Già dagli anni Settanta avevo cominciato ad indagare sulle maschere sarde per com-prendere quale fosse la loro origine, e già da allora, dopo alcune ricerche sul campo, ero giunta alla conclusione che alla base dei carnevali tradizionali della Sardegna ci fosse un culto dionisiaco di cui si potevano ancora cogliere gli ultimi retaggi, per quanto banaliz-zati e replicati inconsciamente. Di questo culto restavano i segni attraverso la gestualità degli individui mascherati, l’abbigliamento, gli strumenti agricoli che si portavano dietro e sopratutto l’atteggiamento cupo e luttuoso, nonché la rappresentazione tragica di una morte e una rinascita simbo-liche. La chiave di lettura più evidente per la comprensione di questo lugubre rito mi ve-niva dalla linguistica che risolveva parecchi dubbi su alcune parole legate alle maschere isolane, come Maimone, Mamuthone, Orcu-Ocru, Urcu-Urtzu, Bovette, Zorzi, ecc., ma il se-gno più evidente lo ebbi analizzando il termine carrasecare. Nessuno fino ad allora aveva pensato al profondo significato di questa parola. Carrasecare, ovvero carre’e secare, nella lingua sarda ha un significato ben preciso, perchè il termine carre, diversamente da pe-tza, designa esclusivamente la carne viva ed in particolare carne umana. Pertanto la pa-rola carrasecare rimandava chiaramente all’antico rito dionisiaco che consisteva proprio nel lacerare la carne viva, nel dilaniare i capretti e torelli nati da poco per rendere omag-gio a quel dio bambino (su pitzinnu, come dicono a Bosa, dove il rito di smembramento è assai evidente) che era stato sbranato dai Titani. Quello stesso dio che da adulto si fa vit-tima e muore ogni anno per poi rinascere con la vegetazione. Queste analisi e numerosissime altre indagini legate a tradizioni, modi di dire, proverbi e leggende, mi portarono nel 1990 alla pubblicazione del libro “Maschere, miti e feste della Sardegna” (l’argomento era stato già anticipato un anno prima nella rivista “Sardigna An-tiga” n° 5, “Dentro un Mamuthone c’è Dioniso”). Libro che destò molto interesse in tutta Italia, ma anche all’Estero (“Máscaras tradiciona-les de la Cerdeña central”, 2004) tra le persone dotate di buona cultura e onestà intellet-tuale. Tuttavia, nonostante i consensi sempre più numerosi, mai come quest’anno ho let-to sui giornali sardi e udito alla Tv ripetere più volte che il nostro carnevale è un rito dionisiaco. La cosa non può che farmi piacere. Evidentemente ci vuole del tempo per convincersi. Mi fa meno piacere che ci siano dei profittatori che si appropriano delle teo-rie e delle ricerche altrui come se le avessero scoperte qualche mese fa. Per fortuna esi-ste un libro datato 1990 e il tempo rimette sempre a posto le cose. Mi preme subito informare i lettori che è stato da poco pubblicato un libro sul quale, in-direttamente, conferma appieno le mie teorie sul significato del carnevale nostrano. Tale libro contiene le poesie del gesuita Bonaventura Licheri, vissuto nel 1700. Un testimone oculare al di fuori di ogni sospetto. Il libro è intitolato “Deus ti salvet Maria” ed è stato cu-rato dallo scrittore Eliano Cossu (Ed. S’Alvure, Oristano 2005). Molte poesie in esso contenute sono veri e propri documenti sulla vita che si conduceva in Sardegna nel XVIII secolo e della tenace e appassionata predicazione che il gesuita piemontese Giovan Battista Vassallo faceva nel centro dell’isola per evangelizzare un po-polo in buona parte ancora pagano.
