concesso di raggiungere il loro cortile. Mia nonna infatti, aprendo quella porta finestra, mi aveva permesso di varcare la soglia di casa e di partecipare all’avvenimento.
Non sono riuscito mai a spiegarmi il perché di quella forzata intransitabilità. Dovrei chiedere a mia cugina Michelina, più anziana di me di circa venti anni, che aveva vissuto nella casa dei nonni per diversi anni, anzi vi era addirittura nata, chiarimenti in proposito. Vorrei sentire anche la versione di Elena Pruneddu, altra anziana rappresentante di quel periodo ma, come sempre accade è talvolta antipatico, come ho già precisato in altra occasione, chiedere sempre a questo e a quello. Purtroppo, essendo preclusa la possibilità di intervistare il cenere muto di chi ha già adempiuto al pellegrinaggio terreno, non mi resterebbero altre vie di scelta.
Ricordo che quella famosa volta, dopo aver assistito ai soliti rituali riservati al suino, piuttosto che ritornare alla mia cucina, preferii infilarmi in un andito dell’abitazione dei Pruneddu e guadagnare l’uscita sulla via Sulis, a metà strada tra Pratza manna e la via Vittorio Emanuele, proprio nel punto in cui i passanti, ancora oggi, hanno la possibilità di attraversare lo stretto corridoio (sendero) che porta alla strada (calle) de is Garaus, l’attuale via Umberto I.
C’è da augurarsi che un domani, quando l’ultimo inquilino avrà abbandonato queste austere e severe abitazioni, possano essere riservati ai possibili fruitori l’accesso e la visita al pubblico. Si ha a che fare con beni culturali del passato di un certo spessore.
Apamea
Ancora sul pullman per altri giri, altre storie. Sempre verso sud. Ho un sobbalzo al cuore quando nei pressi di Apamea mi sembra di scorgere un acquedotto sopraelevato. E’ lì che si trovano le possenti ruote idrauliche, penso. In basso ci deve essere la vasca di captazione dell’acqua e tra il punto di minimo ed il punto di massimo devono trovarsi le gigantesche norie che, nel trasporto del prezioso liquido, fungono da castella aquae. Nulla di tutto questo. Si è trattato di un miraggio, eppure il deserto è ancora distante da noi. Bisognerà seguire un’altra direzione per poterlo raggiungere. Occorrerà procedere verso Est. Ma non oggi.
Si tratta, riferisce la guida, del colonnato di Apamea. Per poterlo visitare occorrerà coprire a piedi la distanza, da porta a porta, di circa milleseicento metri. La larghezza del tracciato ha una dimensione costante di trentacinque metri dei quali ventuno sono riservati alla sede stradale ed i restanti ai portici ed ai muri esterni.
Dappertutto rovine che sanno di piedistalli, capitelli, architravi, frontoni e blocchi di materiale basaltico. Spesso i frammenti lapidei sono contrassegnati da un numero di riconoscimento. Questa infatti è una zona ad alto rischio sismico.
Le colonne, ben modellate e differenti le une dalle altre a seconda delle maestranze che le hanno progettate e realizzate, presentano spesso, a pochi metri dalle loro basi delle mensole che una volta supportavano statue di dei o busti di facoltosi committenti i lavori. Belli, anzi bellissimi i fusti cilindrici a tortiglione o a spirale.
A metà percorso una poderosa struttura a più blocchi sovrapposti rompe la monotonia del movimento rettilineo e sta ad indicare la presenza del decumano, la via traversa.
E in questo percorso archeologico compaiono per la prima volta i venditori di souvenir. La loro mercanzia comprende fazzoletti, copricapo, tappetini, pareo, album di fotografie, oggetti di numismatica, strumenti musicali e cianfrusaglie varie. Hanno un’età variante dai quindici ai venti anni ma tra di essi anche qualche rivenditore anziano. Fra i giovani ve n’è uno che per attirare l’attenzione sui suoi pochi articoli propone la vendita di un giocattolo di colore nero che modula insistentemente il verso del maiale. Vorrei acquistarglielo per farlo star zitto ma non sarebbe la soluzione migliore. Sono certo che il grugnito riprenderebbe di lì a poco. Ogni tanto salgono sulle loro moto colorate e scompaiono da dietro i portici per poi ricomparire in altre postazioni della sede stradale. Stessi ninnoli, stessi grugniti, stessi quadretti di tentata o forzata vendita.
Hama
Ad Hama si arriva all’imbrunire. E’ la città delle norie. Una volta ultimate le solite formalità alla reception mi avvio verso la mia camera d’albergo per depositare i bagagli e per fare conoscenza del mio nuovo alloggio. C’è sempre un certo interesse a sapere che cosa vedi dalla finestra. E’ sempre preferibile per chiunque poter usufruire e godere, anche se i tempi di pernottamento sono ridotti, di un panorama mozzafiato piuttosto che di una zona orfana del minimo indispensabile. Resto di stucco quando mia moglie, più lesta di me nello svolgere l’ultima tendina del complesso tendaggio mi partecipa della presenza di alcune norie proprio di fronte all’albergo, ad una distanza in linea d’aria non superiore ai cinquanta metri. Le luci soffuse non impediscono di inquadrare lo stato di immobilità delle loro potenti strutture, ben supportate intorno ai terminali dei loro assi di rotazione da due imponenti costruzioni in pietra. A muoversi intorno alle acque lente e basse dell’Oronte, un fiume che nasce nel Libano e va a sfociare nel Mediterraneo, solo delle papere che si lasciano trasportare dalla corrente. Qualche curioso vaga intorno ai camminamenti che portano alle ruote dei grandi impianti. Al disopra del punto massimo di rotazione intravedo la vasca di ricezione dell’acqua e dietro di essa l’acquedotto sopraelevato.
Il punto focale che inquadra queste ruote idrauliche dal diametro superiore ai quindici metri è ben supportato da una costruzione a più cupole, forse una moschea, e da un campanile a forma di minareto. Sotto di me il ponte che collega e divide le due parti della cittadina. Intorno al fiume tanto verde. Un quadro magico, quasi fiabesco. Sembra di essere ad Asiago. A me in particolare produce una strana sensazione che mi ripaga abbondantemente del tempo impiegato nello studio di queste ruote del passato. Vado a comprendere fra queste ultime i mulini ad acqua ancora in attività a Samugheo e le gualchiere di Tiana, mulini che macinano le granaglie i primi e feltrano, o meglio feltravano l’orbace, le seconde. Mi ritornano alla mente i pozzi cagliaritani del rione di Castello senza dimenticare tutti quelli che ho potuto visitare nei centri di Uta ed Oristano. Passo ancora in rassegna le varie fotografie che mi hanno permesso di effettuare una prima lettura degli ingranaggi per certi versi complessi delle norie sarde, le interessanti pagine degli autori che nel passato hanno trattato di queste macchine utili all’agricoltura e per ultimo le particolareggiate lezioni tenute da Efisio Nonnis.
Ricordo benissimo quando, nelle corsie del San Giovanni di Dio, mi parlava de is arrodeddus ossia della ruote, orizzontale e verticale, che impegnavano rispettivamente la trazione dell’animale ed il trascinamento dei contenitori di terracotta. Vedi, mi diceva, l’ingranaggio è simile a quello operante in un macinino da caffè. Per essere più convincente distendeva la mano sinistra in posizione orizzontale e con la destra tenuta verticalmente andava ad incrociare le dita le une con le altre per effettuare un piccolo movimento.
Aveva anche cercato di mimare due diverse inquadrature dell’impianto facendo ricorso a due visualizzazioni, una dall’alto ed una di profilo.
La prima permetteva di mettere a fuoco un’area circolare sulla cui corona esterna si identificava il percorso dell’animale. All’interno di essa un punto ben definito stava ad indicare la parte terminale dell’albero che, mobile come un fuso, consentiva, intorno al suo asse, il movimento della ruota orizzontale. Sempre dall’alto si potevano scorgere i due tiranti, sa petia trota e sa ghia ossia la pertica storta e la guida, che assicuravano la perfetta tenuta dell’asino attorno al bindolo. La ruota verticale sfuggiva ad una sua lettura essendo ben mascherata dalla puleggia esterna e dai contenitori di terracotta. Nei pressi dell’area circolare citata trovava sistemazione su accibi, ossia la vasca di raccolta dell’acqua.
La seconda visuale, quella regolata ad altezza d’uomo, permetteva invece di inquadrare la ruota verticale con i contenitori dell’acqua, l’asino, gli addentellati della ruota orizzontale e l’albero con i relativi agganci. Tutto qui.
Mi sono anche ripromesso di costruire una piccola noria con materiale di fortuna ma la pigrizia me lo ha sempre impedito. In effetti aspettavo di fare la conoscenza della noria siriana. Ora non ho più scusanti. E sono passati più di dieci anni dai corsi teorici e pratici tenuti dal signor Nonnis.
Nel periodo dell’irrigazione dei campi, riferiva il mio maestro, gli acquadoreddus, i piccoli addetti al governo della noria ed alla annaffiatura degli orti, oggi attempati ottantenni, erano soliti esternare, a voce alta, spesso strillata, la contentezza di fine turno di servizio, con il seguente duetto:
Note strillate del mittente:
Prima strofa Oooooh! Oooooh!
Seconda strofa O Antoni tou, O Antoni tou,
oppure O tui tou, O tui tou,
Terza strofa Cantu n’di tenis ancora? Cantu n’di tenis ancora?
Risposta del destinatario
Ni tengu tres iscetti, tres iscetti
oppure Ni tengu duas e mesu, duas e mesu
oppure Ni tengu duas ancora, duas ancora
oppure Appo accabau, appo accabau.
Tali messaggi, trasmessi inter agros ed inter eos, miravano a far conoscere quanti solchi, giradas o coras mancavano al completamento del lavoro.
Per Pirandello: La noria a ogni giro della bestia dava un fischio lamentoso. Egli, da lontano, contava dei fischi, sapeva quanti giri ci volevano a riempire i vivai, e si regolava.
Tanto per restare in tema con la letteratura, riportiamo la seguente quartina del D’Annunzio: Laggiù, presso la mola d’un frantoio / o presso i tronchi di un’antica noria / onde pendon consunti corda e cuoio, / sorride un morto all’invisibil gloria.
E’stato riferito nel pomeriggio dalla guida, nella sua presentazione d’anteprima, che questi impianti siriani cigolano in modo molto strano. I turisti sopportano piacevolmente, non altrettanto i cittadini di Hama. Naura, questo il nome arabo della noria, deriva da nau – nau, lo stridio prodotto dall’attrito volvente dei suoi organi.
Sono questi i pensieri che vado inseguendo nella mia stanza d’albergo. Nel dopo cena tenterò di fare la conoscenza diretta di questi mulini d’acqua.
Sembra che gli interessati non siano poi pochi. A piccoli gruppi si dirigono verso l’uscita dell’albergo per guadagnare i pochi passi che portano agli impianti di sollevamento dell’acqua. C’è una certa fretta di raggiungere l’obiettivo e, come solitamente accade, si percorrono spazi e tempi in maniera molto confusa. Eravamo una decina in partenza mentre ora, sul ponte, ci ritroviamo in quattro. Due sono di Ovodda ed uno è originario di Marrubiu. Quest’ultimo è il padre di quell’arbitro di calcio dei cortometraggi (Se vuoi saperne di più digita in Google Arbitro corto). Se non sei interessato a questo sport puoi continuare a seguire queste ricognizioni idrauliche.
Per poter vedere da vicino le grandi ruote bisogna svoltare a sinistra ed infilarsi in un tunnel lungo una quarantina di metri. L’altezza massima di questo corridoio a botte, illuminato da luci molto fiocche, non supera i duecento cinquanta centimetri e la sede di calpestio è inferiore ai sei metri. Vado avanti deciso e determinato verso la porticina posta in fondo alla mia sinistra, pronto, una volta raggiunto l’ingresso, a cedere il passo a chi mi segue. In alto, oltre un muro di cinta, già si intravedono le immobili e nere pale della noria. Gigantesche, dalla cintola in su, quasi incutono paura.
Addossati agli stipiti della piccola apertura due giovani discutono animatamente tra di loro. Penso che questo quadretto non possa risultare gradito alle due d.o.v ed al d.o.m. infatti, come mi volto per favorire la loro entrata, mi accorgo che i tre non intendono proseguire. Non è necessario porre alcuna domanda per capire le loro intenzioni. Accetto in silenzio il loro responso muto e, sebbene contrariato, faccio marcia indietro.
All’uscita dal tunnel si procede per altre direzioni salvo ripassare sul ponte più tardi. Forse la soluzione adottata è stata la più giusta. Che si stesse preparando un complotto alle strutture turistiche di Hama? Non penso. I siriani sono i più pacifici della terra, a detta di Iasser. Comunque leggere dall’aldilà, nella peggiore delle ipotesi, che un italiano era rimasto vittima di un attentato non mi avrebbe fatto certamente piacere. Danni notevoli alle strutture del mulino dei tempi di Eliogabalo. Chissà quanto tempo occorrerà per rimettere a posto l’antico impianto. Nella tarda mattinata, il corpo esanime di un italiano, esperto di ruote idrauliche, non era stato ancora rimosso dal luogo dell’incidente. Così avrebbero dato la notizia i giornali locali.
Al rientro in albergo tutti sembrano fenici e contenti di essere passati sul ponte, di aver svoltato a sinistra verso il tunnel, di aver visto i bravi manzoniani, di avere raggiunto le postazioni migliori per inquadrare la noria, di aver fatto numerose fotografie e di avere sostato a lungo sui vari camminamenti a ridosso del fiume. E’ proprio vero. Dopo il danno la beffa. Qualcuno si era anche permesso il lusso di salire gli scalini che portano all’altezza dell’asse motorio della grande ruota. “Ho contato anche le ochette”, riferisce un altro, “il sessantotto per cento veniva trascinato lentamente dalla corrente mentre la restante percentuale, la parte migliore, remava contro”.
Solo gli animali acquatici sanno cosa significa sguazzare in mezzo al fiume e vedere in contemporanea i movimenti sinistrorsi e destrorsi delle norie situate sulle rive opposte. Solo loro sanno quanto sia bello assistere ai voli d’angelo dei piccoli temerari che, dopo essersi aggrappati al bindolo, si tuffano a capofitto nel greto dell’Oronte. Alle papere interessa solo questo scenario per certi versi paradisiaco. Poco importa che l’acqua che le trascina in direzione della Turchia, provenga dal Libano, che alla loro sinistra dietro le montagne ci sia il Mare nostrum ed alla loro destra, oltre il deserto, l’Irak e le sue tensioni.
La visita ai mulini d’acqua è programmata per domani mattina. Poi si partirà ancora verso sud alla volta della imponente fortezza dei Crociati, chiamata il Krak dei Cavalieri.
Si sale sul pullman e si va verso il centro della cittadina di Hama. Non provo più alcuna emozione nel vedere in mezzo al fiume un bindolo in movimento. Mi sembra di sentire uno strano nau-nau. E’ il rumore prodotto dal grande impianto. Forse l’avranno fatto girare appositamente per noi creando delle spinte maggiori verso la condotta principale, ma, la forza è insufficiente a garantire al liquido raccolto nelle cassette di raggiungere la vasca che immette nell’acquedotto. L’acqua ricade sugli stessi legni dell’impianto.
Più avanti, costeggiando il fiume si intravedono altri mulini. Dal punto di vista didattico non c’è più nulla da capire. A Damasco rivedrò ancora altri impianti finalmente operativi, con i contenitori pronti, una volta raggiunto il punto morto superiore, ad esternare il loro cucù all’interno della vasca sopraelevata.
Il Krak dei Cavalieri
Dopo qualche ora di distanza da Hama si arriva alla fortezza dei Cavalieri, una costruzione edificata dai crociati per far fronte alle incursioni cadenzate nel tempo da ottomani, mammalucchi, mongoli e arabi.
Iasser, la nostra guida, impiegherà diverse ore per presentare ed illustrare gli avvenimenti che hanno interessato la storia di questo monumentale avamposto sulla via di Gerusalemme. Si concederà qualche breve pausa lungo i percorsi interni che portano alle varie postazioni per i cavalli, per le vaste sale refettorio, per le cucine e per i vari punti di difesa disseminati lungo le torri di avvistamento del nemico. Riferirà più avanti che all’interno della fortificazione, eretta su di un’area di tremila metri quadrati, montassero continuamente la guardia ben sessanta cavalieri e che i cinquemila soldati della guarnigione disponessero di provviste alimentari per un periodo di cinque anni.
Con la storia in generale non vado molto d’accordo specie quando si fa riferimento a date, alleanze, complotti, successioni dinastiche, califfati, sultanati, governatorati, case regnanti e così via. Non do mai troppo peso alle questioni di lana caprina. A meno che non vi sia un interesse specifico per qualcosa di particolare come quando mi trovo davanti al portico gotico della fortezza. Gotico francese preciserà la guida più tardi.
Le sette campate della volta ripropongono gli stessi schemi presentati dal rettore Raimondo Bonu per il tempio, oggi in rovina, di Santa Anastasia di Tonara, la chiesa interdetta al culto dei fedeli nel 1785, per mancanza di dote, da parte dell’arcivescovo Cusani. Il Bonu, uno storico molto apprezzato per le sue numerose pubblicazioni, riferisce nell’opuscolo Ricerche storiche su due paesi della Sardegna (Gadoni e Tonara), edito nel 1936, che le tre arcate a crociera erano di stile gotico con la movimentazione a sesto acuto tanto negli archi perimetrali quanto in quelli diagonali. Le chiavi di volta delle strutture sovrastanti erano rappresentate da dei pomi di pietra, volgarmente chiamati dai tonaresi dei secoli scorsi con il nome di campaneddas, mentre qui nella fortezza i vari punti di intersezione sono contrassegnati da croci greche o disegni circolari. Non sappiamo da quali fonti il parroco citato abbia attinto le notizie sull’antica chiesa patronale ma tanto basta per credere, data la lettura ogivale che si può fare oggi degli unici monconi laterali del tempio, di essere nel rispetto della verità storica.
Vedi, dico a Maria, qui è come se fossimo a Tonara. Lei mi guarda incredula, quasi ritenendo impossibile che le maestranze tonaresi fossero state capaci di realizzare, sul finire del milletrecento o agli inizi del millequattro, come precisa sempre il Bonu, espressioni di così alta fattura.
Ed ora un breve descrizione dell’avvenimento che ha interessato buona parte della comunità tonarese in un pomeriggio domenicale di questo 2009. Si tratta di una messa riparatrice in onore di santa Anastasia. L’ultimo rito liturgico di suffragio era stato officiato ben 225 anni fa. Per noi d.o.t è un evento storico di singolare importanza. E’ il sei di settembre.
Pietre che parlano
Avevo accettato di buon grado l’invito rivoltomi da padre Cuccui, rettore parrocchiale a Tonara da meno di un anno, a partecipare alla messa in onore di santa Anastasia, patrona tonarese sino all’anno 1616. Ad onore del vero avevo anche preso nota della locandina presentata urbi et orbi sui canali di Internet che precisavano, attraverso il titolo di testata Perdas chi narant, dell’appuntamento fissato per le ore sedici di domenica sei settembre.
Ed eccoci arrivati al giorno della manifestazione. L’aria è calma. La risultante di tutte le forze agenti sul clima è nulla. Il silenzio è irreale. Sembra che parlino solo le pietre di questa arena ricavata sulle ultime prominenze dei vari rioni del villaggio. Le case dei vicinati, esposte in maggioranza a mezzogiorno, sembrano quasi sgomitare, nella loro disposizione sui vari anelli del vasto teatro naturale, per avere una visuale migliore.
C’è qualcosa nel cielo che, a livello di nuvole, sembra minacciare qualche improvviso rovescio d’acqua. Pioverà? E’ questa la domanda che rivolgo ai pochi presenti. Italo, uno degli ultimi rappresentanti del rione di Teliseri esclude a priori che ciò possa accadere. Chiedo poi a Giuanni della contrada di Murù, frazione di Toneri, di fare delle previsioni sul numero dei partecipanti al raduno religioso. Non so, risponde, dipende da quel che decideranno i residenti delle altre frazioni. Purtroppo Santa Nosta e(st) de Toneri. Est cosa nosta. Non de is ateros. Queste le sue conclusioni. Staremo a vedere.
Sono le diciassette ed ancora non si vede nessuno.
Il quadretto che si presenta di fronte a noi, che ci troviamo a ridosso di una montagnola di detriti, è muto. Al di qua delle tre pareti del tempio, nella zona una volta riservata al transetto ed alla navata centrale, stazionano una ventina di sedie bianche di plastica e, vicino a noi, alcuni sgabelli di forma allungata ed un tavolo anonimo. Sullo sfondo la vallata con i monti che la proteggono dall’alto. Si continua a discutere del più e del meno. Sempre calma irreale. Si pensa già ad un insuccesso piuttosto che ad una buona riuscita della manifestazione. Qualcuno intanto provvede ad installare un bel tavolo dalle belle tinte colorate. Fungerà da altare. E’ tutto ancora inanimato. E’ sempre la gente che fa la festa.
Alla nostra destra, al disotto di alcuni metri, un piccolo sentiero conduce ai ruderi della chiesetta mentre più avanti una mulattiera porta verso le zone agresti di Nugepasca ed Erisia. E’ lungo il sentiero citato che dovranno passare i fedeli, sempre che abbiano intenzione di presentarsi. Alle nostre spalle, in direzione nord, le strade che portano all’abitato. Quella di sinistra comunica con le ultime case di Murù, quella centrale porta, con l’attraversamento delle contrade di Cartutzè e Maria Brà, nel cuore di Toneri, e quella di destra conduce verso la frazione di Teliseri. E’ quest’ultima l’unica tratta abilitata al traffico degli autoveicoli.
Al disotto della spessa coltre di riporto su cui noi ci troviamo risponde il silenzio tombale di chi dimora in questo luogo sacro da molti secoli. Stiamo parlando del cimitero attiguo al tempio. I cinque libri di fine Cinquecento, i primi registri messi in attività dopo il concilio di Trento, testimoniano degli eventi più importanti della antica parrocchia tonarese. Si fa riferimento ai battesimi, alle cresime, ai matrimoni ed ai decessi. Il culto per i defunti doveva essere sempre rispettato. Se ne lamentava il Canopolo nel 1603 quando, ad evitare che i maiali dissotterrassero le ossa degli inumati, con decreto del 26 aprile di tale anno, imponeva ai vassalli di recingere il luogo sacro con muri alti otto palmi e di chiudere la porta d’ingresso con efficiente serratura.