Tra i componimenti del Licheri, oltre alle tante poesie a carattere sacro, invero bellissime e molto spirituali, alcune delle quali già note al vasto pubblico, si trovano anche diverse poesie di importanza antropologica per il loro contenuto; tra queste la descrizione delle maschere carnevalesche di vari paesi sardi che dovunque replicano il loro rituale di mor-te. Questo materiale fu rivenuto nell’archivio del sacerdote Raimondo Bonu nel 2001 da Nicola Loi. Poichè una di queste poesie descriveva la maschera di Samugheo di cui mi ero occupata una decina di anni prima nella monografia dedicata a questo paese (D. Turchi, Samugheo, Newton Compton, Roma 1992), me ne fu inviata copia grazie alla liberalità di al-cuni amici. Naturalmente mi affrettai a pubblicare la notizia su questa rivista (D. Turchi, n° 10, Ottobre 2001), con l’aggiunta di una seconda poesia di cui mi fu data copia suc-
cessivamente. A voce mi era stato riferito che in quegli scritti si parlava anche delle ma-schere di altri paesi, ma non conoscendo il materiale non restava che attendere. Le due poesie in mio possesso erano comunque preziose, in quanto si trattava della te-stimonianza diretta di un gesuita del XVIII secolo che quelle maschere aveva visto opera-re con i propri occhi e condannare fermamente, con parole di fuoco, dal padre Vassallo che egli accompagnava durante l’evangelizzazione della Sardegna centrale. Ora che il materiale rinvenuto è stato pubblicato, trovo descritte oltre alle maschere di Samugheo anche quelle di Ortueri, Atzara, Austis, Mamoiada, Ottana, Cuglieri e Chere-mule. In alcuni di questi paesi non esistono più, in altri sono state riesumate in questi ultimi decenni. E’ molto interessante però sapere come operavano nel passato. Dai versi del Licheri si scopre che le maschere di tutti i paesi portavano sulle spalle non campanacci ma ossi di animali che agitavano provocando un suono cupo (faghen sonu ‘e matracas, scrive il Licheri). Questi ossi erano ovunque legati con pezzi di intestino fresco (non meraviglia pertanto la maschera di Lula, su Battileddu, che esibisce pezzi di interio-ra, come pure il fantoccio Juanne ‘e Martis di Mamoiada, che nascondeva delle interiora fresche). Per poter predicare contro questi riti cruenti che ancora si perpetuavano, il Vassallo, ac-compagnato dal Licheri, si recava nei vari paesi dell’interno sopratutto alla vigilia della festa di S. Antonio Abate o di San Sebastiano (dal 16 al 20 gennaio), quando tutti i pasto-ri tornavano in paese per effettuare, insieme ai contadini, il macabro rituale. Era l’occasione giusta per predicare l’evangelo e mostrare l’errore in cui cadevano cele-brando il loro rito in numen santu (nel nome del Signore), come viene ripetuto più volte in varie poesie. Ed è proprio perché tale rito veniva fatto in numen santu che il Vassallo si scaglia contro di loro minacciandoli di scomunica. Riporto alcuni brani alquanto significativi, tralasciando la descrizione delle maschere di Samugheo già riferita nel n° 10 di questa rivista. Per quanto riguarda le maschere di Ortueri il Licheri scrive: “...Pustis, tottu in cumbatta/ peri sos fogulones/ brincant sos maimones/ che un’inimigu./ Cun caratzas de ortigu/ matzocas e furcones,/ che diaulos ladrones/ insangrentados./ De ossos garrigados/ ligados in s’ischina/ a pedd’e istentina,/ unu delittu!/ Tottu custu conflittu/ fattu in numen santu/ est che paganu ispantu./ Iscomunigados!”. (Trad.: ...Dopo, intorno ai fuochi saltano maimones combattivi, come davanti a un nemico. Hanno maschere di sughe-ro, clave e forconi, come diavoli ladroni, insanguinati. Sono carichi di ossi legati alla schiena con pezzi d’intestino: un delitto! Tutta questa lotta fatta nel Santo nome, e sorprendentemente pagana. Siano scomunicati!). La descrizione ricorda molto da vicino quella fatta per le maschere di Samugheo. La cosa non meraviglia essendo i due paesi poco distanti tra loro e pertanto anche i costumi non dovevano discostarsi di molto. Le maschere di Atzara mostrano invece una particolarità: accompagnano il frastuono battendo tra loro due pietre. “Duas pedras in manu/ sonant sos penitentes,/ parene suferentes e atrudidos./ De peddes sunt bestidos, / carrigos de chisina,/ sa cara porporina/ che una gherra./ Forte sos pes in terra/ iscuden tott’umpare/ e los faghent sonare / che una matraca”. (trad.: I penitenti fanno suonare tra le mani due pietre, sembrano sofferenti e addolorati. Sono vestiti di pelli, cosparsi di cenere, con la facccia rossa (insanguinata ?) come in battaglia. Tutti insieme battono i piedi per terra e li fanno suo-nare come bàttole). Più circostanziata pare la descrizione delle maschere di Cheremule, non più esistenti: “Atundan in su fogu/ sos impeddados./ De peddes tramudados/ brincant, si leant a mossos, / e trinini sos ossos/ in sas ischinas:/ barras, costas cabrinas;/ passant su ‘inu cottu,/ bolant a unu fiottu,/ est una catza./ Fumadigu a caratza,/ i sas massiddas pintadas,/ in conca coas ligadas/ ant de matzone./ Cun fustes e furcones,/ foetes e matzocas/ faghent sonos de brocas,/ bochini s’urtzu. Ballat, paret iscurtzu,/ a boghes che una tzonca,/ duos corros in conca/ si ch’at ligadu”. (Trad.: Circondano il fuoco “sos impeddados”. Travestiti con pelli, saltano, si mordono, mentre sulle loro schiene stridono gli ossi: mandibole e coste caprine. Viene offerto il vino cotto e accorrono a frotte, è una caccia. Hanno fulig-gine per maschera, le guance dipinte e sulla testa portano legate code di volpe. Con bastoni e forconi, scudisci e clave producono suono di brocche, uccidono “s’urzu” che balla, sembra scalzo ed emette il grido dell’assiuolo. Porta due corna in testa).
La violenza del rito ed il massacro cui veniva sottoposta la vittima ne giustifica piena-mente la scomparsa prima delle altre maschere. Qui viene detto chiaramente che, oltre alla fuliggine, il volto era tinto anche di rosso, quasi certamente con sangue. In alcuni paesi si parla addirittura di volti insanguinati. Ancora diversa appare la descrizione delle maschere di Austis: “...E in su fogulone ballan sos colonganos.../ De ossos carrigados/ in palas a muntone,/ e frunzas de lidone/ ant pro caratza./ Sa peccadora ratza/ paret bestida a dolu,/ de dimo-nios su’olu/ in terra avallu. Tue, frade Vassallu,/ as su coro in suferta,/ ma cun s’anim’aperta/ in custu situ./ Chi su paganu ritu/ siat postu in abbandonu,/ sentenzias che unu tronu,/ che una rocca”. (trad.: Intorno al fuoco ballano “sos colonganos”... Hanno le spalle cariche di ossi e come maschera fronde di cor-bezzolo. Questa razza di peccatori sembra vestita a lutto; un volo di demoni avallato sulla terra! Tu, fratel Vassallo, pur essendo ben disposto, soffri in questo luogo. Che il rito pagano sia abbandonato!, sentenzi con voce tonante, fermo come una roccia). In quasi tutti i paesi, come qui ad Austis, le maschere pare si ricoprissero di con pelli di vario tipo. Oltre alla pelle caprina, presente ancora oggi, in tante località pare portassero anche pelli di volpe e di martora. Più che un’evoluzione nell’abbigliamento, è da presu-mere che le pelli di volpe e sopratutto di martora siano venute meno per la loro rarità e pertanto per la difficoltà di reperirle. Una novità risulta la maschera facciale di Austis. Secondo il Licheri, e non c’è da dubi-tarne le maschere di questo paese coprivano il volto con frasche di corbezzolo. Ignoriamo se l’usanza era estesa anche ai paesi vicini. Un’altra novità la scopriamo attraverso il tra-vestimento delle maschere di Cuglieri, anche queste non più esistenti: “... Brincant a lugh’e fogu/ sos cotzulados./ De peddes tramudados/ de igu e de murone,/ de craba e de matzone/ biancos che lizos./ Cun d’unu corru in chizos/ presu a pedde crua/ e sa garriga sua/ denant’è a pala./ Bessin dae dogn’ala/ cun cotzulas ligadas,/ andant’a iscutuladas/ a mod’issoro./ Terra chi paret oro/ giughene pro caratza,/ parent atera ratza/ in custu ballu”. (Trad.: Alla luce delle fiamme saltano “sos cotzulados”. Son travestiti con pelli di vitello e di muflone, di capra e di volpe, bianchi come i gigli, con un corno sulla fronte tenuto da pelle cruda e il carico (di ossi?) davanti e sulle spalle. Sbucano da ogni parte con conchiglie legate (alla vita?) e scuotono il corpo alla loro maniera. Per maschera, portano sul volto terra gialla. Sembrano appartenere a un’altra razza in questo ballo). Molto probabilmente per accrescere il frastuono, queste maschere si legavano, forse in-torno alla vita, numerose conchiglie (cotzulas) che scuotevano in continuazione. Inoltre il loro volto non è imbrattato di sangue o fuliggine, ma di argilla gialla. Sappiamo che an-che il giallo in Sardegna era considerato un colore luttuoso. In alcune località lo si è usa-to sino alla fine dell’Ottocento. La variazione e gli adattamenti avvenuti nel tempo li possiamo ben notare con le masche-re attualmente presenti. Descrivendo quelle di Mamoiada il Licheri afferma: “Pro Antoni sa ‘ia/ leamus de Mamujone,/ totus in orazione/ in numen santu./ ...Ballat to-tu sa zente/ a tundu, a lughe ‘e fogu,/ sa bellesa ‘e su logu,/ comunione./ Cun peddes de murone,/ de matzone e isbirru,/ brincant in dogni chirru/ sos garrigados./ Pro Antoni tra-mudados/ che unu malu inimigu,/ cun caratzas de ortigu/ unu conflittu./ Non timene su frittu/ faghen boghes de craba,/ a inghiriu pan’e saba,/ binu nieddu./ Barras de aineddu/ a garrigu in s’ischina/ ligadas a istentina/ sonan in costas./ A ischina ‘e pische