Fanno intanto capolino dalle sconnesse stradine di Maria Bra de Osso, così veniva identificata questa importante arteria di Toneri dal vice parroco Martini nel censimento delle anime del 1829, i primi fedeli. Poi il vuoto. Ancora un altro gruppetto di persone. Sono i primi arrivi. Ancora il vuoto. Ed ecco un movimento ordinato, cadenzato di giovanissimi che si apre sul davanti in due file. E’ la processione. Da noi saranno distanti un centinaio di metri. Dietro di essi compare un piccolo simulacro che trova il giusto equilibrio in una portantina tenuta saldamente da due popolani. Si tratta di santa Anastasia. Nessuno fa caso al fatto che la statua sia priva di un arto o che sia di dimensioni alquanto ridotte. Forse chi ne aveva commissionato in illo tempore la realizzazione aveva pensato che la bisaccia d’orbace sarebbe stata l’unico mezzo adatto al trasporto. Io non l’avevo mai vista prima di oggi. Chissà quanto tempo sarà rimasta nel dimenticatoio dopo la dichiarazione di interdizione al culto della chiesa patronale. E’ lei che incede tra la folla in forma solenne. E’ lei che focalizza l’attenzione di tutti. Appena dietro sono riconoscibili il sacerdote, il primus inter pares, la confraternita, la banda musicale ed il gruppo cantori del villaggio. Molti gli stendardi in rappresentanza delle varie associazioni religiose e non solo.
Con la fantasia puoi gettonare e romanzare quello che ti passa per la mente ma certe volte la realtà smaschera e pone a freno i limiti dell’immaginazione. La santa patrona passa sotto la nostra postazione e di lì a poco andrà ad occupare il posto d’onore tra l’altare e l’abside. Fa un certo effetto cromatico vedere i vecchi ruderi rivestititi a festa dei tre dipinti di epoca spagnola. Il trittico cinquecentesco non poteva che fare bella figura nell’antica parrocchia di stile gotico.
E’ tutto pronto per la celebrazione della messa. C’è silenzio in ogni ordine di posti, rispetto per il luogo sacro, per la grande attesa e per il momento storico che si sta vivendo e rappresentando. Tra i fedeli molti anziani.
“C’ero anch’io” dirà qualcuno “nonostante fossi in condizioni molto precarie”. Questo vale per tutti gli assenti ingiustificati.
Il rito liturgico sembra consumarsi in breve tempo. Dopo un breve cenno al martirio della santa ed alla storia della nostra comunità nel passato, il celebrante, senza tentennamenti e con voce sicura, fa un richiamo ai principi di fede di ogni cristiano. Poche parole ben dette che fanno breccia nell’animo dei presenti. E sono tanti. Circa ottocento persone. Fra questi molti anziani. Pochi i bambini. Il problema della denatalizzazione ha interessato in questi ultimi decenni soprattutto queste terre di montagna. Finiti i tempi di attiare assutu quando sui sagrati delle chiese i piccoli, in gran numero, attendevano il termine delle funzioni religiose dei battesimi per dare la carica ai padrini in cerca di monetine.
La messa è partecipazione di popolo, messa sentita, messa per tutti, al di là delle pretestuose e insignificanti sfilacciature di carattere rionale. Per molti una grande emozione.
I giovani presenti non hanno nulla da chiedere agli anziani né questi hanno qualcosa da raccontare. La traditio è muta. Molte zone d’ombra e poche schiarite. Restano gli archivi che scoppiano di salute. Basta darsi da fare e attendere. Inutile abbandonarsi alla filosofia di una storia saltuaria ed episodica.
A livello di cronaca si è trattato di una bella partecipazione di massa. Io riferisco quanto ho visto. Verità nuda e cruda. Se affermo che in taluno l’emozione ha ceduto il passo alla commozione sono nel vero. Vi è anche una lettura filmata di cui si può fare affidamento ricorrendo ai potenti canali di ricerca dei nostri computer. Complimenti al fotografo.
Presente chi non poteva muovere un solo passo da casa senza l’aiuto degli appoggi artificiali. Assente chi poteva benissimo gestire le proprie forze in lungo e in largo. Se ne sarà pentito amaramente. Sono questi gli appuntamenti che contano e non si ripetono. Certo, vi saranno altre occasioni di riscatto come ad esempio la consacrazione della nuova chiesa, non c’è dubbio, ma la serie dei momenti che hanno consentito il recupero funzionale liturgico di una messa in santa Anastasia costituisce un evento storico.
La processione rappresenta pur sempre un modo ordinato di procedere con movimenti cadenzati, ritmati, continui. I punti di contatto con la fede, le tradizioni, il folclore, la storia, il canto, le preghiere completano il quadro d’insieme. Una risposta convincente a quanti credevano che non potesse ripetersi a Tonara, a datare dall’ultimo servizio sacerdotale officiato in Santa Anastasia, una manifestazione di così alta valenza.
La gente incredula, quasi sgomenta, ripassa i momenti migliori della messa ed alla fine accompagna sulla via del ritorno alla chiesa di San Gabriele il piccolo simulacro. Le caratteristiche casette del centro storico di Toneri sembrano quasi inchinarsi al passaggio della processione come ai tempi del Canopolo, quando, durante i suoi servizi pastorali resi negli anni 1603 e 1611, calcava le scene di questo vicinato nelle vesti di arcivescovo e di potente feudatario. E nei registri parrocchiali del post Concilio vi è nota anche di questi passi. Attonita, quasi muta sembra interrogarsi su ciò che potrà accadere nell’immediato futuro. I vari passa parola unitamente agli inviti rivolti attraverso i mass media hanno certamente contribuito ad entusiasmare gli animi, sollecitare vecchi credo e galvanizzare maggiori attenzioni
Non importa se un domani i vecchi muri perimetrali non avranno il conforto di una copertura, importante è che qualcosa si è mosso a livello di progetto, a livello di fede, a livello di comunità. E non è poco.
Palmira
Dal Krak dei Cavalieri si parte verso l’oasi di Palmira, una cittadina cresciuta nel cuore della Siria, e considerata nel passato un avamposto di notevole interesse economico e militare tra le vie d’acqua dell’Eufrate ed il mare Mediterraneo.
Già da qualche chilometro si ha la sensazione di trovarsi di fronte ad un sito archeologico di particolare importanza. Sul lato sinistro della strada che porta a destinazione si cominciano ad intravedere singolari costruzioni in materiale calcareo ed argilloso: sono le caratteristiche tombe a torre. La guida avverte che sono numerose anche le tombe ipogee. In prossimità del centro abitato intravediamo sempre a sinistra il colonnato di Palmira: è il Cardo Massimo. Rovine dappertutto per diversi chilometri quadrati di territorio: piedistalli, frammenti di colonne, architravi, capitelli, frontoni, agorà ma anche un teatro in ottimo stato di conservazione. Qui sono impegnate da anni missioni archeologiche di fede europea ma anche asiatica.
Ci siamo, fra poco si scende. Il mezzo di trasporto sembra fermarsi da un momento all’altro ma poi superata una zona periferica della cittadina si dirige verso la parte più elevata della collina per poi fermarsi nei pressi di una fortificazione di tutto rispetto, un’attrattiva di carattere culturale e paesaggistico.
Considerato che qui è quasi impossibile seguire le lezioni della guida e destreggiarsi tra i numerosi rivenditori di souvenir, preferisco stare un po’ in disparte, in posizione più avanzata rispetto al gruppo, per riposarmi e per poter gustare il panorama che ho di fronte. Adesso ho una chiara visione del tutto. Due lunghi tratti rettilinei suddividono il territorio in quattro parti, il Cardo Massimo in direzione nord-sud ed il Decumano in direzione ovest-est. Il concentrato di maggior peso archeologico è nel punto di incontro delle due grandi vie. Sembra di avere a che fare con gli assi ortogonali X e Y di un piano cartesiano. Ben definiti i quattro quadranti sui quali faremo visita domani mattina. L’oasi è là in fondo alla nostra cartolina, ben contraddistinta da una zona verde e ricca di risorgive. Ad occhio e croce si tratterà di un’area recintata di qualche chilometro quadrato, dove le varie coltivazioni di palme da dattero, ulivi e melograni favoriscono una notevole produzione.
L’albergo che ci ospita ripete, specie nella hall, i tratti più caratteristici del colonnato e dei portici. Nelle camere le testate dei letti inseguono le classiche figure a triangolo isoscele dei frontoni. La stessa scena si ripete anche per gli specchi i quali vanno a rappresentare nei loro contorni lo stile classico dei basamenti, stipiti ed architravi incontrati in questi percorsi culturali. Per poter disporre di un disegno schematico si invita il lettore a rivedere con maggiore attenzione i biglietti in circolazione da cinquanta euro. Non mancano in questi mobili d’albergo i precisi richiami all’arte siriana con intagli di notevole pregio di fattura damascena.
Dalla stanza che mi ospita posso chiaramente vedere una pozza d’acqua di discrete dimensioni da cui partono le condotte per gli usi domestici e per l’irrigazione. E’ una delle tante risorgive dell’oasi.
Nel dopo cena, una piccola sosta nelle poltrone della reception è molto rilassante. Hai modo di studiare più da vicino l’insolito movimento che si è venuto a creare con la presenza in albergo di personalità d’alto bordo. Domani pomeriggio a Palmira ci saranno le corse dei cammelli e per l’occasione saranno presenti anche il presidente della repubblica e il capo del governo.
La curiosità ti porta a fare una lettura più attenta e più puntuale del portamento e della gestualità dei dignitari in alta uniforme. Il fazzoletto di vari colori che portano sul capo è trattenuto fermamente da un cerchio nero che termina sulle loro spalle con un cordoncino. L’abito bianco, anzi bianchissimo, corre sino all’altezza dei calzari in un panno unico. Alcuni sgranano velocemente ed in continuazione il rosario tanto da far pensare che non stiano pregando affatto. Questo mio modo di pensare è suffragato dal fatto che, anche quando parlano tra di loro, le dita della mano sono sempre in movimento. Pregare è sempre difficile per chiunque. Alcune donne sono presenti con l’abito nero di stoffa pregiata ben lavorato nelle asole, nelle abbottonature e nei risvolti. La confezione è curata da un solo drappo di tessuto. Il capo è abbondantemente fasciato da un fazzoletto che va a ricoprire parzialmente la faccia. Restano allo scoperto gli occhi, dei grandi occhi neri che sembrano sprizzare una intensa luce dappertutto. Quasi inavvertitamente ti senti osservato ma è solo la tua impressione.
La morte di Gipo
E’ il quinto giorno di permanenza in Medio Oriente. Oggi si farà visita alle tombe ed al colonnato e di pomeriggio si partirà per Damasco. Intanto di primo mattino mi informano dall’Italia della morte di professor Onnis. Ne prendo atto ed informo il primo che mi capita attorno. Non passano più di pochi minuti che tutti, specie gli oristanesi, sanno del decesso del valente latinista e grecista. Fiada arribada s’ora, il commento in sardo di una del gruppo città di Oristano. Hodie mihi cras tibi era la scritta dorata sul drappo nero che, durante le cerimonie funebri, avvolgeva a Tonara le bare dei trapassati. Era una massima comprensibile a tutti, anche a chi non aveva mai fatto un solo rigo di latino. D’altronde la differenza con Oe a mimi e crasa a tie è minima. Un monito che vale per chicchessia ma senza creare spauracchi eccessivi.
A San Vendemiano, nel trevigiano, nella seconda metà degli anni sessanta, tutte le omelie parrocchiali trattavano della morte. A Conegliano andò meglio, anche se il campanile del Duomo, ricordava come ricorda tutt’oggi a chiare lettere, ben definite sotto l’orologio, che Vulnerant omnes ultima necat.
Eppure per chi recita l’Ave Maria la raccomandazione all’ultima ora di vita è sempre una costante. Ecco la traduzione della seconda parte della preghiera nella variante dialettale tonarese: Santa Maria, mamma ‘e Deu(s), prega po nosateros peccadores com(o) e a s’ora de sa morte nostra. Amen in Ge(su).
Visita a Palmira.
Si inizia con la visita alla zona cimiteriale. Sembra di partecipare ad una festa. Tanti turisti da queste parti. Soprattutto italiani. I cappellini blu, rossi e gialli sono visibili all’ingresso delle tombe a torre. Si entra con difficoltà. Vi è anche la possibilità di accedere ai piani superiori. Preferisco sostare nella saletta a pianterreno quel tanto che basta per avere un’idea delle usanze funerarie di alcuni millenni addietro. Poi, dopo le precisazioni della guida, si esce fuori per visitare le tombe sotterranee. Ancora lezioni che sanno di date, dinastie, divinità, di usanze e di studi ancora in atto per stabilire e puntualizzare al meglio i percorsi del passato.
Per noi turisti, avidi di curiosità più che di cultura, è una forma di spettacolo, folclore, divertimento. A nessuno passa per la mente di recitare una parola di Requiem per i trapassati.
Nei tempi di percorrenza verso il colonnato i rivenditori di souvenir si fanno avanti con la loro mercanzia quasi con insistenza. Fazzoletti, strumenti musicali a corda, monete antiche, borsellini: un euro, due euro, cinque euro, dieci euro. C’è un giovane con i cappelli rossi che ti presenta i suoi articoli con un modo molto garbato ed una sufficiente conoscenza della nostra lingua. C’è una prima tentata vendita con ognuno del nostro gruppo targato Barbagia. Poi si ripresenta una seconda volta, poi una terza. Conclude anche diverse operazioni. Ci sa fare. Ma quando te lo rivedi ad ogni piè sospinto ti viene voglia di mandarlo a quel paese. Ma sono asfissianti anche i restanti rivenditori. Spesso cerco di fissare lo sguardo nel vuoto come uno che ha perso il ben de lo intelletto. Funziona, vi dico.
C’e abbastanza tempo nella mattinata per visitare alcuni siti cari alla Roma del passato. Ovunque scavi e rovine. In qualsiasi punto dei vari quadranti del piano cartesiano citato vi è una testimonianza storica. Frammenti di reperti in materiale lapideo dappertutto. Come ti chini hai subito in mano un documento. Questo vale per un’area di diversi chilometri quadrati.
Queste colonne sono in marmo, puntualizza la guida. Arrivano, o meglio sono arrivate dall’Egitto. Per il trasporto il committente ed il vettore avranno tenuto conto soprattutto della distanza e del peso complessivo. Considerando il peso specifico del materiale ed il volume, siamo nell’ordine approssimativo delle 50 tonnellate. Una bazzecola. Ohi mamm’ia!
Damasco
Per andare a Damasco bisognerà fare marcia indietro nel deserto e quindi muovere nuovamente verso sud.
Alla partenza ci informano che passeremo nelle vicinanze dell’ippodromo con la possibilità di vedere dal pullman qualcosa di interessante. Dopo un paio di chilometri i nostri mezzi di trasporto vengono superati agevolmente da un lungo corteo di macchine. Non ci vuole molto a capire che in una di quelle viaggiano le più alte cariche dello Stato. Di lì a poco si fermeranno sul piazzale antistante una palazzina di due piani. Sostiamo anche noi. Un servizio d’ordine veramente impeccabile non consente di vedere granché. Riferiranno i più informati che il presidente della repubblica ed il premier si trovano già sul palco delle autorità. Intanto le guide ci invitano a salire al piano superiore per andare ad occupare i posti di una delle due tribune laterali.
Come sia potuto accadere tutto questo non sappiamo. E’ una variante al programma di viaggio. Per il nostro direttore spirituale, ligio a tutti gli accordi stipulati nel contratto, si tratta di una trasgressione grave. Nessuno comunque ha modo di rammaricarsene. I cappellini gialli, rossi e blu offrono una bella coreografia d’insieme. Non ci sono più poltroncine libere. A calcoli fatti la capienza dell’ippodromo potrà contare su una disponibilità di circa quattro o cinquecento posti tutti al coperto.
E’ questa una delle poche volte della giornata in cui siamo tutti riuniti. E costituiamo un gruppo decisamente numeroso. Siamo tanti quando ci presentiamo alle reception degli alberghi, quando ci ritroviamo al ristorante, quando seguiamo le funzioni religiose nelle sale che ci mettono a disposizione oppure quando si va nei musei o nelle moschee. Bisogna dare atto agli organizzatori se tutto procede al meglio.
I cammelli si trovano già in pista pronti per il via ma bisogna attendere che i venti figuranti, disposti a quadrato sul parterre in terra rossa antistante la tribuna centrale, rendano i dovuti onori alle autorità. Inappuntabili nel loro completo di tela bianca e fazzoletto, trattenuto in alto dal cerchio simil-corrugato, si muovono a piccoli passetti cadenzando le loro danze con potenti scudisciate sui tamburi. Poi scompaiono sotto una tenda dai molti colori. C’è un attimo di tregua cui fa seguito la concitata cronaca della partenza dei puro sangue. Il percorso va ad interessare un tracciato circolare di circa quattro chilometri sul quale i primi attori sono i cammelli ma molto spettacolo viene offerto anche dagli accompagnatori ufficiali al seguito. Dico spettacolo perché, nell’incitare al galoppo gli animali, molti si sbracciano molto pericolosamente dai finestrini delle macchine. Noi che li osserviamo in prossimità dell’arrivo notiamo solo facce e braccia in continua agitazione.
Dei sei cammelli partiti vincerà quello appartenente alla scuderia del califfo. Così riferiscono le guide. Gli applausi più scroscianti sono comunque riservati all’ultimo arrivato. Applausi di noi italiani ben s’intende. Ci saranno altre partenze ma bisogna ritornare a bordo pullman.
All’uscita molti guadagnano le postazioni del pipistop. No grazie! Troppa ressa. Tiremm inanz.
Nelle prime ore del pomeriggio, attraversando la regione dei drusi, ci avviciniamo alla frontiera libanese. Il paesaggio è spesso brullo ma talvolta coltivato. Poderose macchine operatrici cercano di liberare le terre migliori dai grossi massi di basalto, il materiale effusivo espulso in illis temporibus da un vulcano ora spento. Il cratere, di dimensioni notevoli, fugge sotto i nostri occhi alla destra della strada che porta alla capitale siriana.
Alla sinistra vengono segnalate dalla guida alcune dimore di questi abitatori dell’Anti Libano. Da parte mia c’è una curiosità particolare di fare la loro conoscenza. E ne varrebbe la pena perché i drusi sono come i tonaresi: mentre questi credono nella trasmigrazione del corpo da luogo a luogo, pur lasciando lo spirito a Tonara, quelli credono nella metempsicosi ossia nella trasmigrazione dell’anima da un corpo all’altro, da quello che muore a quello che nasce.
Il comportamento dei miei compaesani in giro per il mondo suggerisce un’altra singolarità di cui faccio brevemente cenno. Quando due di essi si incontrano durante le loro trasferte non si salutano mai per nome ma facendo riferimento alla cittadinanza o al paese d’origine (Osudonaresu oppure Odonara) mentre se giocano in casa utilizzano spesso il nome del vicinato e della contrada di appartenenza. Per i rioni valgono i vocativi Odoneri, Odeliseri, Oarasulè mentre per i quartieri le citazioni Omurù, Ogartutzè, Osaruge, Oistraccu e così via. Se Torino fosse una frazione del villaggio sarebbe sicuramente identificata con il termine Odorino.
Finalmente Damasco. Ma quanto è grande questa città. Dicono più di cinque milioni. Si arriva a tarda sera. Vi è il tempo per una doccia riposante, per l’ascolto della santa messa e per la cena. Resteremo nei dintorni di questa metropoli per due giorni e tre notti.
Maalula
Di buon mattino si parte per Maalula, un piccolo paese arroccato sulla montagna a 1300 metri di quota dove si parla ancora l’antico aramaico, la lingua di Gesù. Dopo la messa in santa Tecla, officiata dalle due terne di sacerdoti che fanno parte del gruppo dei 142 pellegrini, si rende obbligatoria la visita al monastero dei santi Bacco e Sergio. Un sacerdote, durante la sua esposizione, nella quale ci presenta il Padre nostro in lingua aramaica, trova tempo e modo per esaltare l’importanza del legno del Libano nelle costruzioni. Vale come deterrente durante le ricorrenti scosse sismiche. E tutti con il naso all’insù per vedere una trave sistemata millecinquecento anni fa nel muro portante della chiesa.
Di lì a poco si ridiscende a Damasco per far visita al suk, il multi variegato mercato cittadino, alla parte orientale della via Recta, alla Moschea ed al Museo.
Il Suk di Damasco
Non facciamo in tempo a varcare l’ingresso di una delle tante porte del grande mercato damasceno che restiamo imbottigliati in mezzo ad una fiumana di potenziali acquirenti. E’ d’obbligo fare sempre affidamento e riferimento al piccolo vessillo dei Quattro mori continuamente agitato e sventolato dalla nostra guida. Se ti perdi sono guai. Iniziano i veri pennitzios o pistighignos. E’ vero che hai sempre la possibilità di rifarti con il telefonino tascabile o con gli estremi dell’albergo che ti ospita ma è sempre meglio evitare di andare incontro alle brutte sorprese. E di vere preoccupazioni si deve parlare se perdi il passaporto, il portafogli, lo stesso cellulare. Quando si gioca in trasferta l’attenzione deve essere sempre massima.
La guida damascena sa dove fermarsi e dove portarti. Aveva evitato di fare lunghe soste nel suk di Aleppo proprio per giocare al meglio le carte nella sua città. Una ipotetica guida tonarese in giro per la Sardegna, tanto per fare un esempio, non porterebbe mai i gitanti di altre nazionalità ad acquistare torrone nei laboratori di Pattada. Eventualmente potrebbe concedere una breve visita alle officine di coltelli ma, una volta a Tonara, offrirebbe ampio spazio e tempo non solo per la contrattazione del rinomato dolce per cui è famosa ma anche di tutti gli altri articoli prodotti nel paese. E’ il solito discorso dell’acqua necessaria a far girare le ruote del proprio mulino.
Impassibili negozianti presentano, sui pochi metri quadri dei loro angusti locali, mercanzie di ogni tipo, in prevalenza frutta secca e leccornie. I prodotti sono esposti in forte accumulo sulle ceste che basterebbe un movimento casuale da parte di chicchessia per mandare tutto all’aria. Ma ciò non accade mai. Gli artigiani delle pelli e del cuoio lavorano affiancati, quasi gomito a gomito, ma in negozi suddivisi da un’esile striscia di stoffa. Uno vende il pellame, l’altro confeziona scarpe, borse, cintole. La stessa regola di comportamento vale per i venditori di stoffe. Il primo tratta il tessuto ed il secondo confeziona l’abito.
Nella gestione dei tempi d’attesa alcuni sorseggiano bevande alla menta, altri sgranano in continuazione le sferette dei loro rosari ed altri ancora leggono le ultime notizie dei giornali. Qualcuno fuma del tabacco servendosi del narghilè. Mi viene spesso da chiedere come sia possibile conciliare la presenza di questo ingombrante accessorio con la ristretta disponibilità del locale in cui operano dove anche l’avvolgimento delle serrande in modo contrario al normale può consentire notevoli economie di spazio. Non sempre la logica quadra con i comportamenti e questi con quella.
Carrelli stracarichi di merce manovrati da abili commessi, automezzi guidati da frettolosi autisti, biciclette provviste del regolare campanello di richiamo chiedono continuamente il passaggio.
Numerose le donne che portano sul capo ingombranti buste nere di spesa. Come riescano a tenere in equilibrio la loro mercanzia, senza fare uso del cercine, non si sa. Talune sono addirittura fasciate da una benda che, coprendo interamente il viso, termina ondeggiando al disotto del mento. Si vedono anche famiglie con cinque e sei figli al seguito.
Molti vestono all’occidentale. Destano una certa curiosità le scarpe dei siriani. Ad un piede di tot centimetri corrisponde sempre una scarpa lunga, anzi lunghissima, e stretta sulla punta. Avevo notato questa caratteristica anche in Turchia.
Girando per il mercato finisci anche per stancarti. In prossimità di una piazzetta che immette subito dopo sulla via Recta i cappellini gialli, rossi e blu trovano i negozi che fanno per loro. Ferramenta da una parte e fazzoletti, tessuti e magliette dall’altra. Come i rivenditori annusano odore di lire siriane si catapultano immediatamente all’interno delle loro botteghe, lasciando incustodite all’esterno le loro sedie. Ne approfitto per sedermi e per studiare attentamente il traffico di superficie
L’ingresso per la via Giusta è alla mia sinistra mentre sulla destra, ad una quindicina di metri di distanza, la mia attenzione è focalizzata da una fontanella pubblica ed una bancarella con un rivenditore che prepara in continuazione succhi di melagrana. Con un coltello e con uno spremi agrumi è in grado di servire un cliente nello spazio di pochissimo tempo. All’avventore offre la possibilità di servirsi del bicchiere di vetro o di cartone. A richiesta serve anche del ghiaccio. Accetta lire siriane, euro, dollari. Non c’è problema per la valuta. Seguo la scena benissimo anche se non riesco a valutare al meglio la situazione in profondità. Fa caldo ma non eccessivamente. Per chi opera come lui per molte ore della giornata in quella postazione al sole è anche necessario rinfrescarsi alla fontanella. E’ questa una operazione che fa solitamente quando va a sciacquare i bicchieri sporchi. Preciso che la profondità cui accennavo prima può giocare qualche punto in suo favore. In ogni modo in dubio pro reo.
Finalmente i negozi di ferramenta e di tessuti cominciano a svuotarsi. Le contrattazioni sono durate più di un’ora.
E siamo finalmente sulla via di San Paolo, parte orientale. La sede del tracciato è molto ampia. La sua lunghezza dal punto d’ingresso della piazzetta può essere di diverse centinaia di metri. I numerosi negozi sistemati ai bordi della fascia pedonale, sono regolati dall’alto da una lunga e bella copertura a botte che favorisce il passaggio della luce esterna.
La bandiera dei Quattro Mori non passa mai inosservata. Talvolta qualche attento passante chiede alla guida il significato del simbolo. E’ questo un quesito cui nessuno dei gitanti può rispondere. Anche per gli studiosi rappresenta un vero handicap. Per alcuni di essi è un mistero. In certe periodi i mori hanno avuto la bandana, in altri la benda ed oggi nuovamente la bandana. Fra gli storici vi è chi, intervistato una decina d’anni fa al Teatro Garau di Oristano sull’argomento, ha riferito che inizialmente il documento cartaceo era piegato in quattro parti e che, all’apertura del foglio, si sono verificate, intorno alla fasciatura delle quattro figure rappresentate, delle slabbrature che hanno generato delle interpretazioni di dubbia lettura. Ecco il perché di tanta confusione.
Perché i mori voltino la faccia a sinistra e talvolta a destra, io non lo so.
Questo modo di identificare la Sardegna con il noto simbolo vale solo per l’ultimo millennio ma, se si vuole dare ragione anche alla geografia, non possiamo disconoscere che i veri rappresentanti dell’isola sono da sempre i Quattro Mari: Mare di Sardegna, Mar Ligure, Mar Tirreno e Canale di Sicilia. Per la didascalia mare calmo, moto ondoso, agitato e perennemente agitato. Qualcosa in contrario?
Se poi si volesse aprire un discorso su Peppino Mereu e Giovanni Sulis, rappresentanti vessilliferi in questi ultimi decenni di una canzone molto gettonata a livello isolano, quasi una specie di inno regionale sardo, sarei pronto a spendere in loro favore qualche breve testimonianza. Si sta parlando naturalmente del noto poeta e del suo amico Nanneddu, al secolo Giovanni Sulis, medico a Tonara dal 1901, data di morte di Peppino, sino alla fine degli anni Cinquanta. Sulla valenza del primo non ho nulla da aggiungere, salvo sottolineare che il medesimo, a detta di mio padre, era anche bravo ad affibbiare a questo e a quello dei soprannomi che ancora oggi in paese vanno per la maggiore. Per i cognomi dei Mereu e dei Sulis posso confermare, ripercorrendo a ritroso nel tempo i registri parrocchiali, un tracciato di pura identità tonarese sino alla fine del Cinquecento.
Domani sera saremo di ritorno sulla parte orientale della via Recta. Intanto in mattinata si va alla Moschea e di pomeriggio al Museo damasceno.
La Moschea di Damasco
L’accesso alla moschea è regolato da precise norme. I riti preparatori per le donne consistono nell’indossare i lunghi vestiti che vengono dati in dotazione negli ingressi secondari e nel consegnare le proprie scarpe agli addetti ai lavori mentre per gli uomini nel togliersi i calzari. Per tutti è obbligatorio l’uso delle calze.
E’ l’ora della preghiera. La navata laterale destra è riservata agli uomini di fede islamica mentre quella di sinistra alle donne. Durante la nostra visita, non possiamo fare a meno di seguire le rituali e continue genuflessioni dei maschi e delle femmine.
La guida, come al solito, si dilunga su date, momenti storici e dinastie senza dimenticare di presentare le bellezze della imponente costruzione di tipo basilicale. Non manca di indicarci, appena giunti sul punto medio della navata centrale, il mausoleo dedicato a san Giovanni Battista, un tempietto oggetto di venerazione tanto da parte cristiana quanto musulmana. In prossimità dell’uscita, inseguiti in continuazione, tanto a destra quanto a sinistra, dal duplice filar di colonne a fusto liscio, non possiamo ricordare quanti metri di tappeto pregiato siano passati sotto i nostri piedi. Mi volto ancora indietro per memorizzare al meglio lo scenario degli oranti e dei loro sacerdoti ma non vedo più nessuno. I momenti di preghiera sono terminati.
Per recuperare le scarpe bisogna percorrere dei camminamenti esterni al tempio. E’ tutto finito. Di lì a poco ci ritroveremo al ristorante e di nuovo si ripeterà l’appuntamento dei cappellini gialli, rossi e blu.
Il museo della capitale. Shopping nelle vie cittadine.
Ampi spazi tanto all’esterno quanto all’interno. Al nostro arrivo si ha subito la possibilità di visitare i vari reparti dedicati all’archeologia. Un piano, quello superiore al pianterreno, è inagibile per lavori in corso per cui la visita, penso, si concluderà in tempi brevi. In verità si comincia ad avvertire una certa stanchezza. Le informazioni sembrano giungere con maggior lentezza e non con la velocità dei primi giorni di viaggio. Si va verso la saturazione.
Mezzi busti, statue di divinità, vetrine corredate di braccialetti e monili vari, armi, mosaici, pitture a muro, strumenti da lavoro, vasi liturgici, arredi e paramenti sacri inquadrano con efficacia i vari periodi del passato. Alcune opere di scultura sono spesso corredate della data della loro realizzazione. Ma è sempre la guida a renderti edotto di queste particolarità come quando ti invita alla lettura di un documento inciso sulle spalle di un condottiero o quando ci presenta delle tavole di terracotta provenienti da Hebla o quando ancora richiama la tua attenzione per osservare, attraverso uno spioncino blindato da una lastra di cristallo, i caratteri cuneiformi che rigano la superficie di una tavoletta proveniente da Hugarit, città fenicia del nord della Siria. Si tratta, dice Iasser, dell’alfabeto più antico. Da quello sono derivate tutte le altre scritture. La datazione dei vari reperti da me ricordati, eccezione fatta per gli oggetti cari alla cristianità, ha spesso in questo museo valenza pluri millenaria.
Durante la serata si ha la possibilità di fare dello shopping presso i più qualificati negozi di artigianato della città. Non mancano le visite alle botteghe di argenteria indicate dalla guida. Le donne del nostro gruppo non si fanno pregare. Entra la prima e poi tutte le altre. Una trentina in tutto. Gli uomini preferiscono sostare all’esterno. Dopo un’oretta di attesa il negozio rilascia tutti gli ostaggi presi in consegna da Iasser e si ritorna sul pullman.
Fra una mezzora si arriverà in albergo, si cenerà e quindi si andrà a dormire. Durante le fasi di avvicinamento si ha tempo e modo per gustare le cartoline natalizie di Damasco in notturna. .
Le luci molto intense della città, avviluppata a semicerchio sui contrafforti della montagna, tendono gradatamente a scemare per cedere il passo ai chiarori della periferia ed infine al buio completo.
Fra poco apparirà sullo sfondo il nostro albergo, sgarbatamente posizionato in una zona orfana di verde e di spazi per la ricreazione. A vederlo da lontano sembra un monolito depresso dell’isola di Pasqua. Tutte le stelle che lo qualificano nell’Olimpo della ristorazione e della ricettività sembrano cadere ad una ad una sugli sterrati antistanti le varie vie di uscita.
Sesto giorno e sesta notte di permanenza in Medio Oriente. Domani si andrà verso Sud alla volta di Bosra, ai confini con la Giordania.
Bosra
Anche Bosra, è una città cara al passato. Il basalto è la materia prima utilizzata nelle costruzioni.
Nel ristorante all’aperto che ci ha accolto per il pranzo faccio a meno, all’uscita, di servirmi dell’unica toeletta a disposizione dei clienti. Resisterò fin che posso.
Fa caldo in questo primo pomeriggio di visite al grande parco dell’archeologia romana. Lungo i brevi percorsi che anticipano i colonnati, le terme ed il teatro si ha l’impressione di calcare i vicoli dei caratteristici paesi del Marghine. Non c’è alcuna differenza con gli impervi acciottolati e le basse casette in pietra vulcanica del centro storico della Macomer di cinquanta anni fa. Sognando ad occhi aperti mi rivedo piseddu minore, in età giovanile, quando, per raggiungere le austere e spartane aule dell’Istituto Satta, dovevo percorrere a passo spedito le viuzze e le piazzette, le cosiddette carrelas, dei rioni periferici di Sa Rocchitta e Coronas.
Si potrebbe tentare anche un gemellaggio tra queste città basaltiche. Una offrirebbe curricoli di età nuragica, l’altra del periodo romano. Nel frattempo potrebbero iniziare a scambiarsi brevi messaggi a base di na chi, il curioso intercalante del dialetto locale corrispondente all’espressione italiana dice che, e di nau nau, il leitmotiv della noria.
Ed eccoci sui lastricati romani con rovine ad ogni piè sospinto. Anche qui siamo presi in consegna da una lunga coda di giovanissimi rivenditori che, fatti salvi i tempi nei quali la guida espone le sue lezioni, diventano sempre più appiccicosi. Mi incuriosisce ad un certo punto la trattativa condotta da un disinvolto mercante arabo con un nostro rappresentante. Una pistola d’antiquariato ed il relativo prezzo rappresentano l’oggetto della compravendita. L’italiano non è d’accordo. Come dire Ite se(se) nannommi. Che cosa mi stai dicendo. Non so se alludesse alla cifra richiesta o al pericolo di portarsi addietro un’arma da guerra. Non mi sono permesso di chiedere delucidazioni in merito.
Si continua sullo scenario dell’antica Roma mentre il sottoscritto sta pensando ai suoi problemi di incontinenza. All’ingresso principale del teatro romano, un vero gioiello ancora al massimo del suo splendore, focalizza la mia attenzione un’insegna luminosa circolare con la scritta W.C. Ci siamo. Faccio appena in tempo ad arrivare nell’area a semicerchio, quella riservata al palcoscenico, che subito chiedo al capo gruppo di assentarmi per accomodarmi nella bath room ossia nella stanza da bagno.
Pagina degli spot pubblicitari
Gli inglesi, molto puritani, quando parlano del gabinetto fanno riferimento alle lettere iniziali del sostantivo acqua e dell’aggettivo chiusa. Per andare quindi a fare i loro comodi usano la frase idiomatica andare all’acqua chiusa, il liquido raccolto in alto nella vaschetta. Noi sardi non siamo stati da meno quando, nel recente passato, ricorrevamo all’espressione annare a iscriere una littera (andare a scrivere una lettera).
A Tonara, prima ancora degli anni cinquanta, i componimenti in bella scrittura venivano eseguiti nelle stalle, nelle strettoie prive di uscita, negli orticelli ed anche lungo le prime periferie dei vicinati. In casa dei nonni materni, che non avevano la disponibilità della stalla e dell’orticello casalingo si ricorreva ad un palafitta in legno, raggiungibile con un ballatoio, issata in una zona riservata del retro dell’abitazione. Le lettere venivano idealmente indirizzate a noti personaggi del tempo.
A quei tempi l’unico sanitario pubblico degno di menzione era la sputacchiera del Municipio ma, con la costruzione dei campi sportivi, andò a finire nel dimenticatoio. Allora non si faceva alcun caso per i gratuiti spot pubblicitari rilasciati a destra e a manca. Oggi è diverso, a meno che non ci si trovi nei panni del quinto uomo ed allora ci si sente autorizzati a mimare le mosse degli altri giocatori, portieri, arbitro e guardalinee compresi.
Rientro in serata a Damasco
Il pullman viaggia ora verso nord, verso Damasco, città distante da questa zona di confine circa centocinquanta chilometri. Ci attendono prima dell’arrivo le sfavillanti cartoline damascene e per ultimo le ombrose immagini dell’ultimo monolito della periferia.
Per la cena è previsto un appuntamento in un locale caratteristico del centro storico. Prima di affrontare uno dei tanti vicoletti che portano al ristorante ci ritroviamo nuovamente sulla via Recta, super affollata stamattina e pressoché deserta adesso alle 10 di notte. E’ questa notevole libertà di movimento che fa la differenza con i suk di Marrakech. Dare a Marrakech quel che è di Marrakech e a Damasco quel che di Damasco. Non dimentichiamo infatti che la via Giusta rappresenta pur sempre, con la conversione di san Paolo, un percorso classico della cristianità, un continuo riferimento alla fede dei credenti, un momento di riflessione per chiunque.
La sede stradale dicevamo è così libera che tanto sul lato destro che su quello sinistro puoi inseguire con lo sguardo le eleganti e robuste porte che, in perfetto ordine di chiusura, a protezione ed in rappresentanza dei rispettivi negozi, disegnano sino in fondo, protette dalla magnifica volta a botte del tunnel, un bellissimo punto di fuga.
Le scritte riportate sulle insegne pubblicitarie mettono a nudo tutta la mia ignoranza. Hai voglia di ricorrere a tutto ciò che di appiccicaticcio hai imparato sui banchi di scuola. Qui i signori spagnoli, che hanno il vanto di avere il maggior numero di parlanti nel mondo, devono mettersi da parte. Muru, muru o a ninnia, come si usa qui nel dialetto di Oristano, anche per gli inglesi. Lingue morte. A ninnia anche quelle. Ed io che nella mia valigetta avevo riposto le mie poche conoscenze di logudorese e campidanese. Che poi dire, come suggerisce e riferisce Pier Luigi La Croce nel suo dizionario, de is limbas de mesania, dialetti nei quali mi ritengo particolarmente preparato.
Intanto dalle retrovie un trotzedi ca es(t) passanno unu caddu, spostati che sta passando un cavallo, mi invita alla prudenza e a dar via libera al quadrupede in libera uscita col suo padrone.
Esistono anche nel dialetto tonarese certe forme verbali forti. E trotzere è una delle tante. Questo il paradigma (trotzo-trotzes-happo trotziu-trotziu-trotzere). Manca il passato remoto. Da quando non so. Il veni, vidi, vici latino è tradotto oggi con seo eniu, happo idu, happo intu. Non sempre vale la regola del ricorso continuo alla dentale d piuttosto che alla t o l’uso di certe espressioni con frequente riferimento alla lettera g come nello scioglilingua Innoge foggia ‘e nuge non ne oggio ca mi noge(de) Letteralmente: Qui non desidero foglia di noce perché mi nuoce. Mi corre l’obbligo di traslitterare l’assunto anche nelle varianti campidanese (Innòi folla ‘e nuxi non di bollu ca mi fai(di) dannu e logudorese (Foza ‘e nughe non de cherzo ca mi faghe(de) male). Curioso l’andante dialettale usato ad Ovodda Ino*e *oza de nu*e non de vozo puite mi dolede. L’asterisco sottende una marcata aspirazione che impegna le corde vocali e la glottide. In detto centro come negli altri paesi della Barbagia di Ollolai il fuso fonetico s’impenna e va ad assumere una connotazione tutta particolare che sa di suoni forti e gutturali a base di hip, hip, hop, hop.
Di quanto propongono le insegne luminose riesco a capire solamente i numeri di telefono espressi in antico arabo. Il cinque sta per lo zero e lo zero sta per un punto. Le cinquanta lire siriane sono infatti rappresentate da una O e da un puntino segnato a metà del corpo di scrittura. Nessun problema per il numero uno. Il numero cento (100) espresso in arabo antico equivale all’arabo moderno centocinquantacinque (155). Il numero quattro è indicato con una epsilon greca. Per esercitarsi al meglio è sufficiente fare riferimento alle targhe degli autoveicoli. Nella lettura da sinistra verso destra sono segnalate la numerazione che conosciamo (numerazione araba) e quella in antico arabo. Al centro, in verticale, l’indicazione delle prime tre lettere dello stato di appartenenza del mezzo di trasporto.
Quando la guida ci invita a svoltare a sinistra siamo piacevolmente sorpresi di essere fatti omaggio di un fragoroso rullare di tamburi manovrati ad arte da una decina di figuranti. Nel loro vestiario, un condensato di papaline, corpetti, casacche, calzoni e calzari di tipo orientale, predominano i colori nero, bianco e rosso melagrana. Gran merito va riconosciuto ad alcuni duellanti che, al ritmo sonoro degli strumenti a percussione citati, con movimenti rapidi e continui, fendono l’aria con spade affilate per poi mimare degli improvvisi e mirati corpo a corpo. Quanto il gioco sappia di rischio non lo so. Fingono a farsi del male ma facendo ricorso a tutte le precauzioni possibili. Una volta rimesse le spade nel fodero, la scena ritorna agli strumentisti i quali incessantemente continuano a scudisciare i curbasci sulla pelle dei loro tamburi.
Per certi versi sembra di assistere alle parate dei sartiglianti oristanesi.
Vi è anche un invito esplicito da parte di queste comparse a partecipare ai loro rituali. Tra noi e loro appena pochi metri di spazio utile. Improvvisamente ecco liberarsi dal gruppo occidentale una donna, la d.o.n.c di cui ho parlato precedentemente, per unirsi a loro e ballare. Anche la guida damascena, coglie l’opportunità di concedersi ai passi di danza della sua terra. Con la figlioletta issata sulle sue spalle assomiglia nel movimento e nel comportamento ad uno dei mamuthones di Mamoiada. Poi si va tutti al ristorante passando tra vicoli stretti che più non si può e per carrugi che sanno molto di genovese. Sanno di tonarese antico invece certi balconi dall’equilibrio molto precario ed alcuni ballatoi dai legni sorretti quasi per miracolo da mensole vecchie di qualche secolo. Chissà da quanto tempo non si affaccia su quei poggioli persona umana. Comunque belli a vedersi.
Durante la cena si ha modo di assistere a numeri curati con bravura da alcuni artisti locali. Passi di danza, suoni di strumenti orientali e canti. E’ un condensato di colori, di musica e di movimento.
Intanto alcuni commensali italiani, con l’accondiscendenza della direzione del locale, accennano alle note del Nabucco e continuano in un crescendo davvero esaltante. Quasi mi viene voglia di chiedere alla d.o.n.c se intende ballare. “Permette questo walzer signora? Ho l’autorizzazione della Padania. Per il ridotto spazio a disposizione non si preoccupi, cercherò di proposito di volteggiare sempre a sinistra”. Non posso mettere in atto il mio disegno che i cantori di Va pensiero stanno per concludere la loro esibizione. Non c’è tempo neanche per un Nanneddu meu. Intanto Iasser è pronto a riferirci che è tutto finito e bisogna darsi da fare per rientrare in albergo.
Domani mattina visita ad Anania, sulla parte occidentale della via Recta. Di pomeriggio, partenza per l’Italia.
Mattinata sulla via Recta
Siamo diretti alla casa-chiesa di Anania. E’ con noi un’altra guida. I lavori in corso sull’antico tempio impediscono di fare visita al luogo in cui venne battezzato San Paolo. Del cammino di fede del fervente apostolo attraverso i quindicimila chilometri percorsi in predicazione lungo la Turchia, la Grecia, la Sicilia fino al suo martirio in terra romana ci rende testimonianza il parroco di Aritzo, uno del nostro gruppo barbaricino. E’ tutta storia. Tutto vero. Tanta cristianità.
Per me alla ricerca di un po’ di luce ancora tenebre. Ma se cerco vuol dire che sono sulla strada giusta.
Ognuno è libero da questo momento della mattinata, salvo rispettare l’orario di partenza fissato per mezzogiorno, di fare quel che ritiene più opportuno. Terminati i percorsi di carattere culturale non resta che inseguire le nostre donne nei vari negozi che portano alla via Recta. E dove entra la prima fanno seguito tutte le seconde. Questo per esempio succede quando si fa visita ad uno dei negozi di seta più importanti di Damasco. Dall’esterno seguo le trattative in corso. Molti biglietti da cinquanta euro, in un certo verso simili alle cinquanta lire siriane, passano dalle mani degli acquirenti a quelle dei rivenditori. Sul tavolo delle contrattazioni metri e metri di stoffa. Entro dentro e con meraviglia mi accorgo che uno dei commercianti, forse il titolare, si esprime in italiano in maniera disinvolta. Ad una signora molto interessata ai forti ribassi risponde che può trovare quei prezzi in altri negozi. Naturalmente verranno commerciate stoffe elaborate da bachi artificiali. Il tutto con tatto e gentilezza. Non mi sembra comunque disposto a fare sconti superiori del dieci per cento.
Finite le operazioni del do ut des mi faccio avanti con qualche domanda fuori luogo. Una di queste riguarda la superficie di tessuto ricavabile dallo svolgimento di un bozzolo. L’intervistato, senza scomporsi più di tanto, cerca di disegnare nell’aria un quadrato di mezzo dito per lato. Circa venticinque centimetri in tutto. Era questa un’informazione assente dalle mie conoscenze.
Mi ero fatto una idea così chiara da studente dei processi di produzione delle fibre tessili animali, ed in questo caso della seta, che, durante la presentazione pratica in un laboratorio turco del meccanismo che porta il bozzolo a svolgere il suo involucro serico attorno agli aspi dell’arcolaio elettrico, non manifestai alcuna sorpresa. Facendomi forte degli insegnamenti ricevuti dalla mia insegnante di chimica e merceologia delle superiori non potevo non ricordare le trasformazioni in fieri del baco e gli interventi successivi della mano dell’uomo. Prodigi della natura da una parte contro intelligenza dell’uomo dall’altra.
Ancora shopping sulla via della conversione di Paolo e poi sul pullman. Verso l’aeroporto penso.
Pranzo in un ristorante tipico
Le indicazioni fornite dal programma di viaggio non includono alcuna sosta al ristorante eppure il mezzo di trasporto si ferma di fronte ad un locale caratteristico. Che si tratti di un’altra trasgressione perpetrata nei nostri confronti dal tour operator oppure di una mossa studiata ad arte per mascherare qualche disguido incontrato durante la settimana? Sempre bene accette queste varianti.
Doverosa la presentazione dei locali addetti alla ristorazione. Sembra di entrare in un parco giochi e non in un esercizio pubblico addetto alla consumazione dei pasti. Questa impressione è data dal fatto che dappertutto c’è qualcosa in movimento: dalla ruota idraulica posta al centro di una vasta piscina che macina acqua in continuazione, ai curiosi getti piroettati con forza verso l’alto dagli zampilli presenti in alcune piccole vasche, ai camerieri inappuntabili all’ordine dei loro capi servizio ed ai clienti alla continua ricerca dei posti migliori.
Ad onor del vero non esiste un solo tavolo che non goda di una discreta visuale a tutto campo. E’ come stare in un piccolo stadio con la differenza che gli spettatori trovano posto non solo sui vari anelli ma anche lungo la pista che circonda il campo di gioco. Nell’arena, che altro non è che lo spazio riservato alla grande piscina, alcuni camminamenti portano alla noria ed ai vari zampilli. I posti a sedere, circa cinquecento, sono distribuiti intorno a lunghi tavoli, che nella loro disposizione a raggiera danno anch’essi un’idea di movimento. In definitiva il concetto di inamovibilità o di immobilità è dato unicamente dalla potente struttura che regola e governa l’insieme. Un bravo all’architetto che con la sua genialità è riuscito a dare un’idea di moto anche ai fluidi. Questo a dispetto delle leggi naturali che nulla concedono alla idrocinematica, una branca della meccanica dai contenuti vuoti.
Per uno studente alle prime armi con la geometria analitica, assistere a questo spettacolo di getti d’acqua, che vanno a disegnare nell’aria archi semiellittici, semicircolari e parabolici, equivale ad effettuare un rapido ripasso delle più importanti curve di secondo grado mentre per un principiante alle prese con lo studio dei solidi rotondi c’è n’è abbastanza osservando la grande sfera d’acciaio ubicata in prossimità dell’ingresso. Illuminata così come è da questo caldo sole di mezzogiorno sembra produrre riflessi particolari con i suoi numerosi getti d’acqua.
Del mulino esposto al centro della scena di questo anfiteatro abbiamo già detto tutto o quasi. Chi non avesse capito a sufficienza dell’assemblaggio delle sue componenti non ha che da farsi avanti. Ora è tutto chiaro. La noria ha qui una valenza didattica. La dimostrazione consiste nel fatto che la ruota idraulica, sospinta dalla corrente, riesce, con il suo moto continuo e ripetitivo, a raccogliere l’acqua dal basso per riversarla, con abbondanti scrosci, all’interno della piscina. Bellissimo vedere nella fase di sollevamento i contenitori scaricare con precisione nella vasca di raccolta il loro prezioso carico, quasi fossero degli orologi a cucù ma, altrettanto interessante osservare i cassetti ormai vuoti nell’atto di eclissarsi sui bassi fondali.
Questo è lo scenario offerto di giorno. Di notte acquisterà certamente, alla luce dei riflettori, un valore aggiunto. Di questo ne sono certo.
Forse sarebbe vantaggioso ed interessante riproporre la ruota idraulica anche in Sardegna. Magari facendo riferimento ad una noria campidanese o ad una gualchiera oppure ancora ad un mulino ad acqua.
Rientro in Italia
La zona aeroportuale non è molto distante dal ristorante. L’aereo è già in pista. Fra poco abbandoneremo il suolo siriano. Restano ora soltanto i ricordi di una avventura vissuta al limite dell’immaginario. Il capitano annuncia che il programma di volo prevede, a partire dalla fase di decollo sino all’atterraggio, il passaggio su Beirut, sul Peloponneso, su Malta e su Palermo. Il vero tracciato risulterà invece, a detta dello steward, leggermente modificato. Sfileranno sotto di noi, prima di arrivare in Sardegna, il Libano, il Mar Egeo, il mare Ionio, le città di Catania e Palermo ed il Canale di Sicilia.
Alla dogana di Cagliari un’ispettrice chiede di verificare il contenuto della mia borsa da viaggio. Sono tranquillo. Non ho più con me le solite bottigliette d’acqua. Solo carta igienica e qualche busta vuota. Il controllo continua ancora per poco. Stessi articoli. Impassibile lei. Altrettanto io.
Oristano dista da Cagliari un’ora d’automobile. Sembra di non arrivare mai, tanta è la stanchezza accumulata durante il viaggio.
Come varco l’ingresso di casa, il gatto, felicissimo di rivedermi, esprime tutta la sua contentezza strusciandosi più volte sul pavimento. Sapeva che mi sarei assentato per circa una settimana per le solite gite fuori porta. Aspetta ora le mie carezze.
Il pendolo dell’orologio continua ad oscillare nel rispetto delle leggi dell’isocronismo. Ha resistito agli otto giorni di carica. E’ un segno di vita anche questo.
Per rimettere a posto le valigie e raccontare la trama di questa interessante avventura in Medio Oriente c’è sempre tempo.
Breve presentazione
Con il reportage Da Santa Nosta a Damasco chiudo questa prima serie di servizi su Pratza manna e dintorni.
La tiratura di questa pubblicazione, come d’altronde quelle riguardanti le Memorie storiche tonaresi, è molto ridotta. Pochissime copie. Ho voluto tenere conto del rischio che si corre nel caso di insuccesso. E’ uno scotto che non voglio assolutamente pagare.
Mai contattato un editore. Non c’è fretta.
In questa occasione sento il dovere di ringraziare tutti coloro che, molto benevolmente, hanno cercato di incoraggiarmi in queste piacevoli fatiche e fra questi:
a) Gabriele Casula, presidente della Pro loco di Tonara, il quale, attraverso il Blog di detta Associazione turistica, manda ogni tanto in onda, qualche pagina dei miei lavori.
b) don Giovanni Maccioni, già rettore della parrocchia di Tonara
c) i coniugi veneti Terenzio ed Eleonora Lucchese.
d) il prof. Salvatore Frau, dirigente scolastico dell’Istituto comprensivo di Scuola elementare e media di Tonara.
Qui di seguito alcuni loro attestati di stima rilasciati in tempi diversi:
· Apprezzo il suo lavoro: è molto interessante! Auguro che la ricerca a cui si è dedicato le procuri le migliori soddisfazioni. Don Gianni Maccioni.
· Riceviamo sempre con grande piacere i tuoi articoli su viaggi ed esperienze di vita che hai modo di acquisire nella tua amata terra. Abbiamo usato di proposito l’aggettivo “amata”, in quanto esso traspare chiaramente dai tuoi racconti, vibranti di emozioni e di poesia. E’ questo un modo felice per aprire ulteriormente gli orizzonti su di una affascinante regione a noi così sconosciuta, anche se pur sempre vicina. Terenzio ed Eleonora.
· Le voglio far pervenire il mio personale ringraziamento e quello di tutta la Comunità scolastica di Tonara per aver inviato l’interessante documentazione di un lontano passato della comunità tonarese, che sicuramente desterà la curiosità di molti. Ho apprezzato il frutto della Sua ricerca e l’ho fatta conoscere nella Nostra Scuola.
Prof. Salvatore Frau.
Giovanni Mura
Oristano, 13 dicembre 2009.
I preparativi per la partenza
Ottobre è il mese designato dagli organizzatori per il pellegrinaggio in Siria. Centoquarantadue, questo il numero dei partecipanti, rappresenta il limite massimo dei posti disponibili sul Boeing, l’aereo utilizzato per il viaggio di andata e ritorno..
Ognuno di noi è pronto per la nuova avventura. Chissà che sulla via di Damasco non si rafforzino le nostre già deboli linee di difesa religiosa. E’ quanto spera e si augura ognuno di noi. Io parto con questo intento anche se, nel taccuino della mia memoria, ho altri propositi e fra questi, in primo luogo, l’apprendimento di nuove nozioni sugli impianti idrici del passato. Mi riferisco alle norie, un tipo di ruota idraulica ancora utilizzato in Medio Oriente.
Le norie sarde
Da noi in Sardegna, soprattutto nel Campidano, i mulini per il sollevamento dell’acqua dalle viscere della terra e per la successiva distribuzione alle utenze agricole hanno fatto la loro storia da tempo.
E’ leggendo Pastori e contadini di Sardegna di Maurice Le Lannou che ho fatto la conoscenza per la prima volta di questa singolarissima macchina a trazione animale. Incuriosisce in particolare la foto di un contadino di età non ben definita che con molta pazienza governa il movimento di un asino bendato nel suo percorso circolare attorno agli strumenti di bordo del bindolo, la struttura in legno montata ad arte sulle estremità superiori del pozzo.
Da quando sono entrate in funzione le pompe a motore il mulino ha ultimato la sua corsa. Ad onor del vero io non ho mai visto una noria in attività e tanto meno allo stato dismesso. I più anziani di me di dieci e più anni potranno dire di aver visto o sentito parlare di questi mezzi utili all’agricoltura.
La curiosità mi ha sempre stimolato a saperne di più, ma non abbastanza. Agli inizi dell’anno Duemila, durante una degenza in un ospedale di Cagliari, ebbi la fortuna di conoscere Efisio Nonnis, uno dei pochi esperti della materia in campo isolano, il quale mi trasmise molte nozioni utili alle mie indagini. Tutto il materiale raccolto attraverso la ricerca condotta in biblioteca sulle opere di vari autori dei secoli scorsi quali l’Angius, il La Marmora, il Cossu, il Wagner, lo studio di molte schede dei vari Condaghi e la attenta rilettura del De Architectura di Vitruvio finiva per avere, grazie alle lezioni impartitemi dall’amico di Uta, una più efficace valenza.
Adesso, dopo una più attenta rivisitazione di alcuni pozzi di Uta, e di quelli che ancora esistono ad Oristano, mi reputo in grado di modellare e costruire con le mie mani l’impianto che una volta regolava il deflusso dell’acqua dalla falda sotterranea. Di ogni organo conosco il funzionamento, le misure, la sua utilità e la sua denominazione in dialetto campidanese. Dieci anni fa il Nonnis mi aveva anche pregato di rendere pubbliche le sue testimonianze in quanto riteneva che, in capo a poco tempo, tutto sarebbe passato nell’oblio. La mia pigrizia in particolare e molti altri miei impegni di varia natura mi hanno sempre impedito di onorare la promessa fatta.
A Cagliari i fontes publici, quelli che si possono identificare nella Cosmografia del Munster, che è del 1553, erano ubicati nel rione di Castello. Nel periodo dedicato ai monumenti aperti ho visitato per ben due volte il pozzo di San Pancrazio, forse il più interessante dell’isola per la sua storia e per i suoi novantadue metri di profondità. Ogni volta un’emozione diversa. Sino a metà Ottocento la noria di Piazza Palazzo, identificata dall’impalcatura lignea e dal giogo di buoi impegnato nel trasportare in superficie le centinaia di vasi di terracotta pieni d’acqua, rappresentava uno scenario alquanto indecoroso. Si decise di trasferire l’intera struttura alcuni metri più in basso, di rinnovare il manto stradale e di posizionare su detta superficie un affusto di cannone. Per chi intende rendere visita a questo importante monumento deve sottostare al sacrificio di infilarsi per pochi metri nello stretto cunicolo che porta direttamente alla imboccatura del pozzo. Ci sono sempre tanti curiosi per la ricorrenza cagliaritana.
Poco interesse invece viene manifestato ai pochi elementi di una noria in ferro sistemata sulla parte alta dell’Orto Botanico cittadino. Poche anche le informazioni date dai depliant e nulle quelle offerte dalle guide. Per saperne di più bisognerebbe affidarsi ai pochi esperti, ora in via di estinzione.
Ciò che mi inorgoglisce di più, ai fini delle mie modeste conoscenze sulla noria, è l’essere riuscito nelle vesti di barbaricino, già conoscitore delle strumentazioni delle gualchiere e dei mulini movimentati dall’acqua, a documentarmi adeguatamente sullo studio del mulino d’acqua, su mobinu di acqua, ossia l’impianto che macina l’acqua, come viene chiamato nel Campidano, a differenza del mulino ad acqua, su molinu a abba come viene definito nel Nuorese, che invece macina granaglie.
Mi mancava la ciliegina da mettere sulla torta. Vedere finalmente in funzione le norie siriane. Il meccanismo e la struttura di queste ultime, per quanto molto semplici, sorprendono per la loro imponenza. Si diversificano da quelle sarde per la forza motrice, che è data dalla corrente dei fiumi, e per la presenza di una sola grande ruota, che trattiene attorno alla sua circonferenza i contenitori dell’acqua. Solitamente l’asse di rotazione poggia le sue estremità sulle sommità di due notevoli costruzioni in pietra di forma triangolare. La parte emergente di queste strutture portanti, che affogano le fondamenta sul greto del fiume, supera l’altezza di sei e più metri. E di sei e più metri è la lunghezza di ogni raggio che insiste sulla circonferenza e sul mozzo dell’impianto. Questo è quanto ho potuto constatare leggendo i depliant offerti dal tour operator e navigando su Internet.
Ad Oristano le norie erano di casa sino alla comparsa delle pompe a motore che le ha mandate immediatamente in pensione una settantina di anni fa. Rimangono oggi le ampie vasche di raccolta dell’acqua ed i profondi pozzi sull’imboccatura dei quali in alcuni casi si ritrovano ancora i tre monoliti che una volta supportavano l’impalcatura in legno. Sa pedra sola e is pedras de su casteddu, erano le denominazioni dialettali riservate alla pietra solitaria ed alle pietre del castello. Casteddu, forse in riferimento al castellum aquae, il grosso serbatoio d’acqua utilizzato dai romani per convogliare il prezioso liquido negli acquedotti. Ripeto questi tre supporti, perso il loro equilibrio statico di verticalità giacciono oggi scompostamente sul terreno.
Nelle adiacenze del campo sportivo erano ospitati diversi mulini d’acqua. Uno aveva le sue coordinate all’interno di una vasta area oggi incolta ed una volta interessata dalle colture agrarie. Di esso rimangono il pozzo, il cunicolo d’ingresso con diversi scalini che portano al piano sotterraneo, la vasca di raccolta dell’acqua (su accibi ma anche su orcibi) e, disseminati in superficie, i tre blocchi di basalto che supportavano il bindolo. Nelle immediate vicinanze, a distanza non superiore ai cento metri, nella tenuta appartenuta al signor Carlo Nebiolo, esisteva un secondo mulino del quale oggi rimangono il pozzo e la struttura per l’accesso sotterraneo. Ad una cinquantina di metri più avanti, tra l’abside della chiesa di San Martino e la cinta esterna dell’ASL, veniva localizzato un terzo impianto. Sino a pochi anni fa erano ben visibili sull’imboccatura del pozzo oltre alle pietre portanti, somiglianti nella loro posizione eretta a dei menhir, anche le feritoie (is buccas de sa funtana) che consentivano, attraverso il nastro trasportatore in vimini, il passaggio dei contenitori, is congius, dalla falda acquifera sino alla prima vasca di raccolta. Nessuno si cura più di questi reperti archeologici del passato. Pochi, ma veramente pochi, sanno del loro apporto dato all’agricoltura.
Domani verrà effettuata una visita ad Aleppo, città cara alla cristianità, alla storia ed alla sua vitalità economica, e dopodomani si arriverà ad Hama, la tappa più importante della mia visita in Medio Oriente, dopo quella riservata alla via Recta di Damasco. Sono ben preparato ad incontrarmi con queste strutture lignee ed a conversare con esse il più a lungo possibile, come se avessero un’anima disponibile al dialogo. Le impressioni che ne ricaverò faranno parte del mio inconscio e so che dureranno a lungo nel tempo. So che non tradirò alcuna emozione esterna. Farò finta di nulla come se fossi uno qualunque dei 142 pellegrini. Quando l’ultimo dei turisti avrà voltato le spalle a questi curiosi marchingegni io non mancherò di avvicinarmi e di salutarli con simpatia.
In volo verso la Siria
Queste cose vado ripassando nella mia memoria durante il volo Cagliari-Aleppo. Fa una certa fatica l’hostess a governare avanti e indietro il carrello carico di bevande e cibarie. Mi sembra di avvertire in lei un certo disagio, ben mascherato dalla solita indifferenza. Forse è una mia impressione. Ma, affrontare sempre con il sorriso delle migliori occasioni quattro ore di viaggio non è né facile né semplice. Purtroppo nel tempo le aspettative dei tanti precari sono appannate dall’incertezza di un futuro non sempre roseo. Non sempre i sogni vanno di pari passo con la realtà.
A bordo siamo distribuiti in 24 file orizzontali da sei posti ciascuna. I più fortunati, quelli che hanno trovato sistemazione a diretto contatto con gli oblò del velivolo, hanno la possibilità di leggere il paesaggio sottostante.
La nostra età media è stimabile intorno alle sessantacinque primavere. Gli anni di vita probabile si aggirano sui quindici autunni. Sembriamo cambiali in scadenza o meglio dei titoli obbligazionari pronti ad essere estratti e conseguentemente cancellati dal debito pubblico. Finora vale il pagamento periodico degli interessi ma alla liberazione del titolo non vi sarà alcuna corresponsione del valore capitale. Il nostro valore attuale equivale quindi alla capitalizzazione delle rate di pensione ancora da riscuotere. Intanto si vive alle spese dello stato e sulle spalle di chi è in attività lavorativa.
E’ strana la vita. Erano pelate le zucche degli anziani del mio paese quando, durante le funzioni religiose della parrocchia, sul finire degli anni quaranta del secolo scorso, facevano capolino dal bavero del cappuccio d’orbace o quando, durante le processioni, ondeggiavano lentamente e pesantemente a destra e a manca lungo le strette vie del villaggio.
Già da lungo tempo quelle zucche pelate hanno ceduto il testimone della calvizie a molti dei partecipanti di questo pellegrinaggio in terra d’Oriente. Ma cosi è. Invecchiare non piace a nessuno. Conosco lo stato più meno precario di alcuni passeggeri. Vi è chi dichiara stati di benessere soddisfacenti ma vi è anche chi si attesta su percentuali di invalidità molto elevate. Ognuno ha la sua riserva di medicinali nella borsa da viaggio. Valgono come toccasana per invecchiare meglio e vivere il più a lungo possibile. Se il tempo non esistesse non avrebbe senso parlare di malanni e stati malessere. Non conosco al momento formule di azzeramento di tale entità astratta.
Dall’altezza di undicimila metri non si può vedere gran che dal finestrino dell’aereo. La rotta di volo non è stata dichiarata dagli operatori di volo per cui ognuno è libero di leggere il territorio sottostante a seconda delle sue conoscenze geografiche. A me sembra di riconoscere un’isoletta dal manto nero. Deve trattarsi di Stromboli. Più avanti vedo lo stretto di Messina e quindi i versanti occidentali ed orientali della Calabria. Di lì a poco il mare Ionio è pronto a cedere il passo all’Egeo. Tante isole sotto di me ma non riesco ad identificarne alcuna. L’isola di Cipro è riconoscibile per la sua vasta estensione. Dopo si entra in territorio Siriano. I parametri di una metropoli come Aleppo mi sfuggono. Forse l’aeroporto è distante alquanto dal centro abitato. L’atterraggio è morbido, molti applaudono. Le hostess e gli steward riferiranno certamente di questo atto di omaggio al comandante.
Siamo in Medio Oriente, nella vasta area che comprende anche la Fenicia e fenici sono stati coloro che, dopo essersi attestati in terra d’Africa, hanno maturato i loro propositi per importanti sbarchi in Sicilia ed in Sardegna. Sono diversi gli insediamenti del passato nella nostra isola. Cito per brevità ed importanza le sole città di Cagliari, Nora e Tharros (l’odierna Oristano).
Siamo qui anche per rendere visita ai nostri colonizzatori del passato.
Aleppo di notte
Prima notte ad Aleppo. L’albergo che ci ospita svetta alto, altissimo sulla verticale di Cassiopea. I septem triones, ossia i sette aggiogamenti stellari dell’Orsa minore, vagano, con coordinate mobili rispetto al nostro punto di osservazione, più a nord. Ben distesi a grappolo sul firmamento di questo emisfero boreale sembrano dare il benvenuto al nostro gruppo, quasi a proteggere dall’alto i giochi d’acqua espressi dalle fontane inserite nelle piscine di giardini ben curati. Molte piante esotiche sono disseminate lungo i percorsi della nostra residenza. Nella hall, il servizio d’ordine del personale addetto alla reception, è impeccabile. Bon ton, musiche di sottofondo e luci soffuse nelle varie sale di riposo creano i presupposti per una buona permanenza. Viene offerto agli ospiti il drink di benvenuto in calici di pregevole fattura. Molti ne approfittano ma la minoranza non gradisce affatto. Non si sa mai. La maledizione di Montezuma è sempre in agguato. No grazie. Su pistighignu alias su pennitziu, la preoccupazione o meglio il rischio che si corre nel dissetarsi e nell’alimentarsi costituirà una costante per tutto il viaggio. Finora mi è sempre andata bene, ma d’ora in avanti non so.
Al mattino i centoquarantadue pellegrini vengono suddivisi in tre gruppi e ad ognuno di essi è assegnata una guida. Vengono distribuiti anche i cappellini di appartenenza secondo la provenienza: blu per i turisti della Barbagia, e gialli e rossi per quelli del Campidano. Quando si va a prendere posto sui pullman non c’è da sbagliare. Anche i mezzi di trasporto sono riconoscibili non per la targa ma per i numeri 1-2-3 incollati e ben evidenziati in alto sulle fiancate.
I componenti del gruppo barbaricino
Il sottogruppo dei tonaresi è costituito da Tonino, Antonietta, Maria e dal sottoscritto. Sono tutti di origine controllata. I loro cognomi sono citati nei registri parrocchiali già dalla fine del Cinquecento. Li presenterò in questo viaggio con la sigla d.o.t, cioè di origini tonaresi, per distinguerli da quelli affini, i nuovi entrati, che chiamerò d.o.i, vale a dire de intradura. Fra questi una sassarese che risiede da molti anni in paese ed una del Campidano di Cagliari che vi abita col marito saltuariamente. L’età media del sestetto è di settanta anni. Più numerosa la componente dei desulesi, definibile intorno alle sette od otto unità. Non mancano gli aritzesi, i meanesi ed i gadonesi. Tra i barbaricini sono da annoverare due ovoddesi ed una fonnese.
Inseriti nel nostro gruppo Barbagia, una signora di Tiesi, una di Giave, un coppia di Marrubiu, un signore di Bosa e diversi rappresentanti di Oristano. Fanno eccezione alla regola alcune presenze extra-regionali fra le quali una signora milanese e tre siciliani dell’isola di Lipari.
Di alcuni altri non conosco la provenienza. Non si può sempre chiedere le generalità di questo e di quello. La privacy va sempre rispettata. Per i non identificati userò all’occorrenza l’abbreviazione d.o.n.c (di origine non controllata).
Città di Aleppo e dintorni
L’intera mattinata verrà impiegata per rendere visita ai siti archeologici dell’antica Aleppo ed alla Moschea mentre di pomeriggio, come da programma, è prevista la partenza per il santuario di San Simeone. Si cammina tanto sotto il sole che, quando la guida si ferma per informare il suo seguito della storia dei vari monumenti, colgo l’occasione per riposarmi nei posti più ombreggiati.
Dalla parte più elevata della Cittadella, la fortificazione dai numerosi contrafforti, si può dominare con lo sguardo l’intero panorama. Sembra Parigi dice Tonino. Nulla da obiettare da parte mia. Non sono stato mai in Francia. Comunque Forza Pàris.
Minareti altissimi sembrano frazionare il panorama in tanti settori. Di tetti manco a parlarne. I lastrici solari e le costruzioni a cupola sembrano darsi il cambio in continuità senza un ordine prefissato. I primi offrono ampio spazio a grandi antenne paraboliche in perfetto allineamento con il satellite artificiale.
Girando per i vicoli della città si ha modo di notare lo strano avvolgimento verso l’esterno delle serrande dei negozi commerciali. Non ne capisco la funzione. Forse in caso di guasti sarà più facile intervenire. Anche nei vari mercati di Damasco, nei cosiddetti suk, questi avvolgibili in ferro zincato sono presentati con il ciuffo di testata in bella evidenza. E’ per guadagnare spazio specifica la guida.
Ed eccoci a San Simeone. Della colonna dello stilita, il monaco vissuto in preghiera per una quarantina d’anni su detta sommità, ora restano il piedistallo ed un primo masso. In tempi successivi alla sua morte, per onorarne la professione di fede ed il fervente apostolato, sono stati edificati, intorno al luogo di culto, quattro basiliche ed un monastero. Di dette costruzioni oggi restano le tracce più importanti delle facciate e dei muri maestri. Le rovine sono dappertutto. Se avessi potuto curare al meglio i principi basilari della storia dell’arte sarei stato, nella presentazione di questo servizio, più puntuale e preciso.
Alla santa messa, officiata dietro l’abside di una di queste basiliche da due terne di sacerdoti, presenziano tutti i partecipanti a questo pellegrinaggio. I posti a sedere sono dati dagli enormi massi di queste macerie. Le varie fasi liturgiche sono seguite, a debita distanza e con una certa curiosità, da appartenenti ad altre religioni.
Domani si partirà alla volta di Hama, con brevi sosta ad Ebla, Sergilla ed Apamea.
La sveglia suona sempre presto la mattina e, per guadagnare del tempo prezioso finisci sempre per saltare la colazione. Caffè?. No grazie! Bevande sfuse? No grazie! Soltanto un po’ di frutta e poi di corsa verso il pullman. Le zumate non sono gradite affatto. All’occorrenza porto sempre con me nella borsa da viaggio un rotolo di carta igienica, delle buste di plastica vuote e delle bottigliette d’acqua. Null’altro.
Ebla
Il mezzo di trasporto corre verso sud. Di mattina verranno visitate Ebla e le città morte. Di pomeriggio sarà la volta di Apamea. Non so che cosa mi aspetta.
E’ ancora primo mattino quando si arriva ad Ebla. La scoperta di questo importantissimo sito archeologico, situato in un’area apparentemente priva di qualsiasi interesse storico, è da ascrivere al merito di professor Matthiae, il quale, a capo di una missione composta da italiani, si occupa di questi scavi da ben quaranta anni. Il materiale raccolto fornisce un’idea dei risultati conseguiti sul campo. Sono infatti 17.000 le tavolette di terracotta recuperate nell’archivio dell’antichissima città reale. Esse raccontano la vita di quattro mila anni fa. E non è cosa da poco specie se si considera che, tanto per dare un senso alle scansioni temporali, mentre le schede dei nostri condaghi sardi raccontano fatti di ieri, quelle eblaitiche forniscono resoconti di una settimana fa. I reperti, questi come quelli, fanno riferimento a fatti normali della vita dell’uomo come permute, contratti di vendita, successioni, ma la vera discriminante è data dal tempo che risulta espresso in millenni.
In una di queste tavolette è precisato il valore massimo determinato dai contabili di allora. Un numero cosmico costituito da appena sei cifre. Non risulta segnalato lo zero in quanto non ancora conosciuto.
Mentre la guida spiega, alcuni preferiscono passeggiare lungo i camminamenti che una volta portavano al palazzo del re, altri vanno a calcare le orme dell’antico archivio ed altri ancora fanno ispezioni nei dintorni.
Normalmente il professor Matthiae lavora con la sua equipe di archeologi nella zona più alta di questa collina. Per avere la fortuna di poterlo incontrare ed eventualmente intervistare bisognerà fare un po’ di strada, tutta in salita. Io decido di soprassedere anche perché, se mi sarà data l’opportunità di incomodarlo, non mancherò di ricordargli che il sito archeologico di Santa Anastasia in Tonara attende sempre una sua visita. Una capatina alle rovine di ciò che noi tonaresi consideriamo un gioiello di stile gotico non sarebbe poi male. Che si faccia quindi un’incaradedda durante i momenti di riposo.
Sergilla. Le città morte.
Nella sua marcia verso sud il pullman ci porta alle città morte del passato, non del secolo scorso ben s’intende. Tutto ciò che veniva espresso e manipolato dalle popolazioni di quei periodi è ancora sotto i nostri occhi: case in perfetto assetto statico, loggiati ben distribuiti al piano terreno, architravi che reggono ancora i piani superiori, camere per il normale lavoro e camere per il riposo. Quindi gli ambienti riservati all’igiene della persona quali tepidaria, calidaria, frigidaria e quelli interessati alla macinazione dei cereali, alla lavorazione delle olive e del vino con evidenti testimonianze di frantoi, mole e torchi.
Chiese per il culto cristiano, luoghi di sepoltura, fabbriche di sarcofaghi è quanto si incontra nei percorsi curati con molta bravura dalla guida siriana. Nei vari punti più strategici si ha anche l’opportunità di seguire le indicazioni offerte dai cartelli turistici locali, ma normalmente si cerca di saperne di più affidandosi alla viva voce del capo gruppo.
Borgate e quartieri spenti a Tonara
Nel visitare le rovine di Sergilla il mio pensiero corre velocemente al mio piccolo villaggio di montagna, nella Barbagia centrale.
Quando David Herbert Lorenz vi transitò fugacemente nel gennaio del 1921, Tonara era molto ben rappresentata demograficamente dai suoi antichi rioni di Arasulè, Toneri, Teliseri ed Ilalà. Appena dieci anni dopo, l’ultimo dei vicinati citati venne dichiarato ufficialmente disabitato. A soffrire le stesse pene di sopravvivenza è ora la frazione di Teliseri. I suoi abitanti sono ridotti a poche decine di anime mentre la borgata di Toneri, ha forze residue pari a meno della metà della popolazione censita agli inizi del Novecento. Completamente abbandonata la contrada di Cartutzè e sulla via dell’estinzione completa anche la fascia abitativa di Murù. Molto asfittiche le contrade di Maria Pra, Pratza manna ed altre ancora. Tanti hanno deciso di trasferirsi alla nuova frazione di Su Pranu ma i più hanno tentato la carta risolutiva dell’emigrazione.
Come potete osservare, precisa la guida siriana, quasi tutte le abitazioni sono orientate a mezzogiorno e da ciò potete dedurre i numerosi vantaggi ottenuti in passato dalle stesse costruzioni e dai loro abitatori.
La casa dei nonni materni
Anche la casa dei Garau-Floris, miei nonni materni, traeva enormi benefici dal punto di vista dell’esposizione a sud. Pratza manna, questo il nome della contrada in cui sorgeva l’edificio e vi ritrova ancora le stesse coordinate, è oggi creditrice dell’ampio spazio ceduto alla fine dell’Ottocento, a favore della costruzione e delle sue prossime pertinenze. Penso che l’agorà di una volta andasse a comprendere una superficie superiore ai quattrocento metri quadrati. Un’estensione notevole per un rione completamente arroccato sulla montagna. Oggi la grande piazza, sinonimo di Pratza manna, è ridotta ad una piccola arteria che ha i suoi punti di fuga a monte lungo le impennate della via Sulis, ad occidente verso le case dei Porru e ad oriente verso la contrada di Maria Pra.
Presumo che mio nonno, già proprietario dell’intera superficie libera, una volta definiti i confini della sua abitazione, avesse provveduto successivamente ad alienare a terzi gli appezzamenti limitrofi. Tutto questo è legittimato dalla presenza delle vedute ancora esistenti sulla fiancata laterale sinistra e sul lato nord. Ciò che oggi sembra l’espressione chiara di una servitù sui fondi altrui altro non è che una giustificazione della destinazione del padre di famiglia. Non si spiega altrimenti la mancata presenza di aperture verso mezzogiorno nella costruzione dei Pruneddu-Demurtas, i confinanti con il lato nord dell’edificio dei Garau Floris. Ma forse queste sono delle illazioni prive di ogni fondamento.
Quindi una costruzione, quella dei miei nonni, edificata in Pratza manna, una piazza che a monte di essa, nel tracciato che la univa al sagrato della chiesa parrocchiale di san Gabriele, non presentava alcun insediamento abitativo. Il mio convincimento si va rafforzando sempre di più specie se si considera che nel censimento del 1829 non viene fatto cenno alcuno alle arterie oggi denominate via Vittorio Emanuele e via Sulis, una bretella quest’ultima che unisce Pratza manna con la prima via citata. Nello Status animarum di tale anno, sono citate nell’ordine dal vice parroco Domenico Martini le seguenti contrade di Toneri: Craccalasi, Catzolaghedu, Cortzò, Pratza de is Garaus, Pratza manna, Pratza di Maria Abrà, Pratza di Vincenzo Cocco, Barigadu, Maria Abrà di basso, Pratza de is Zuccas, Cartucè (sic) e Murù. Sono anche certo che la contrada denominata Pratza de is Garaus non fosse l’attuale via Sulis bensì la sua parallela, oggi via Umberto I.
In ogni modo, ai fini di una ricerca più accurata è bene comparare i dati presenti nel registro citato con quelli dei censimenti antecedenti e successivi al 1829 e tenere bene in vista anche i restanti libri parrocchiali tonaresi, i Quinque Libri tanto per intenderci. Migliori risultati si potranno ottenere consultando il Fondo patrimoni ecclesiastici dei chierici tonaresi.
Dell’atto di donazione stipulato il 29 gennaio del 1786 in favore di Salvatore Garau, un sacerdote domiciliato in Pratza de is Garaus, riporto un breve passo curato da Pietro Ammirabile Corriga, il notaio di Pratza manna. Fra i beni in elenco risulta anche la casa di proprietà dello stesso Garau, il quale in detto contesto assume la doppia figura di donante e donatario. L’entità immobiliare in oggetto, valutata 375 lire ossia 125 scudi, rappresentava in quel tempo la quarta parte esatta della cifra indicata dal Vaticano per poter aspirare al sacerdozio.
Si precisa nel documento che las casas prop(ria)s del escrivente Salvador Garau, q(ue) se componen de dos sostres y dos sotanos, porchada, eo lonja [loggia o portico] con el aposento, q(ue) se suele usar p(o)r cosina confinante à las mismas casas, situadas dentro el poblado vesindado [rione] de Tonery, parage [contrada] vulgo praza de is Garaus, son las mismas q(ue) le ha recahido de herencia (…) q(ue) afrontan en una parte à casas dela q(uonda)m Antioga Sulis calle [via] en medio; parte à casas de Lorenzo Cucuru sendero [viottolo] en medio; parte à ruina de casas de Miguel Garau, y parte à casas de Fran(cis)co Dearca avalorada(s) en lib(ra)s 375.
La casa dei nonni materni si presentava sul finire degli anni quaranta del secolo scorso con un fronte di quasi otto metri, una profondità di oltre quindici ed un altezza che andava a regolare nei suoi tre livelli abitativi il pianterreno e due piani superiori.
Le aperture più interessanti della facciata principale erano rappresentate dai portoncini in castagno che davano gli ingressi nell’ordine alla bottega del calzolaio, all’abitazione vera e propria e alla falegnameria, e dalle finestre dei piani superiori in posizione simmetrica rispetto ai balconcini in ferro battuto.
Il breve andito del piano terreno portava direttamente al piano superiore lasciandosi sulla destra il lungo laboratorio del falegname e sulla sinistra il locale del ciabattino, la legnaia ed una stanza cieca sulla quale io non ho mai messo piede.
Il piano intermedio era regolato sul lato nord da una porticina che immetteva ad alcune stanze buie, insufficientemente illuminate da un sola lampadina di poche candele. Erano queste le stanze che davano l’accesso alla ritirata. Un ampio vano scala immetteva all’ultimo piano lasciandosi intorno l’andito, una camera da letto, una saletta riservata ai lavori di cucito ed una piccola cucina.
Al piano di sopra una sala spaziosa, illuminata dalla luce di una veduta del lato ovest dell’edificio, sembrava fungere da spartitraffico con le camere da letto, la cucina ed il locale adibito alla conservazione delle derrate alimentari.
I locali nei quali io mi soffermavo maggiormente erano la falegnameria, la calzoleria e la cucina del piano superiore. Doverosa una piccola presentazione.
La bottega del falegname.
Il locale era così allungato che l’apertura che dava all’esterno sul lato nord sembrava piccolissima, lontana, quasi irraggiungibile. Addossati alle pareti assi, tavole e tavoloni di castagno, di noce e di ciliegio. Sistemati alla belle meglio su apposite rastrelliere saracchi, sergenti, morsetti, scalpelli, sgorbie, martelli, mazze, trapani a manovella, pialle di varie misure, graffietti, compassi ed altri utensili strani, per me allora privi di alcuna funzionalità.
Il carattere distintivo del laboratorio era contrassegnato dalla presenza di due panconi provvisti di morse. Entrambi, soffocati alla loro base dalla abbondante segatura e dai trucioli, sembravano garantire l’efficienza della falegnameria. Talvolta l’acre e pungente odore della colla fumante e dell’alcool usato per la lucidatura a spirito, impregnava l’aria in modo quasi ubriacante. Preciso che in quei tempi non esistevano le vernici acriliche e nelle fasi di rifinitura, quali quelle della mordenzatura e della brillantezza dei mobili, si ricorreva all’olio di lino e alla gomma lacca.
Dappertutto regnava il disordine più completo. Impossibile rimettere a posto l’insieme.
La bottega del calzolaio
Era un piccolo locale caratterizzato anch’esso dal disordine di un deschetto sul quale trovavano posizione martelli, lisse, lime, trincetti, chiodi di varie misure, pece, colla, spago e l’immancabile ciuffo di setole. Alle pareti alcuni malandati scaffali presentavano le scarpe da ritirare e quelle da risuolare. Sul pavimento venivano spesso adagiati i fogli del pellame e del cuoio. Sparpagliati sul pavimento treppiedi, forme di varie misure ed altre immagini simbolo della calzoleria. Una piccola sedia era sempre a disposizione dei clienti e degli avventori desiderosi di ripassare le ultime notizie del vicinato.
La cucina dell’ultimo piano
Rappresentava l’ultimo vano utile dell’edificio. Gli svantaggi derivanti dall’infelice esposizione a nord erano largamente compensati dal tepore offerto dal caminetto in ogni ora della giornata ed in qualsiasi stagione, estate compresa, e dall’opportunità di osservare ciò che succedeva oltre la vetrata della porta finestra. Tra noi ed i Pruneddu-Demurtas, nostri vicini, correva una linea di confine mai definita, che io ho potuto varcare una sola volta.
Erano poche le cose che normalmente vedevo dalla mia cucina. Alla sinistra di questa fotografia che mi si parava davanti devo segnalare la parete priva di vedute di un edificio che si articolava e sviluppava verso nord per una trentina di metri, al centro un ampio cortile e sulla destra la fiancata, anch’essa priva di aperture, di una bassa costruzione. Queste erano le pertinenze fotografiche dei Pruneddu. La possibilità per loro di godere dei salutari benefici del sole era data unicamente dalle molte aperture sulla via Sulis, ad ovest, e da quelle danti sul piazzale interno, ad est.
E’ per l’uccisione del maiale dei nostri vicini che mi fu concesso di raggiungere il loro cortile. Mia nonna infatti, aprendo quella porta finestra, mi aveva permesso di varcare la soglia di casa e di partecipare all’avvenimento.
Non sono riuscito mai a spiegarmi il perché di quella forzata intransitabilità. Dovrei chiedere a mia cugina Michelina, più anziana di me di circa venti anni, che aveva vissuto nella casa dei nonni per diversi anni, anzi vi era addirittura nata, chiarimenti in proposito. Vorrei sentire anche la versione di Elena Pruneddu, altra anziana rappresentante di quel periodo ma, come sempre accade è talvolta antipatico, come ho già precisato in altra occasione, chiedere sempre a questo e a quello. Purtroppo, essendo preclusa la possibilità di intervistare il cenere muto di chi ha già adempiuto al pellegrinaggio terreno, non mi resterebbero altre vie di scelta.
Ricordo che quella famosa volta, dopo aver assistito ai soliti rituali riservati al suino, piuttosto che ritornare alla mia cucina, preferii infilarmi in un andito dell’abitazione dei Pruneddu e guadagnare l’uscita sulla via Sulis, a metà strada tra Pratza manna e la via Vittorio Emanuele, proprio nel punto in cui i passanti, ancora oggi, hanno la possibilità di attraversare lo stretto corridoio (sendero) che porta alla strada (calle) de is Garaus, l’attuale via Umberto I.
C’è da augurarsi che un domani, quando l’ultimo inquilino avrà abbandonato queste austere e severe abitazioni, possano essere riservati ai possibili fruitori l’accesso e la visita al pubblico. Si ha a che fare con beni culturali del passato di un certo spessore.
Apamea
Ancora sul pullman per altri giri, altre storie. Sempre verso sud. Ho un sobbalzo al cuore quando nei pressi di Apamea mi sembra di scorgere un acquedotto sopraelevato. E’ lì che si trovano le possenti ruote idrauliche, penso. In basso ci deve essere la vasca di captazione dell’acqua e tra il punto di minimo ed il punto di massimo devono trovarsi le gigantesche norie che, nel trasporto del prezioso liquido, fungono da castella aquae. Nulla di tutto questo. Si è trattato di un miraggio, eppure il deserto è ancora distante da noi. Bisognerà seguire un’altra direzione per poterlo raggiungere. Occorrerà procedere verso Est. Ma non oggi.
Si tratta, riferisce la guida, del colonnato di Apamea. Per poterlo visitare occorrerà coprire a piedi la distanza, da porta a porta, di circa milleseicento metri. La larghezza del tracciato ha una dimensione costante di trentacinque metri dei quali ventuno sono riservati alla sede stradale ed i restanti ai portici ed ai muri esterni.
Dappertutto rovine che sanno di piedistalli, capitelli, architravi, frontoni e blocchi di materiale basaltico. Spesso i frammenti lapidei sono contrassegnati da un numero di riconoscimento. Questa infatti è una zona ad alto rischio sismico.
Le colonne, ben modellate e differenti le une dalle altre a seconda delle maestranze che le hanno progettate e realizzate, presentano spesso, a pochi metri dalle loro basi delle mensole che una volta supportavano statue di dei o busti di facoltosi committenti i lavori. Belli, anzi bellissimi i fusti cilindrici a tortiglione o a spirale.
A metà percorso una poderosa struttura a più blocchi sovrapposti rompe la monotonia del movimento rettilineo e sta ad indicare la presenza del decumano, la via traversa.
E in questo percorso archeologico compaiono per la prima volta i venditori di souvenir. La loro mercanzia comprende fazzoletti, copricapo, tappetini, pareo, album di fotografie, oggetti di numismatica, strumenti musicali e cianfrusaglie varie. Hanno un’età variante dai quindici ai venti anni ma tra di essi anche qualche rivenditore anziano. Fra i giovani ve n’è uno che per attirare l’attenzione sui suoi pochi articoli propone la vendita di un giocattolo di colore nero che modula insistentemente il verso del maiale. Vorrei acquistarglielo per farlo star zitto ma non sarebbe la soluzione migliore. Sono certo che il grugnito riprenderebbe di lì a poco. Ogni tanto salgono sulle loro moto colorate e scompaiono da dietro i portici per poi ricomparire in altre postazioni della sede stradale. Stessi ninnoli, stessi grugniti, stessi quadretti di tentata o forzata vendita.
Hama
Ad Hama si arriva all’imbrunire. E’ la città delle norie. Una volta ultimate le solite formalità alla reception mi avvio verso la mia camera d’albergo per depositare i bagagli e per fare conoscenza del mio nuovo alloggio. C’è sempre un certo interesse a sapere che cosa vedi dalla finestra. E’ sempre preferibile per chiunque poter usufruire e godere, anche se i tempi di pernottamento sono ridotti, di un panorama mozzafiato piuttosto che di una zona orfana del minimo indispensabile. Resto di stucco quando mia moglie, più lesta di me nello svolgere l’ultima tendina del complesso tendaggio mi partecipa della presenza di alcune norie proprio di fronte all’albergo, ad una distanza in linea d’aria non superiore ai cinquanta metri. Le luci soffuse non impediscono di inquadrare lo stato di immobilità delle loro potenti strutture, ben supportate intorno ai terminali dei loro assi di rotazione da due imponenti costruzioni in pietra. A muoversi intorno alle acque lente e basse dell’Oronte, un fiume che nasce nel Libano e va a sfociare nel Mediterraneo, solo delle papere che si lasciano trasportare dalla corrente. Qualche curioso vaga intorno ai camminamenti che portano alle ruote dei grandi impianti. Al disopra del punto massimo di rotazione intravedo la vasca di ricezione dell’acqua e dietro di essa l’acquedotto sopraelevato.
Il punto focale che inquadra queste ruote idrauliche dal diametro superiore ai quindici metri è ben supportato da una costruzione a più cupole, forse una moschea, e da un campanile a forma di minareto. Sotto di me il ponte che collega e divide le due parti della cittadina. Intorno al fiume tanto verde. Un quadro magico, quasi fiabesco. Sembra di essere ad Asiago. A me in particolare produce una strana sensazione che mi ripaga abbondantemente del tempo impiegato nello studio di queste ruote del passato. Vado a comprendere fra queste ultime i mulini ad acqua ancora in attività a Samugheo e le gualchiere di Tiana, mulini che macinano le granaglie i primi e feltrano, o meglio feltravano l’orbace, le seconde. Mi ritornano alla mente i pozzi cagliaritani del rione di Castello senza dimenticare tutti quelli che ho potuto visitare nei centri di Uta ed Oristano. Passo ancora in rassegna le varie fotografie che mi hanno permesso di effettuare una prima lettura degli ingranaggi per certi versi complessi delle norie sarde, le interessanti pagine degli autori che nel passato hanno trattato di queste macchine utili all’agricoltura e per ultimo le particolareggiate lezioni tenute da Efisio Nonnis.
Ricordo benissimo quando, nelle corsie del San Giovanni di Dio, mi parlava de is arrodeddus ossia della ruote, orizzontale e verticale, che impegnavano rispettivamente la trazione dell’animale ed il trascinamento dei contenitori di terracotta. Vedi, mi diceva, l’ingranaggio è simile a quello operante in un macinino da caffè. Per essere più convincente distendeva la mano sinistra in posizione orizzontale e con la destra tenuta verticalmente andava ad incrociare le dita le une con le altre per effettuare un piccolo movimento.
Aveva anche cercato di mimare due diverse inquadrature dell’impianto facendo ricorso a due visualizzazioni, una dall’alto ed una di profilo.
La prima permetteva di mettere a fuoco un’area circolare sulla cui corona esterna si identificava il percorso dell’animale. All’interno di essa un punto ben definito stava ad indicare la parte terminale dell’albero che, mobile come un fuso, consentiva, intorno al suo asse, il movimento della ruota orizzontale. Sempre dall’alto si potevano scorgere i due tiranti, sa petia trota e sa ghia ossia la pertica storta e la guida, che assicuravano la perfetta tenuta dell’asino attorno al bindolo. La ruota verticale sfuggiva ad una sua lettura essendo ben mascherata dalla puleggia esterna e dai contenitori di terracotta. Nei pressi dell’area circolare citata trovava sistemazione su accibi, ossia la vasca di raccolta dell’acqua.
La seconda visuale, quella regolata ad altezza d’uomo, permetteva invece di inquadrare la ruota verticale con i contenitori dell’acqua, l’asino, gli addentellati della ruota orizzontale e l’albero con i relativi agganci. Tutto qui.
Mi sono anche ripromesso di costruire una piccola noria con materiale di fortuna ma la pigrizia me lo ha sempre impedito. In effetti aspettavo di fare la conoscenza della noria siriana. Ora non ho più scusanti. E sono passati più di dieci anni dai corsi teorici e pratici tenuti dal signor Nonnis.
Nel periodo dell’irrigazione dei campi, riferiva il mio maestro, gli acquadoreddus, i piccoli addetti al governo della noria ed alla annaffiatura degli orti, oggi attempati ottantenni, erano soliti esternare, a voce alta, spesso strillata, la contentezza di fine turno di servizio, con il seguente duetto:
Note strillate del mittente:
Prima strofa Oooooh! Oooooh!
Seconda strofa O Antoni tou, O Antoni tou,
oppure O tui tou, O tui tou,
Terza strofa Cantu n’di tenis ancora? Cantu n’di tenis ancora?
Risposta del destinatario
Ni tengu tres iscetti, tres iscetti
oppure Ni tengu duas e mesu, duas e mesu
oppure Ni tengu duas ancora, duas ancora
oppure Appo accabau, appo accabau.
Tali messaggi, trasmessi inter agros ed inter eos, miravano a far conoscere quanti solchi, giradas o coras mancavano al completamento del lavoro.
Per Pirandello: La noria a ogni giro della bestia dava un fischio lamentoso. Egli, da lontano, contava dei fischi, sapeva quanti giri ci volevano a riempire i vivai, e si regolava.
Tanto per restare in tema con la letteratura, riportiamo la seguente quartina del D’Annunzio: Laggiù, presso la mola d’un frantoio / o presso i tronchi di un’antica noria / onde pendon consunti corda e cuoio, / sorride un morto all’invisibil gloria.
E’stato riferito nel pomeriggio dalla guida, nella sua presentazione d’anteprima, che questi impianti siriani cigolano in modo molto strano. I turisti sopportano piacevolmente, non altrettanto i cittadini di Hama. Naura, questo il nome arabo della noria, deriva da nau – nau, lo stridio prodotto dall’attrito volvente dei suoi organi.
Sono questi i pensieri che vado inseguendo nella mia stanza d’albergo. Nel dopo cena tenterò di fare la conoscenza diretta di questi mulini d’acqua.
Sembra che gli interessati non siano poi pochi. A piccoli gruppi si dirigono verso l’uscita dell’albergo per guadagnare i pochi passi che portano agli impianti di sollevamento dell’acqua. C’è una certa fretta di raggiungere l’obiettivo e, come solitamente accade, si percorrono spazi e tempi in maniera molto confusa. Eravamo una decina in partenza mentre ora, sul ponte, ci ritroviamo in quattro. Due sono di Ovodda ed uno è originario di Marrubiu. Quest’ultimo è il padre di quell’arbitro di calcio dei cortometraggi (Se vuoi saperne di più digita in Google Arbitro corto). Se non sei interessato a questo sport puoi continuare a seguire queste ricognizioni idrauliche.
Per poter vedere da vicino le grandi ruote bisogna svoltare a sinistra ed infilarsi in un tunnel lungo una quarantina di metri. L’altezza massima di questo corridoio a botte, illuminato da luci molto fiocche, non supera i duecento cinquanta centimetri e la sede di calpestio è inferiore ai sei metri. Vado avanti deciso e determinato verso la porticina posta in fondo alla mia sinistra, pronto, una volta raggiunto l’ingresso, a cedere il passo a chi mi segue. In alto, oltre un muro di cinta, già si intravedono le immobili e nere pale della noria. Gigantesche, dalla cintola in su, quasi incutono paura.
Addossati agli stipiti della piccola apertura due giovani discutono animatamente tra di loro. Penso che questo quadretto non possa risultare gradito alle due d.o.v ed al d.o.m. infatti, come mi volto per favorire la loro entrata, mi accorgo che i tre non intendono proseguire. Non è necessario porre alcuna domanda per capire le loro intenzioni. Accetto in silenzio il loro responso muto e, sebbene contrariato, faccio marcia indietro.
All’uscita dal tunnel si procede per altre direzioni salvo ripassare sul ponte più tardi. Forse la soluzione adottata è stata la più giusta. Che si stesse preparando un complotto alle strutture turistiche di Hama? Non penso. I siriani sono i più pacifici della terra, a detta di Iasser. Comunque leggere dall’aldilà, nella peggiore delle ipotesi, che un italiano era rimasto vittima di un attentato non mi avrebbe fatto certamente piacere. Danni notevoli alle strutture del mulino dei tempi di Eliogabalo. Chissà quanto tempo occorrerà per rimettere a posto l’antico impianto. Nella tarda mattinata, il corpo esanime di un italiano, esperto di ruote idrauliche, non era stato ancora rimosso dal luogo dell’incidente. Così avrebbero dato la notizia i giornali locali.
Al rientro in albergo tutti sembrano fenici e contenti di essere passati sul ponte, di aver svoltato a sinistra verso il tunnel, di aver visto i bravi manzoniani, di avere raggiunto le postazioni migliori per inquadrare la noria, di aver fatto numerose fotografie e di avere sostato a lungo sui vari camminamenti a ridosso del fiume. E’ proprio vero. Dopo il danno la beffa. Qualcuno si era anche permesso il lusso di salire gli scalini che portano all’altezza dell’asse motorio della grande ruota. “Ho contato anche le ochette”, riferisce un altro, “il sessantotto per cento veniva trascinato lentamente dalla corrente mentre la restante percentuale, la parte migliore, remava contro”.
Solo gli animali acquatici sanno cosa significa sguazzare in mezzo al fiume e vedere in contemporanea i movimenti sinistrorsi e destrorsi delle norie situate sulle rive opposte. Solo loro sanno quanto sia bello assistere ai voli d’angelo dei piccoli temerari che, dopo essersi aggrappati al bindolo, si tuffano a capofitto nel greto dell’Oronte. Alle papere interessa solo questo scenario per certi versi paradisiaco. Poco importa che l’acqua che le trascina in direzione della Turchia, provenga dal Libano, che alla loro sinistra dietro le montagne ci sia il Mare nostrum ed alla loro destra, oltre il deserto, l’Irak e le sue tensioni.
La visita ai mulini d’acqua è programmata per domani mattina. Poi si partirà ancora verso sud alla volta della imponente fortezza dei Crociati, chiamata il Krak dei Cavalieri.
Si sale sul pullman e si va verso il centro della cittadina di Hama. Non provo più alcuna emozione nel vedere in mezzo al fiume un bindolo in movimento. Mi sembra di sentire uno strano nau-nau. E’ il rumore prodotto dal grande impianto. Forse l’avranno fatto girare appositamente per noi creando delle spinte maggiori verso la condotta principale, ma, la forza è insufficiente a garantire al liquido raccolto nelle cassette di raggiungere la vasca che immette nell’acquedotto. L’acqua ricade sugli stessi legni dell’impianto.
Più avanti, costeggiando il fiume si intravedono altri mulini. Dal punto di vista didattico non c’è più nulla da capire. A Damasco rivedrò ancora altri impianti finalmente operativi, con i contenitori pronti, una volta raggiunto il punto morto superiore, ad esternare il loro cucù all’interno della vasca sopraelevata.
Il Krak dei Cavalieri
Dopo qualche ora di distanza da Hama si arriva alla fortezza dei Cavalieri, una costruzione edificata dai crociati per far fronte alle incursioni cadenzate nel tempo da ottomani, mammalucchi, mongoli e arabi.
Iasser, la nostra guida, impiegherà diverse ore per presentare ed illustrare gli avvenimenti che hanno interessato la storia di questo monumentale avamposto sulla via di Gerusalemme. Si concederà qualche breve pausa lungo i percorsi interni che portano alle varie postazioni per i cavalli, per le vaste sale refettorio, per le cucine e per i vari punti di difesa disseminati lungo le torri di avvistamento del nemico. Riferirà più avanti che all’interno della fortificazione, eretta su di un’area di tremila metri quadrati, montassero continuamente la guardia ben sessanta cavalieri e che i cinquemila soldati della guarnigione disponessero di provviste alimentari per un periodo di cinque anni.
Con la storia in generale non vado molto d’accordo specie quando si fa riferimento a date, alleanze, complotti, successioni dinastiche, califfati, sultanati, governatorati, case regnanti e così via. Non do mai troppo peso alle questioni di lana caprina. A meno che non vi sia un interesse specifico per qualcosa di particolare come quando mi trovo davanti al portico gotico della fortezza. Gotico francese preciserà la guida più tardi.
Le sette campate della volta ripropongono gli stessi schemi presentati dal rettore Raimondo Bonu per il tempio, oggi in rovina, di Santa Anastasia di Tonara, la chiesa interdetta al culto dei fedeli nel 1785, per mancanza di dote, da parte dell’arcivescovo Cusani. Il Bonu, uno storico molto apprezzato per le sue numerose pubblicazioni, riferisce nell’opuscolo Ricerche storiche su due paesi della Sardegna (Gadoni e Tonara), edito nel 1936, che le tre arcate a crociera erano di stile gotico con la movimentazione a sesto acuto tanto negli archi perimetrali quanto in quelli diagonali. Le chiavi di volta delle strutture sovrastanti erano rappresentate da dei pomi di pietra, volgarmente chiamati dai tonaresi dei secoli scorsi con il nome di campaneddas, mentre qui nella fortezza i vari punti di intersezione sono contrassegnati da croci greche o disegni circolari. Non sappiamo da quali fonti il parroco citato abbia attinto le notizie sull’antica chiesa patronale ma tanto basta per credere, data la lettura ogivale che si può fare oggi degli unici monconi laterali del tempio, di essere nel rispetto della verità storica.
Vedi, dico a Maria, qui è come se fossimo a Tonara. Lei mi guarda incredula, quasi ritenendo impossibile che le maestranze tonaresi fossero state capaci di realizzare, sul finire del milletrecento o agli inizi del millequattro, come precisa sempre il Bonu, espressioni di così alta fattura.
Ed ora un breve descrizione dell’avvenimento che ha interessato buona parte della comunità tonarese in un pomeriggio domenicale di questo 2009. Si tratta di una messa riparatrice in onore di santa Anastasia. L’ultimo rito liturgico di suffragio era stato officiato ben 225 anni fa. Per noi d.o.t è un evento storico di singolare importanza. E’ il sei di settembre.
Pietre che parlano
Avevo accettato di buon grado l’invito rivoltomi da padre Cuccui, rettore parrocchiale a Tonara da meno di un anno, a partecipare alla messa in onore di santa Anastasia, patrona tonarese sino all’anno 1616. Ad onore del vero avevo anche preso nota della locandina presentata urbi et orbi sui canali di Internet che precisavano, attraverso il titolo di testata Perdas chi narant, dell’appuntamento fissato per le ore sedici di domenica sei settembre.
Ed eccoci arrivati al giorno della manifestazione. L’aria è calma. La risultante di tutte le forze agenti sul clima è nulla. Il silenzio è irreale. Sembra che parlino solo le pietre di questa arena ricavata sulle ultime prominenze dei vari rioni del villaggio. Le case dei vicinati, esposte in maggioranza a mezzogiorno, sembrano quasi sgomitare, nella loro disposizione sui vari anelli del vasto teatro naturale, per avere una visuale migliore.
C’è qualcosa nel cielo che, a livello di nuvole, sembra minacciare qualche improvviso rovescio d’acqua. Pioverà? E’ questa la domanda che rivolgo ai pochi presenti. Italo, uno degli ultimi rappresentanti del rione di Teliseri esclude a priori che ciò possa accadere. Chiedo poi a Giuanni della contrada di Murù, frazione di Toneri, di fare delle previsioni sul numero dei partecipanti al raduno religioso. Non so, risponde, dipende da quel che decideranno i residenti delle altre frazioni. Purtroppo Santa Nosta e(st) de Toneri. Est cosa nosta. Non de is ateros. Queste le sue conclusioni. Staremo a vedere.
Sono le diciassette ed ancora non si vede nessuno.
Il quadretto che si presenta di fronte a noi, che ci troviamo a ridosso di una montagnola di detriti, è muto. Al di qua delle tre pareti del tempio, nella zona una volta riservata al transetto ed alla navata centrale, stazionano una ventina di sedie bianche di plastica e, vicino a noi, alcuni sgabelli di forma allungata ed un tavolo anonimo. Sullo sfondo la vallata con i monti che la proteggono dall’alto. Si continua a discutere del più e del meno. Sempre calma irreale. Si pensa già ad un insuccesso piuttosto che ad una buona riuscita della manifestazione. Qualcuno intanto provvede ad installare un bel tavolo dalle belle tinte colorate. Fungerà da altare. E’ tutto ancora inanimato. E’ sempre la gente che fa la festa.
Alla nostra destra, al disotto di alcuni metri, un piccolo sentiero conduce ai ruderi della chiesetta mentre più avanti una mulattiera porta verso le zone agresti di Nugepasca ed Erisia. E’ lungo il sentiero citato che dovranno passare i fedeli, sempre che abbiano intenzione di presentarsi. Alle nostre spalle, in direzione nord, le strade che portano all’abitato. Quella di sinistra comunica con le ultime case di Murù, quella centrale porta, con l’attraversamento delle contrade di Cartutzè e Maria Brà, nel cuore di Toneri, e quella di destra conduce verso la frazione di Teliseri. E’ quest’ultima l’unica tratta abilitata al traffico degli autoveicoli.
Al disotto della spessa coltre di riporto su cui noi ci troviamo risponde il silenzio tombale di chi dimora in questo luogo sacro da molti secoli. Stiamo parlando del cimitero attiguo al tempio. I cinque libri di fine Cinquecento, i primi registri messi in attività dopo il concilio di Trento, testimoniano degli eventi più importanti della antica parrocchia tonarese. Si fa riferimento ai battesimi, alle cresime, ai matrimoni ed ai decessi. Il culto per i defunti doveva essere sempre rispettato. Se ne lamentava il Canopolo nel 1603 quando, ad evitare che i maiali dissotterrassero le ossa degli inumati, con decreto del 26 aprile di tale anno, imponeva ai vassalli di recingere il luogo sacro con muri alti otto palmi e di chiudere la porta d’ingresso con efficiente serratura.
Fanno intanto capolino dalle sconnesse stradine di Maria Bra de Osso, così veniva identificata questa importante arteria di Toneri dal vice parroco Martini nel censimento delle anime del 1829, i primi fedeli. Poi il vuoto. Ancora un altro gruppetto di persone. Sono i primi arrivi. Ancora il vuoto. Ed ecco un movimento ordinato, cadenzato di giovanissimi che si apre sul davanti in due file. E’ la processione. Da noi saranno distanti un centinaio di metri. Dietro di essi compare un piccolo simulacro che trova il giusto equilibrio in una portantina tenuta saldamente da due popolani. Si tratta di santa Anastasia. Nessuno fa caso al fatto che la statua sia priva di un arto o che sia di dimensioni alquanto ridotte. Forse chi ne aveva commissionato in illo tempore la realizzazione aveva pensato che la bisaccia d’orbace sarebbe stata l’unico mezzo adatto al trasporto. Io non l’avevo mai vista prima di oggi. Chissà quanto tempo sarà rimasta nel dimenticatoio dopo la dichiarazione di interdizione al culto della chiesa patronale. E’ lei che incede tra la folla in forma solenne. E’ lei che focalizza l’attenzione di tutti. Appena dietro sono riconoscibili il sacerdote, il primus inter pares, la confraternita, la banda musicale ed il gruppo cantori del villaggio. Molti gli stendardi in rappresentanza delle varie associazioni religiose e non solo.
Con la fantasia puoi gettonare e romanzare quello che ti passa per la mente ma certe volte la realtà smaschera e pone a freno i limiti dell’immaginazione. La santa patrona passa sotto la nostra postazione e di lì a poco andrà ad occupare il posto d’onore tra l’altare e l’abside. Fa un certo effetto cromatico vedere i vecchi ruderi rivestititi a festa dei tre dipinti di epoca spagnola. Il trittico cinquecentesco non poteva che fare bella figura nell’antica parrocchia di stile gotico.
E’ tutto pronto per la celebrazione della messa. C’è silenzio in ogni ordine di posti, rispetto per il luogo sacro, per la grande attesa e per il momento storico che si sta vivendo e rappresentando. Tra i fedeli molti anziani.
“C’ero anch’io” dirà qualcuno “nonostante fossi in condizioni molto precarie”. Questo vale per tutti gli assenti ingiustificati.
Il rito liturgico sembra consumarsi in breve tempo. Dopo un breve cenno al martirio della santa ed alla storia della nostra comunità nel passato, il celebrante, senza tentennamenti e con voce sicura, fa un richiamo ai principi di fede di ogni cristiano. Poche parole ben dette che fanno breccia nell’animo dei presenti. E sono tanti. Circa ottocento persone. Fra questi molti anziani. Pochi i bambini. Il problema della denatalizzazione ha interessato in questi ultimi decenni soprattutto queste terre di montagna. Finiti i tempi di attiare assutu quando sui sagrati delle chiese i piccoli, in gran numero, attendevano il termine delle funzioni religiose dei battesimi per dare la carica ai padrini in cerca di monetine.
La messa è partecipazione di popolo, messa sentita, messa per tutti, al di là delle pretestuose e insignificanti sfilacciature di carattere rionale. Per molti una grande emozione.
I giovani presenti non hanno nulla da chiedere agli anziani né questi hanno qualcosa da raccontare. La traditio è muta. Molte zone d’ombra e poche schiarite. Restano gli archivi che scoppiano di salute. Basta darsi da fare e attendere. Inutile abbandonarsi alla filosofia di una storia saltuaria ed episodica.
A livello di cronaca si è trattato di una bella partecipazione di massa. Io riferisco quanto ho visto. Verità nuda e cruda. Se affermo che in taluno l’emozione ha ceduto il passo alla commozione sono nel vero. Vi è anche una lettura filmata di cui si può fare affidamento ricorrendo ai potenti canali di ricerca dei nostri computer. Complimenti al fotografo.
Presente chi non poteva muovere un solo passo da casa senza l’aiuto degli appoggi artificiali. Assente chi poteva benissimo gestire le proprie forze in lungo e in largo. Se ne sarà pentito amaramente. Sono questi gli appuntamenti che contano e non si ripetono. Certo, vi saranno altre occasioni di riscatto come ad esempio la consacrazione della nuova chiesa, non c’è dubbio, ma la serie dei momenti che hanno consentito il recupero funzionale liturgico di una messa in santa Anastasia costituisce un evento storico.
La processione rappresenta pur sempre un modo ordinato di procedere con movimenti cadenzati, ritmati, continui. I punti di contatto con la fede, le tradizioni, il folclore, la storia, il canto, le preghiere completano il quadro d’insieme. Una risposta convincente a quanti credevano che non potesse ripetersi a Tonara, a datare dall’ultimo servizio sacerdotale officiato in Santa Anastasia, una manifestazione di così alta valenza.
La gente incredula, quasi sgomenta, ripassa i momenti migliori della messa ed alla fine accompagna sulla via del ritorno alla chiesa di San Gabriele il piccolo simulacro. Le caratteristiche casette del centro storico di Toneri sembrano quasi inchinarsi al passaggio della processione come ai tempi del Canopolo, quando, durante i suoi servizi pastorali resi negli anni 1603 e 1611, calcava le scene di questo vicinato nelle vesti di arcivescovo e di potente feudatario. E nei registri parrocchiali del post Concilio vi è nota anche di questi passi. Attonita, quasi muta sembra interrogarsi su ciò che potrà accadere nell’immediato futuro. I vari passa parola unitamente agli inviti rivolti attraverso i mass media hanno certamente contribuito ad entusiasmare gli animi, sollecitare vecchi credo e galvanizzare maggiori attenzioni
Non importa se un domani i vecchi muri perimetrali non avranno il conforto di una copertura, importante è che qualcosa si è mosso a livello di progetto, a livello di fede, a livello di comunità. E non è poco.
Palmira
Dal Krak dei Cavalieri si parte verso l’oasi di Palmira, una cittadina cresciuta nel cuore della Siria, e considerata nel passato un avamposto di notevole interesse economico e militare tra le vie d’acqua dell’Eufrate ed il mare Mediterraneo.
Già da qualche chilometro si ha la sensazione di trovarsi di fronte ad un sito archeologico di particolare importanza. Sul lato sinistro della strada che porta a destinazione si cominciano ad intravedere singolari costruzioni in materiale calcareo ed argilloso: sono le caratteristiche tombe a torre. La guida avverte che sono numerose anche le tombe ipogee. In prossimità del centro abitato intravediamo sempre a sinistra il colonnato di Palmira: è il Cardo Massimo. Rovine dappertutto per diversi chilometri quadrati di territorio: piedistalli, frammenti di colonne, architravi, capitelli, frontoni, agorà ma anche un teatro in ottimo stato di conservazione. Qui sono impegnate da anni missioni archeologiche di fede europea ma anche asiatica.
Ci siamo, fra poco si scende. Il mezzo di trasporto sembra fermarsi da un momento all’altro ma poi superata una zona periferica della cittadina si dirige verso la parte più elevata della collina per poi fermarsi nei pressi di una fortificazione di tutto rispetto, un’attrattiva di carattere culturale e paesaggistico.
Considerato che qui è quasi impossibile seguire le lezioni della guida e destreggiarsi tra i numerosi rivenditori di souvenir, preferisco stare un po’ in disparte, in posizione più avanzata rispetto al gruppo, per riposarmi e per poter gustare il panorama che ho di fronte. Adesso ho una chiara visione del tutto. Due lunghi tratti rettilinei suddividono il territorio in quattro parti, il Cardo Massimo in direzione nord-sud ed il Decumano in direzione ovest-est. Il concentrato di maggior peso archeologico è nel punto di incontro delle due grandi vie. Sembra di avere a che fare con gli assi ortogonali X e Y di un piano cartesiano. Ben definiti i quattro quadranti sui quali faremo visita domani mattina. L’oasi è là in fondo alla nostra cartolina, ben contraddistinta da una zona verde e ricca di risorgive. Ad occhio e croce si tratterà di un’area recintata di qualche chilometro quadrato, dove le varie coltivazioni di palme da dattero, ulivi e melograni favoriscono una notevole produzione.
L’albergo che ci ospita ripete, specie nella hall, i tratti più caratteristici del colonnato e dei portici. Nelle camere le testate dei letti inseguono le classiche figure a triangolo isoscele dei frontoni. La stessa scena si ripete anche per gli specchi i quali vanno a rappresentare nei loro contorni lo stile classico dei basamenti, stipiti ed architravi incontrati in questi percorsi culturali. Per poter disporre di un disegno schematico si invita il lettore a rivedere con maggiore attenzione i biglietti in circolazione da cinquanta euro. Non mancano in questi mobili d’albergo i precisi richiami all’arte siriana con intagli di notevole pregio di fattura damascena.
Dalla stanza che mi ospita posso chiaramente vedere una pozza d’acqua di discrete dimensioni da cui partono le condotte per gli usi domestici e per l’irrigazione. E’ una delle tante risorgive dell’oasi.
Nel dopo cena, una piccola sosta nelle poltrone della reception è molto rilassante. Hai modo di studiare più da vicino l’insolito movimento che si è venuto a creare con la presenza in albergo di personalità d’alto bordo. Domani pomeriggio a Palmira ci saranno le corse dei cammelli e per l’occasione saranno presenti anche il presidente della repubblica e il capo del governo.
La curiosità ti porta a fare una lettura più attenta e più puntuale del portamento e della gestualità dei dignitari in alta uniforme. Il fazzoletto di vari colori che portano sul capo è trattenuto fermamente da un cerchio nero che termina sulle loro spalle con un cordoncino. L’abito bianco, anzi bianchissimo, corre sino all’altezza dei calzari in un panno unico. Alcuni sgranano velocemente ed in continuazione il rosario tanto da far pensare che non stiano pregando affatto. Questo mio modo di pensare è suffragato dal fatto che, anche quando parlano tra di loro, le dita della mano sono sempre in movimento. Pregare è sempre difficile per chiunque. Alcune donne sono presenti con l’abito nero di stoffa pregiata ben lavorato nelle asole, nelle abbottonature e nei risvolti. La confezione è curata da un solo drappo di tessuto. Il capo è abbondantemente fasciato da un fazzoletto che va a ricoprire parzialmente la faccia. Restano allo scoperto gli occhi, dei grandi occhi neri che sembrano sprizzare una intensa luce dappertutto. Quasi inavvertitamente ti senti osservato ma è solo la tua impressione.
La morte di Gipo
E’ il quinto giorno di permanenza in Medio Oriente. Oggi si farà visita alle tombe ed al colonnato e di pomeriggio si partirà per Damasco. Intanto di primo mattino mi informano dall’Italia della morte di professor Onnis. Ne prendo atto ed informo il primo che mi capita attorno. Non passano più di pochi minuti che tutti, specie gli oristanesi, sanno del decesso del valente latinista e grecista. Fiada arribada s’ora, il commento in sardo di una del gruppo città di Oristano. Hodie mihi cras tibi era la scritta dorata sul drappo nero che, durante le cerimonie funebri, avvolgeva a Tonara le bare dei trapassati. Era una massima comprensibile a tutti, anche a chi non aveva mai fatto un solo rigo di latino. D’altronde la differenza con Oe a mimi e crasa a tie è minima. Un monito che vale per chicchessia ma senza creare spauracchi eccessivi.
A San Vendemiano, nel trevigiano, nella seconda metà degli anni sessanta, tutte le omelie parrocchiali trattavano della morte. A Conegliano andò meglio, anche se il campanile del Duomo, ricordava come ricorda tutt’oggi a chiare lettere, ben definite sotto l’orologio, che Vulnerant omnes ultima necat.
Eppure per chi recita l’Ave Maria la raccomandazione all’ultima ora di vita è sempre una costante. Ecco la traduzione della seconda parte della preghiera nella variante dialettale tonarese: Santa Maria, mamma ‘e Deu(s), prega po nosateros peccadores com(o) e a s’ora de sa morte nostra. Amen in Ge(su).
Visita a Palmira.
Si inizia con la visita alla zona cimiteriale. Sembra di partecipare ad una festa. Tanti turisti da queste parti. Soprattutto italiani. I cappellini blu, rossi e gialli sono visibili all’ingresso delle tombe a torre. Si entra con difficoltà. Vi è anche la possibilità di accedere ai piani superiori. Preferisco sostare nella saletta a pianterreno quel tanto che basta per avere un’idea delle usanze funerarie di alcuni millenni addietro. Poi, dopo le precisazioni della guida, si esce fuori per visitare le tombe sotterranee. Ancora lezioni che sanno di date, dinastie, divinità, di usanze e di studi ancora in atto per stabilire e puntualizzare al meglio i percorsi del passato.
Per noi turisti, avidi di curiosità più che di cultura, è una forma di spettacolo, folclore, divertimento. A nessuno passa per la mente di recitare una parola di Requiem per i trapassati.
Nei tempi di percorrenza verso il colonnato i rivenditori di souvenir si fanno avanti con la loro mercanzia quasi con insistenza. Fazzoletti, strumenti musicali a corda, monete antiche, borsellini: un euro, due euro, cinque euro, dieci euro. C’è un giovane con i cappelli rossi che ti presenta i suoi articoli con un modo molto garbato ed una sufficiente conoscenza della nostra lingua. C’è una prima tentata vendita con ognuno del nostro gruppo targato Barbagia. Poi si ripresenta una seconda volta, poi una terza. Conclude anche diverse operazioni. Ci sa fare. Ma quando te lo rivedi ad ogni piè sospinto ti viene voglia di mandarlo a quel paese. Ma sono asfissianti anche i restanti rivenditori. Spesso cerco di fissare lo sguardo nel vuoto come uno che ha perso il ben de lo intelletto. Funziona, vi dico.
C’e abbastanza tempo nella mattinata per visitare alcuni siti cari alla Roma del passato. Ovunque scavi e rovine. In qualsiasi punto dei vari quadranti del piano cartesiano citato vi è una testimonianza storica. Frammenti di reperti in materiale lapideo dappertutto. Come ti chini hai subito in mano un documento. Questo vale per un’area di diversi chilometri quadrati.
Queste colonne sono in marmo, puntualizza la guida. Arrivano, o meglio sono arrivate dall’Egitto. Per il trasporto il committente ed il vettore avranno tenuto conto soprattutto della distanza e del peso complessivo. Considerando il peso specifico del materiale ed il volume, siamo nell’ordine approssimativo delle 50 tonnellate. Una bazzecola. Ohi mamm’ia!
Damasco
Per andare a Damasco bisognerà fare marcia indietro nel deserto e quindi muovere nuovamente verso sud.
Alla partenza ci informano che passeremo nelle vicinanze dell’ippodromo con la possibilità di vedere dal pullman qualcosa di interessante. Dopo un paio di chilometri i nostri mezzi di trasporto vengono superati agevolmente da un lungo corteo di macchine. Non ci vuole molto a capire che in una di quelle viaggiano le più alte cariche dello Stato. Di lì a poco si fermeranno sul piazzale antistante una palazzina di due piani. Sostiamo anche noi. Un servizio d’ordine veramente impeccabile non consente di vedere granché. Riferiranno i più informati che il presidente della repubblica ed il premier si trovano già sul palco delle autorità. Intanto le guide ci invitano a salire al piano superiore per andare ad occupare i posti di una delle due tribune laterali.
Come sia potuto accadere tutto questo non sappiamo. E’ una variante al programma di viaggio. Per il nostro direttore spirituale, ligio a tutti gli accordi stipulati nel contratto, si tratta di una trasgressione grave. Nessuno comunque ha modo di rammaricarsene. I cappellini gialli, rossi e blu offrono una bella coreografia d’insieme. Non ci sono più poltroncine libere. A calcoli fatti la capienza dell’ippodromo potrà contare su una disponibilità di circa quattro o cinquecento posti tutti al coperto.
E’ questa una delle poche volte della giornata in cui siamo tutti riuniti. E costituiamo un gruppo decisamente numeroso. Siamo tanti quando ci presentiamo alle reception degli alberghi, quando ci ritroviamo al ristorante, quando seguiamo le funzioni religiose nelle sale che ci mettono a disposizione oppure quando si va nei musei o nelle moschee. Bisogna dare atto agli organizzatori se tutto procede al meglio.
I cammelli si trovano già in pista pronti per il via ma bisogna attendere che i venti figuranti, disposti a quadrato sul parterre in terra rossa antistante la tribuna centrale, rendano i dovuti onori alle autorità. Inappuntabili nel loro completo di tela bianca e fazzoletto, trattenuto in alto dal cerchio simil-corrugato, si muovono a piccoli passetti cadenzando le loro danze con potenti scudisciate sui tamburi. Poi scompaiono sotto una tenda dai molti colori. C’è un attimo di tregua cui fa seguito la concitata cronaca della partenza dei puro sangue. Il percorso va ad interessare un tracciato circolare di circa quattro chilometri sul quale i primi attori sono i cammelli ma molto spettacolo viene offerto anche dagli accompagnatori ufficiali al seguito. Dico spettacolo perché, nell’incitare al galoppo gli animali, molti si sbracciano molto pericolosamente dai finestrini delle macchine. Noi che li osserviamo in prossimità dell’arrivo notiamo solo facce e braccia in continua agitazione.
Dei sei cammelli partiti vincerà quello appartenente alla scuderia del califfo. Così riferiscono le guide. Gli applausi più scroscianti sono comunque riservati all’ultimo arrivato. Applausi di noi italiani ben s’intende. Ci saranno altre partenze ma bisogna ritornare a bordo pullman.
All’uscita molti guadagnano le postazioni del pipistop. No grazie! Troppa ressa. Tiremm inanz.
Nelle prime ore del pomeriggio, attraversando la regione dei drusi, ci avviciniamo alla frontiera libanese. Il paesaggio è spesso brullo ma talvolta coltivato. Poderose macchine operatrici cercano di liberare le terre migliori dai grossi massi di basalto, il materiale effusivo espulso in illis temporibus da un vulcano ora spento. Il cratere, di dimensioni notevoli, fugge sotto i nostri occhi alla destra della strada che porta alla capitale siriana.
Alla sinistra vengono segnalate dalla guida alcune dimore di questi abitatori dell’Anti Libano. Da parte mia c’è una curiosità particolare di fare la loro conoscenza. E ne varrebbe la pena perché i drusi sono come i tonaresi: mentre questi credono nella trasmigrazione del corpo da luogo a luogo, pur lasciando lo spirito a Tonara, quelli credono nella metempsicosi ossia nella trasmigrazione dell’anima da un corpo all’altro, da quello che muore a quello che nasce.
Il comportamento dei miei compaesani in giro per il mondo suggerisce un’altra singolarità di cui faccio brevemente cenno. Quando due di essi si incontrano durante le loro trasferte non si salutano mai per nome ma facendo riferimento alla cittadinanza o al paese d’origine (Osudonaresu oppure Odonara) mentre se giocano in casa utilizzano spesso il nome del vicinato e della contrada di appartenenza. Per i rioni valgono i vocativi Odoneri, Odeliseri, Oarasulè mentre per i quartieri le citazioni Omurù, Ogartutzè, Osaruge, Oistraccu e così via. Se Torino fosse una frazione del villaggio sarebbe sicuramente identificata con il termine Odorino.
Finalmente Damasco. Ma quanto è grande questa città. Dicono più di cinque milioni. Si arriva a tarda sera. Vi è il tempo per una doccia riposante, per l’ascolto della santa messa e per la cena. Resteremo nei dintorni di questa metropoli per due giorni e tre notti.
Maalula
Di buon mattino si parte per Maalula, un piccolo paese arroccato sulla montagna a 1300 metri di quota dove si parla ancora l’antico aramaico, la lingua di Gesù. Dopo la messa in santa Tecla, officiata dalle due terne di sacerdoti che fanno parte del gruppo dei 142 pellegrini, si rende obbligatoria la visita al monastero dei santi Bacco e Sergio. Un sacerdote, durante la sua esposizione, nella quale ci presenta il Padre nostro in lingua aramaica, trova tempo e modo per esaltare l’importanza del legno del Libano nelle costruzioni. Vale come deterrente durante le ricorrenti scosse sismiche. E tutti con il naso all’insù per vedere una trave sistemata millecinquecento anni fa nel muro portante della chiesa.
Di lì a poco si ridiscende a Damasco per far visita al suk, il multi variegato mercato cittadino, alla parte orientale della via Recta, alla Moschea ed al Museo.
Il Suk di Damasco
Non facciamo in tempo a varcare l’ingresso di una delle tante porte del grande mercato damasceno che restiamo imbottigliati in mezzo ad una fiumana di potenziali acquirenti. E’ d’obbligo fare sempre affidamento e riferimento al piccolo vessillo dei Quattro mori continuamente agitato e sventolato dalla nostra guida. Se ti perdi sono guai. Iniziano i veri pennitzios o pistighignos. E’ vero che hai sempre la possibilità di rifarti con il telefonino tascabile o con gli estremi dell’albergo che ti ospita ma è sempre meglio evitare di andare incontro alle brutte sorprese. E di vere preoccupazioni si deve parlare se perdi il passaporto, il portafogli, lo stesso cellulare. Quando si gioca in trasferta l’attenzione deve essere sempre massima.
La guida damascena sa dove fermarsi e dove portarti. Aveva evitato di fare lunghe soste nel suk di Aleppo proprio per giocare al meglio le carte nella sua città. Una ipotetica guida tonarese in giro per la Sardegna, tanto per fare un esempio, non porterebbe mai i gitanti di altre nazionalità ad acquistare torrone nei laboratori di Pattada. Eventualmente potrebbe concedere una breve visita alle officine di coltelli ma, una volta a Tonara, offrirebbe ampio spazio e tempo non solo per la contrattazione del rinomato dolce per cui è famosa ma anche di tutti gli altri articoli prodotti nel paese. E’ il solito discorso dell’acqua necessaria a far girare le ruote del proprio mulino.
Impassibili negozianti presentano, sui pochi metri quadri dei loro angusti locali, mercanzie di ogni tipo, in prevalenza frutta secca e leccornie. I prodotti sono esposti in forte accumulo sulle ceste che basterebbe un movimento casuale da parte di chicchessia per mandare tutto all’aria. Ma ciò non accade mai. Gli artigiani delle pelli e del cuoio lavorano affiancati, quasi gomito a gomito, ma in negozi suddivisi da un’esile striscia di stoffa. Uno vende il pellame, l’altro confeziona scarpe, borse, cintole. La stessa regola di comportamento vale per i venditori di stoffe. Il primo tratta il tessuto ed il secondo confeziona l’abito.
Nella gestione dei tempi d’attesa alcuni sorseggiano bevande alla menta, altri sgranano in continuazione le sferette dei loro rosari ed altri ancora leggono le ultime notizie dei giornali. Qualcuno fuma del tabacco servendosi del narghilè. Mi viene spesso da chiedere come sia possibile conciliare la presenza di questo ingombrante accessorio con la ristretta disponibilità del locale in cui operano dove anche l’avvolgimento delle serrande in modo contrario al normale può consentire notevoli economie di spazio. Non sempre la logica quadra con i comportamenti e questi con quella.
Carrelli stracarichi di merce manovrati da abili commessi, automezzi guidati da frettolosi autisti, biciclette provviste del regolare campanello di richiamo chiedono continuamente il passaggio.
Numerose le donne che portano sul capo ingombranti buste nere di spesa. Come riescano a tenere in equilibrio la loro mercanzia, senza fare uso del cercine, non si sa. Talune sono addirittura fasciate da una benda che, coprendo interamente il viso, termina ondeggiando al disotto del mento. Si vedono anche famiglie con cinque e sei figli al seguito.
Molti vestono all’occidentale. Destano una certa curiosità le scarpe dei siriani. Ad un piede di tot centimetri corrisponde sempre una scarpa lunga, anzi lunghissima, e stretta sulla punta. Avevo notato questa caratteristica anche in Turchia.
Girando per il mercato finisci anche per stancarti. In prossimità di una piazzetta che immette subito dopo sulla via Recta i cappellini gialli, rossi e blu trovano i negozi che fanno per loro. Ferramenta da una parte e fazzoletti, tessuti e magliette dall’altra. Come i rivenditori annusano odore di lire siriane si catapultano immediatamente all’interno delle loro botteghe, lasciando incustodite all’esterno le loro sedie. Ne approfitto per sedermi e per studiare attentamente il traffico di superficie
L’ingresso per la via Giusta è alla mia sinistra mentre sulla destra, ad una quindicina di metri di distanza, la mia attenzione è focalizzata da una fontanella pubblica ed una bancarella con un rivenditore che prepara in continuazione succhi di melagrana. Con un coltello e con uno spremi agrumi è in grado di servire un cliente nello spazio di pochissimo tempo. All’avventore offre la possibilità di servirsi del bicchiere di vetro o di cartone. A richiesta serve anche del ghiaccio. Accetta lire siriane, euro, dollari. Non c’è problema per la valuta. Seguo la scena benissimo anche se non riesco a valutare al meglio la situazione in profondità. Fa caldo ma non eccessivamente. Per chi opera come lui per molte ore della giornata in quella postazione al sole è anche necessario rinfrescarsi alla fontanella. E’ questa una operazione che fa solitamente quando va a sciacquare i bicchieri sporchi. Preciso che la profondità cui accennavo prima può giocare qualche punto in suo favore. In ogni modo in dubio pro reo.
Finalmente i negozi di ferramenta e di tessuti cominciano a svuotarsi. Le contrattazioni sono durate più di un’ora.
E siamo finalmente sulla via di San Paolo, parte orientale. La sede del tracciato è molto ampia. La sua lunghezza dal punto d’ingresso della piazzetta può essere di diverse centinaia di metri. I numerosi negozi sistemati ai bordi della fascia pedonale, sono regolati dall’alto da una lunga e bella copertura a botte che favorisce il passaggio della luce esterna.
La bandiera dei Quattro Mori non passa mai inosservata. Talvolta qualche attento passante chiede alla guida il significato del simbolo. E’ questo un quesito cui nessuno dei gitanti può rispondere. Anche per gli studiosi rappresenta un vero handicap. Per alcuni di essi è un mistero. In certe periodi i mori hanno avuto la bandana, in altri la benda ed oggi nuovamente la bandana. Fra gli storici vi è chi, intervistato una decina d’anni fa al Teatro Garau di Oristano sull’argomento, ha riferito che inizialmente il documento cartaceo era piegato in quattro parti e che, all’apertura del foglio, si sono verificate, intorno alla fasciatura delle quattro figure rappresentate, delle slabbrature che hanno generato delle interpretazioni di dubbia lettura. Ecco il perché di tanta confusione.
Perché i mori voltino la faccia a sinistra e talvolta a destra, io non lo so.
Questo modo di identificare la Sardegna con il noto simbolo vale solo per l’ultimo millennio ma, se si vuole dare ragione anche alla geografia, non possiamo disconoscere che i veri rappresentanti dell’isola sono da sempre i Quattro Mari: Mare di Sardegna, Mar Ligure, Mar Tirreno e Canale di Sicilia. Per la didascalia mare calmo, moto ondoso, agitato e perennemente agitato. Qualcosa in contrario?
Se poi si volesse aprire un discorso su Peppino Mereu e Giovanni Sulis, rappresentanti vessilliferi in questi ultimi decenni di una canzone molto gettonata a livello isolano, quasi una specie di inno regionale sardo, sarei pronto a spendere in loro favore qualche breve testimonianza. Si sta parlando naturalmente del noto poeta e del suo amico Nanneddu, al secolo Giovanni Sulis, medico a Tonara dal 1901, data di morte di Peppino, sino alla fine degli anni Cinquanta. Sulla valenza del primo non ho nulla da aggiungere, salvo sottolineare che il medesimo, a detta di mio padre, era anche bravo ad affibbiare a questo e a quello dei soprannomi che ancora oggi in paese vanno per la maggiore. Per i cognomi dei Mereu e dei Sulis posso confermare, ripercorrendo a ritroso nel tempo i registri parrocchiali, un tracciato di pura identità tonarese sino alla fine del Cinquecento.
Domani sera saremo di ritorno sulla parte orientale della via Recta. Intanto in mattinata si va alla Moschea e di pomeriggio al Museo damasceno.
La Moschea di Damasco
L’accesso alla moschea è regolato da precise norme. I riti preparatori per le donne consistono nell’indossare i lunghi vestiti che vengono dati in dotazione negli ingressi secondari e nel consegnare le proprie scarpe agli addetti ai lavori mentre per gli uomini nel togliersi i calzari. Per tutti è obbligatorio l’uso delle calze.
E’ l’ora della preghiera. La navata laterale destra è riservata agli uomini di fede islamica mentre quella di sinistra alle donne. Durante la nostra visita, non possiamo fare a meno di seguire le rituali e continue genuflessioni dei maschi e delle femmine.
La guida, come al solito, si dilunga su date, momenti storici e dinastie senza dimenticare di presentare le bellezze della imponente costruzione di tipo basilicale. Non manca di indicarci, appena giunti sul punto medio della navata centrale, il mausoleo dedicato a san Giovanni Battista, un tempietto oggetto di venerazione tanto da parte cristiana quanto musulmana. In prossimità dell’uscita, inseguiti in continuazione, tanto a destra quanto a sinistra, dal duplice filar di colonne a fusto liscio, non possiamo ricordare quanti metri di tappeto pregiato siano passati sotto i nostri piedi. Mi volto ancora indietro per memorizzare al meglio lo scenario degli oranti e dei loro sacerdoti ma non vedo più nessuno. I momenti di preghiera sono terminati.
Per recuperare le scarpe bisogna percorrere dei camminamenti esterni al tempio. E’ tutto finito. Di lì a poco ci ritroveremo al ristorante e di nuovo si ripeterà l’appuntamento dei cappellini gialli, rossi e blu.
Il museo della capitale. Shopping nelle vie cittadine.
Ampi spazi tanto all’esterno quanto all’interno. Al nostro arrivo si ha subito la possibilità di visitare i vari reparti dedicati all’archeologia. Un piano, quello superiore al pianterreno, è inagibile per lavori in corso per cui la visita, penso, si concluderà in tempi brevi. In verità si comincia ad avvertire una certa stanchezza. Le informazioni sembrano giungere con maggior lentezza e non con la velocità dei primi giorni di viaggio. Si va verso la saturazione.
Mezzi busti, statue di divinità, vetrine corredate di braccialetti e monili vari, armi, mosaici, pitture a muro, strumenti da lavoro, vasi liturgici, arredi e paramenti sacri inquadrano con efficacia i vari periodi del passato. Alcune opere di scultura sono spesso corredate della data della loro realizzazione. Ma è sempre la guida a renderti edotto di queste particolarità come quando ti invita alla lettura di un documento inciso sulle spalle di un condottiero o quando ci presenta delle tavole di terracotta provenienti da Hebla o quando ancora richiama la tua attenzione per osservare, attraverso uno spioncino blindato da una lastra di cristallo, i caratteri cuneiformi che rigano la superficie di una tavoletta proveniente da Hugarit, città fenicia del nord della Siria. Si tratta, dice Iasser, dell’alfabeto più antico. Da quello sono derivate tutte le altre scritture. La datazione dei vari reperti da me ricordati, eccezione fatta per gli oggetti cari alla cristianità, ha spesso in questo museo valenza pluri millenaria.
Durante la serata si ha la possibilità di fare dello shopping presso i più qualificati negozi di artigianato della città. Non mancano le visite alle botteghe di argenteria indicate dalla guida. Le donne del nostro gruppo non si fanno pregare. Entra la prima e poi tutte le altre. Una trentina in tutto. Gli uomini preferiscono sostare all’esterno. Dopo un’oretta di attesa il negozio rilascia tutti gli ostaggi presi in consegna da Iasser e si ritorna sul pullman.
Fra una mezzora si arriverà in albergo, si cenerà e quindi si andrà a dormire. Durante le fasi di avvicinamento si ha tempo e modo per gustare le cartoline natalizie di Damasco in notturna. .
Le luci molto intense della città, avviluppata a semicerchio sui contrafforti della montagna, tendono gradatamente a scemare per cedere il passo ai chiarori della periferia ed infine al buio completo.
Fra poco apparirà sullo sfondo il nostro albergo, sgarbatamente posizionato in una zona orfana di verde e di spazi per la ricreazione. A vederlo da lontano sembra un monolito depresso dell’isola di Pasqua. Tutte le stelle che lo qualificano nell’Olimpo della ristorazione e della ricettività sembrano cadere ad una ad una sugli sterrati antistanti le varie vie di uscita.
Sesto giorno e sesta notte di permanenza in Medio Oriente. Domani si andrà verso Sud alla volta di Bosra, ai confini con la Giordania.
Bosra
Anche Bosra, è una città cara al passato. Il basalto è la materia prima utilizzata nelle costruzioni.
Nel ristorante all’aperto che ci ha accolto per il pranzo faccio a meno, all’uscita, di servirmi dell’unica toeletta a disposizione dei clienti. Resisterò fin che posso.
Fa caldo in questo primo pomeriggio di visite al grande parco dell’archeologia romana. Lungo i brevi percorsi che anticipano i colonnati, le terme ed il teatro si ha l’impressione di calcare i vicoli dei caratteristici paesi del Marghine. Non c’è alcuna differenza con gli impervi acciottolati e le basse casette in pietra vulcanica del centro storico della Macomer di cinquanta anni fa. Sognando ad occhi aperti mi rivedo piseddu minore, in età giovanile, quando, per raggiungere le austere e spartane aule dell’Istituto Satta, dovevo percorrere a passo spedito le viuzze e le piazzette, le cosiddette carrelas, dei rioni periferici di Sa Rocchitta e Coronas.
Si potrebbe tentare anche un gemellaggio tra queste città basaltiche. Una offrirebbe curricoli di età nuragica, l’altra del periodo romano. Nel frattempo potrebbero iniziare a scambiarsi brevi messaggi a base di na chi, il curioso intercalante del dialetto locale corrispondente all’espressione italiana dice che, e di nau nau, il leitmotiv della noria.
Ed eccoci sui lastricati romani con rovine ad ogni piè sospinto. Anche qui siamo presi in consegna da una lunga coda di giovanissimi rivenditori che, fatti salvi i tempi nei quali la guida espone le sue lezioni, diventano sempre più appiccicosi. Mi incuriosisce ad un certo punto la trattativa condotta da un disinvolto mercante arabo con un nostro rappresentante. Una pistola d’antiquariato ed il relativo prezzo rappresentano l’oggetto della compravendita. L’italiano non è d’accordo. Come dire Ite se(se) nannommi. Che cosa mi stai dicendo. Non so se alludesse alla cifra richiesta o al pericolo di portarsi addietro un’arma da guerra. Non mi sono permesso di chiedere delucidazioni in merito.
Si continua sullo scenario dell’antica Roma mentre il sottoscritto sta pensando ai suoi problemi di incontinenza. All’ingresso principale del teatro romano, un vero gioiello ancora al massimo del suo splendore, focalizza la mia attenzione un’insegna luminosa circolare con la scritta W.C. Ci siamo. Faccio appena in tempo ad arrivare nell’area a semicerchio, quella riservata al palcoscenico, che subito chiedo al capo gruppo di assentarmi per accomodarmi nella bath room ossia nella stanza da bagno.
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Gli inglesi, molto puritani, quando parlano del gabinetto fanno riferimento alle lettere iniziali del sostantivo acqua e dell’aggettivo chiusa. Per andare quindi a fare i loro comodi usano la frase idiomatica andare all’acqua chiusa, il liquido raccolto in alto nella vaschetta. Noi sardi non siamo stati da meno quando, nel recente passato, ricorrevamo all’espressione annare a iscriere una littera (andare a scrivere una lettera).
A Tonara, prima ancora degli anni cinquanta, i componimenti in bella scrittura venivano eseguiti nelle stalle, nelle strettoie prive di uscita, negli orticelli ed anche lungo le prime periferie dei vicinati. In casa dei nonni materni, che non avevano la disponibilità della stalla e dell’orticello casalingo si ricorreva ad un palafitta in legno, raggiungibile con un ballatoio, issata in una zona riservata del retro dell’abitazione. Le lettere venivano idealmente indirizzate a noti personaggi del tempo.
A quei tempi l’unico sanitario pubblico degno di menzione era la sputacchiera del Municipio ma, con la costruzione dei campi sportivi, andò a finire nel dimenticatoio. Allora non si faceva alcun caso per i gratuiti spot pubblicitari rilasciati a destra e a manca. Oggi è diverso, a meno che non ci si trovi nei panni del quinto uomo ed allora ci si sente autorizzati a mimare le mosse degli altri giocatori, portieri, arbitro e guardalinee compresi.
Rientro in serata a Damasco
Il pullman viaggia ora verso nord, verso Damasco, città distante da questa zona di confine circa centocinquanta chilometri. Ci attendono prima dell’arrivo le sfavillanti cartoline damascene e per ultimo le ombrose immagini dell’ultimo monolito della periferia.
Per la cena è previsto un appuntamento in un locale caratteristico del centro storico. Prima di affrontare uno dei tanti vicoletti che portano al ristorante ci ritroviamo nuovamente sulla via Recta, super affollata stamattina e pressoché deserta adesso alle 10 di notte. E’ questa notevole libertà di movimento che fa la differenza con i suk di Marrakech. Dare a Marrakech quel che è di Marrakech e a Damasco quel che di Damasco. Non dimentichiamo infatti che la via Giusta rappresenta pur sempre, con la conversione di san Paolo, un percorso classico della cristianità, un continuo riferimento alla fede dei credenti, un momento di riflessione per chiunque.
La sede stradale dicevamo è così libera che tanto sul lato destro che su quello sinistro puoi inseguire con lo sguardo le eleganti e robuste porte che, in perfetto ordine di chiusura, a protezione ed in rappresentanza dei rispettivi negozi, disegnano sino in fondo, protette dalla magnifica volta a botte del tunnel, un bellissimo punto di fuga.
Le scritte riportate sulle insegne pubblicitarie mettono a nudo tutta la mia ignoranza. Hai voglia di ricorrere a tutto ciò che di appiccicaticcio hai imparato sui banchi di scuola. Qui i signori spagnoli, che hanno il vanto di avere il maggior numero di parlanti nel mondo, devono mettersi da parte. Muru, muru o a ninnia, come si usa qui nel dialetto di Oristano, anche per gli inglesi. Lingue morte. A ninnia anche quelle. Ed io che nella mia valigetta avevo riposto le mie poche conoscenze di logudorese e campidanese. Che poi dire, come suggerisce e riferisce Pier Luigi La Croce nel suo dizionario, de is limbas de mesania, dialetti nei quali mi ritengo particolarmente preparato.
Intanto dalle retrovie un trotzedi ca es(t) passanno unu caddu, spostati che sta passando un cavallo, mi invita alla prudenza e a dar via libera al quadrupede in libera uscita col suo padrone.
Esistono anche nel dialetto tonarese certe forme verbali forti. E trotzere è una delle tante. Questo il paradigma (trotzo-trotzes-happo trotziu-trotziu-trotzere). Manca il passato remoto. Da quando non so. Il veni, vidi, vici latino è tradotto oggi con seo eniu, happo idu, happo intu. Non sempre vale la regola del ricorso continuo alla dentale d piuttosto che alla t o l’uso di certe espressioni con frequente riferimento alla lettera g come nello scioglilingua Innoge foggia ‘e nuge non ne oggio ca mi noge(de) Letteralmente: Qui non desidero foglia di noce perché mi nuoce. Mi corre l’obbligo di traslitterare l’assunto anche nelle varianti campidanese (Innòi folla ‘e nuxi non di bollu ca mi fai(di) dannu e logudorese (Foza ‘e nughe non de cherzo ca mi faghe(de) male). Curioso l’andante dialettale usato ad Ovodda Ino*e *oza de nu*e non de vozo puite mi dolede. L’asterisco sottende una marcata aspirazione che impegna le corde vocali e la glottide. In detto centro come negli altri paesi della Barbagia di Ollolai il fuso fonetico s’impenna e va ad assumere una connotazione tutta particolare che sa di suoni forti e gutturali a base di hip, hip, hop, hop.
Di quanto propongono le insegne luminose riesco a capire solamente i numeri di telefono espressi in antico arabo. Il cinque sta per lo zero e lo zero sta per un punto. Le cinquanta lire siriane sono infatti rappresentate da una O e da un puntino segnato a metà del corpo di scrittura. Nessun problema per il numero uno. Il numero cento (100) espresso in arabo antico equivale all’arabo moderno centocinquantacinque (155). Il numero quattro è indicato con una epsilon greca. Per esercitarsi al meglio è sufficiente fare riferimento alle targhe degli autoveicoli. Nella lettura da sinistra verso destra sono segnalate la numerazione che conosciamo (numerazione araba) e quella in antico arabo. Al centro, in verticale, l’indicazione delle prime tre lettere dello stato di appartenenza del mezzo di trasporto.
Quando la guida ci invita a svoltare a sinistra siamo piacevolmente sorpresi di essere fatti omaggio di un fragoroso rullare di tamburi manovrati ad arte da una decina di figuranti. Nel loro vestiario, un condensato di papaline, corpetti, casacche, calzoni e calzari di tipo orientale, predominano i colori nero, bianco e rosso melagrana. Gran merito va riconosciuto ad alcuni duellanti che, al ritmo sonoro degli strumenti a percussione citati, con movimenti rapidi e continui, fendono l’aria con spade affilate per poi mimare degli improvvisi e mirati corpo a corpo. Quanto il gioco sappia di rischio non lo so. Fingono a farsi del male ma facendo ricorso a tutte le precauzioni possibili. Una volta rimesse le spade nel fodero, la scena ritorna agli strumentisti i quali incessantemente continuano a scudisciare i curbasci sulla pelle dei loro tamburi.
Per certi versi sembra di assistere alle parate dei sartiglianti oristanesi.
Vi è anche un invito esplicito da parte di queste comparse a partecipare ai loro rituali. Tra noi e loro appena pochi metri di spazio utile. Improvvisamente ecco liberarsi dal gruppo occidentale una donna, la d.o.n.c di cui ho parlato precedentemente, per unirsi a loro e ballare. Anche la guida damascena, coglie l’opportunità di concedersi ai passi di danza della sua terra. Con la figlioletta issata sulle sue spalle assomiglia nel movimento e nel comportamento ad uno dei mamuthones di Mamoiada. Poi si va tutti al ristorante passando tra vicoli stretti che più non si può e per carrugi che sanno molto di genovese. Sanno di tonarese antico invece certi balconi dall’equilibrio molto precario ed alcuni ballatoi dai legni sorretti quasi per miracolo da mensole vecchie di qualche secolo. Chissà da quanto tempo non si affaccia su quei poggioli persona umana. Comunque belli a vedersi.
Durante la cena si ha modo di assistere a numeri curati con bravura da alcuni artisti locali. Passi di danza, suoni di strumenti orientali e canti. E’ un condensato di colori, di musica e di movimento.
Intanto alcuni commensali italiani, con l’accondiscendenza della direzione del locale, accennano alle note del Nabucco e continuano in un crescendo davvero esaltante. Quasi mi viene voglia di chiedere alla d.o.n.c se intende ballare. “Permette questo walzer signora? Ho l’autorizzazione della Padania. Per il ridotto spazio a disposizione non si preoccupi, cercherò di proposito di volteggiare sempre a sinistra”. Non posso mettere in atto il mio disegno che i cantori di Va pensiero stanno per concludere la loro esibizione. Non c’è tempo neanche per un Nanneddu meu. Intanto Iasser è pronto a riferirci che è tutto finito e bisogna darsi da fare per rientrare in albergo.
Domani mattina visita ad Anania, sulla parte occidentale della via Recta. Di pomeriggio, partenza per l’Italia.
Mattinata sulla via Recta
Siamo diretti alla casa-chiesa di Anania. E’ con noi un’altra guida. I lavori in corso sull’antico tempio impediscono di fare visita al luogo in cui venne battezzato San Paolo. Del cammino di fede del fervente apostolo attraverso i quindicimila chilometri percorsi in predicazione lungo la Turchia, la Grecia, la Sicilia fino al suo martirio in terra romana ci rende testimonianza il parroco di Aritzo, uno del nostro gruppo barbaricino. E’ tutta storia. Tutto vero. Tanta cristianità.
Per me alla ricerca di un po’ di luce ancora tenebre. Ma se cerco vuol dire che sono sulla strada giusta.
Ognuno è libero da questo momento della mattinata, salvo rispettare l’orario di partenza fissato per mezzogiorno, di fare quel che ritiene più opportuno. Terminati i percorsi di carattere culturale non resta che inseguire le nostre donne nei vari negozi che portano alla via Recta. E dove entra la prima fanno seguito tutte le seconde. Questo per esempio succede quando si fa visita ad uno dei negozi di seta più importanti di Damasco. Dall’esterno seguo le trattative in corso. Molti biglietti da cinquanta euro, in un certo verso simili alle cinquanta lire siriane, passano dalle mani degli acquirenti a quelle dei rivenditori. Sul tavolo delle contrattazioni metri e metri di stoffa. Entro dentro e con meraviglia mi accorgo che uno dei commercianti, forse il titolare, si esprime in italiano in maniera disinvolta. Ad una signora molto interessata ai forti ribassi risponde che può trovare quei prezzi in altri negozi. Naturalmente verranno commerciate stoffe elaborate da bachi artificiali. Il tutto con tatto e gentilezza. Non mi sembra comunque disposto a fare sconti superiori del dieci per cento.
Finite le operazioni del do ut des mi faccio avanti con qualche domanda fuori luogo. Una di queste riguarda la superficie di tessuto ricavabile dallo svolgimento di un bozzolo. L’intervistato, senza scomporsi più di tanto, cerca di disegnare nell’aria un quadrato di mezzo dito per lato. Circa venticinque centimetri in tutto. Era questa un’informazione assente dalle mie conoscenze.
Mi ero fatto una idea così chiara da studente dei processi di produzione delle fibre tessili animali, ed in questo caso della seta, che, durante la presentazione pratica in un laboratorio turco del meccanismo che porta il bozzolo a svolgere il suo involucro serico attorno agli aspi dell’arcolaio elettrico, non manifestai alcuna sorpresa. Facendomi forte degli insegnamenti ricevuti dalla mia insegnante di chimica e merceologia delle superiori non potevo non ricordare le trasformazioni in fieri del baco e gli interventi successivi della mano dell’uomo. Prodigi della natura da una parte contro intelligenza dell’uomo dall’altra.
Ancora shopping sulla via della conversione di Paolo e poi sul pullman. Verso l’aeroporto penso.
Pranzo in un ristorante tipico
Le indicazioni fornite dal programma di viaggio non includono alcuna sosta al ristorante eppure il mezzo di trasporto si ferma di fronte ad un locale caratteristico. Che si tratti di un’altra trasgressione perpetrata nei nostri confronti dal tour operator oppure di una mossa studiata ad arte per mascherare qualche disguido incontrato durante la settimana? Sempre bene accette queste varianti.
Doverosa la presentazione dei locali addetti alla ristorazione. Sembra di entrare in un parco giochi e non in un esercizio pubblico addetto alla consumazione dei pasti. Questa impressione è data dal fatto che dappertutto c’è qualcosa in movimento: dalla ruota idraulica posta al centro di una vasta piscina che macina acqua in continuazione, ai curiosi getti piroettati con forza verso l’alto dagli zampilli presenti in alcune piccole vasche, ai camerieri inappuntabili all’ordine dei loro capi servizio ed ai clienti alla continua ricerca dei posti migliori.
Ad onor del vero non esiste un solo tavolo che non goda di una discreta visuale a tutto campo. E’ come stare in un piccolo stadio con la differenza che gli spettatori trovano posto non solo sui vari anelli ma anche lungo la pista che circonda il campo di gioco. Nell’arena, che altro non è che lo spazio riservato alla grande piscina, alcuni camminamenti portano alla noria ed ai vari zampilli. I posti a sedere, circa cinquecento, sono distribuiti intorno a lunghi tavoli, che nella loro disposizione a raggiera danno anch’essi un’idea di movimento. In definitiva il concetto di inamovibilità o di immobilità è dato unicamente dalla potente struttura che regola e governa l’insieme. Un bravo all’architetto che con la sua genialità è riuscito a dare un’idea di moto anche ai fluidi. Questo a dispetto delle leggi naturali che nulla concedono alla idrocinematica, una branca della meccanica dai contenuti vuoti.
Per uno studente alle prime armi con la geometria analitica, assistere a questo spettacolo di getti d’acqua, che vanno a disegnare nell’aria archi semiellittici, semicircolari e parabolici, equivale ad effettuare un rapido ripasso delle più importanti curve di secondo grado mentre per un principiante alle prese con lo studio dei solidi rotondi c’è n’è abbastanza osservando la grande sfera d’acciaio ubicata in prossimità dell’ingresso. Illuminata così come è da questo caldo sole di mezzogiorno sembra produrre riflessi particolari con i suoi numerosi getti d’acqua.
Del mulino esposto al centro della scena di questo anfiteatro abbiamo già detto tutto o quasi. Chi non avesse capito a sufficienza dell’assemblaggio delle sue componenti non ha che da farsi avanti. Ora è tutto chiaro. La noria ha qui una valenza didattica. La dimostrazione consiste nel fatto che la ruota idraulica, sospinta dalla corrente, riesce, con il suo moto continuo e ripetitivo, a raccogliere l’acqua dal basso per riversarla, con abbondanti scrosci, all’interno della piscina. Bellissimo vedere nella fase di sollevamento i contenitori scaricare con precisione nella vasca di raccolta il loro prezioso carico, quasi fossero degli orologi a cucù ma, altrettanto interessante osservare i cassetti ormai vuoti nell’atto di eclissarsi sui bassi fondali.
Questo è lo scenario offerto di giorno. Di notte acquisterà certamente, alla luce dei riflettori, un valore aggiunto. Di questo ne sono certo.
Forse sarebbe vantaggioso ed interessante riproporre la ruota idraulica anche in Sardegna. Magari facendo riferimento ad una noria campidanese o ad una gualchiera oppure ancora ad un mulino ad acqua.
Rientro in Italia
La zona aeroportuale non è molto distante dal ristorante. L’aereo è già in pista. Fra poco abbandoneremo il suolo siriano. Restano ora soltanto i ricordi di una avventura vissuta al limite dell’immaginario. Il capitano annuncia che il programma di volo prevede, a partire dalla fase di decollo sino all’atterraggio, il passaggio su Beirut, sul Peloponneso, su Malta e su Palermo. Il vero tracciato risulterà invece, a detta dello steward, leggermente modificato. Sfileranno sotto di noi, prima di arrivare in Sardegna, il Libano, il Mar Egeo, il mare Ionio, le città di Catania e Palermo ed il Canale di Sicilia.
Alla dogana di Cagliari un’ispettrice chiede di verificare il contenuto della mia borsa da viaggio. Sono tranquillo. Non ho più con me le solite bottigliette d’acqua. Solo carta igienica e qualche busta vuota. Il controllo continua ancora per poco. Stessi articoli. Impassibile lei. Altrettanto io.
Oristano dista da Cagliari un’ora d’automobile. Sembra di non arrivare mai, tanta è la stanchezza accumulata durante il viaggio.
Come varco l’ingresso di casa, il gatto, felicissimo di rivedermi, esprime tutta la sua contentezza strusciandosi più volte sul pavimento. Sapeva che mi sarei assentato per circa una settimana per le solite gite fuori porta. Aspetta ora le mie carezze.
Il pendolo dell’orologio continua ad oscillare nel rispetto delle leggi dell’isocronismo. Ha resistito agli otto giorni di carica. E’ un segno di vita anche questo.
Per rimettere a posto le valigie e raccontare la trama di questa interessante avventura in Medio Oriente c’è sempre tempo.
Breve presentazione
Con il reportage Da Santa Nosta a Damasco chiudo questa prima serie di servizi su Pratza manna e dintorni.
La tiratura di questa pubblicazione, come d’altronde quelle riguardanti le Memorie storiche tonaresi, è molto ridotta. Pochissime copie. Ho voluto tenere conto del rischio che si corre nel caso di insuccesso. E’ uno scotto che non voglio assolutamente pagare.
Mai contattato un editore. Non c’è fretta.
In questa occasione sento il dovere di ringraziare tutti coloro che, molto benevolmente, hanno cercato di incoraggiarmi in queste piacevoli fatiche e fra questi:
a) Gabriele Casula, presidente della Pro loco di Tonara, il quale, attraverso il Blog di detta Associazione turistica, manda ogni tanto in onda, qualche pagina dei miei lavori.
b) don Giovanni Maccioni, già rettore della parrocchia di Tonara
c) i coniugi veneti Terenzio ed Eleonora Lucchese.
d) il prof. Salvatore Frau, dirigente scolastico dell’Istituto comprensivo di Scuola elementare e media di Tonara.
Qui di seguito alcuni loro attestati di stima rilasciati in tempi diversi:
· Apprezzo il suo lavoro: è molto interessante! Auguro che la ricerca a cui si è dedicato le procuri le migliori soddisfazioni. Don Gianni Maccioni.
· Riceviamo sempre con grande piacere i tuoi articoli su viaggi ed esperienze di vita che hai modo di acquisire nella tua amata terra. Abbiamo usato di proposito l’aggettivo “amata”, in quanto esso traspare chiaramente dai tuoi racconti, vibranti di emozioni e di poesia. E’ questo un modo felice per aprire ulteriormente gli orizzonti su di una affascinante regione a noi così sconosciuta, anche se pur sempre vicina. Terenzio ed Eleonora.
· Le voglio far pervenire il mio personale ringraziamento e quello di tutta la Comunità scolastica di Tonara per aver inviato l’interessante documentazione di un lontano passato della comunità tonarese, che sicuramente desterà la curiosità di molti. Ho apprezzato il frutto della Sua ricerca e l’ho fatta conoscere nella Nostra Scuola.
Prof. Salvatore Frau.
Giovanni Mura
Oristano, 13 dicembre 2009.