postas,/ faghen sonu ‘e matraca e cun su corru ‘e s’acca/ arrepicadas./ Che animas dan-nadas/ sun pro frade Vassallu/ chi amonit su ballu,/ preiga fatta./ De s’urtzu sa cumbat-ta/ est de puntu paganu,/ pro santu cristianu/ no est permittidu./ Chi siat isperdidu/ su facher peccadore,/ ca pro Nostru Segnore/ est pagania”. (Trad.: Per la festa di S. Antonio ci avviamo verso Mamoiada, tutti in preghiera nel nome del Signore... La gente esegue il ballo tondo al chiarore delle fiamme, il luogo è bello e c’è armonia. Dovunque saltano “sos garrigados” con indosso pelli di muflone, di volpe e di martora. Travestiti per S. Antonio come malvagi nemici, simulano un conflitto, col volto coperto da maschere di sughero. Non temono il freddo, imitano il verso delle capre, mentre tutt’intorno viene offerto pane di sapa e vino nero. Hanno la schiena carica di mascelle di asinello tenute insieme da pezzi d’intestino, e le fanno suonare sulle costole. Sono sistemate a spina di pesce e producono il suono delle bàttole cui fa eco il suono del corno di vacca. Per fratel Vassallo sono simili ad anime dannate perciò, dopo la predica, ammonisce chi balla. Il combattimento con “S’Urtzu” appartiene alla religione pagana, perciò non è permesso che si faccia in onore di un santo cristiano. Che sia annullata questa azione peccaminosa, poiché per Nostro Signore è paganesimo).
Come si vede, anche il corteo di Mamoiada aveva la sua vittima: s’urtzu la chiama Liche-ri, s’urthu la chiamavano a Mamoiada. Questa figura è scomparsa da parecchi decenni, ma è ancora presente nella memoria di alcune persone anziane, come Cosimo Soddu (u-no dei veterani issohadores di Mamoiada), che ne parla in un’intervista a Natalino Piras nel 2003. La cosa non è del tutto nuova, visto che anche Pierina Moretti aveva individua-to questa figura non solo a Mamoiada, ma in moltissimi paesi della Sardegna (“La maschera dell’orso in Sardegna” 1963. L’autrice traduce il termine Orcu-Ocru-Urthu-Urtzu con orso, animale totalmente estraneo alla fauna sarda). Notiamo che alcune descrizioni si ripetono quasi uguali, ma questo è normale, giacchè nelle linee essenziali si ripete sempre lo stesso rito. Certamente l’intento del Licheri, quando scriveva queste poesie, non era quello di tramandare tradizioni folkloristiche ai posteri. Egli, ad anni di distanza, rievocando il tempo in cui accompagnava il Vassallo, intendeva esclusivamente esaltarne la tenacia e la forte tempra nella predicazione. Si av-verte da ogni componimento la grande ammirazione che nutriva verso il maestro per la sua vasta cultura e il sincero amore filiale che lo legava a lui. Ma nell’evidenziare la fermezza del Vassallo e la decisa condanna contro ogni forma di paganesimo superstite verso cui minacciava la scomunica, egli non può tralasciare di parlare delle maschere del centro Sardegna che in maniera evidentissima, in pieno Sette-cento, ancora replicavano i loro riti per un dio chiamato Maimone, di cui si ricordano an-cora le invocazioni per la richiesta della pioggia. Un dio del quale ogni anno si rappresen-tava la passione che aveva subito prima di morire, attraverso la passione che si infliggeva a una vittima umana che solo all’ultimo momento, prima di essere gettata sul rogo, veni-va sostituita da un fantoccio, spesso chiamato Zorzi (il fecondatore). Che questa vittima simboleggiasse una divinità pagana, il Vassallo lo sapeva e pertanto tutte le sue prediche fatte in gennaio, tra S. Antonio e S. Sebastiano, culminavano con la minaccia di scomunica verso coloro che, pur ritenendosi cristiani, ancora ricordavano questo dio (Dioniso Mainoles, divenuto col tempo Maimone) nelle loro esibizioni, osten-tando ossi di animali che, secondo la credenza, avrebbero dovuto rigenerare nuova vita. Un rito propiziatorio di fertilità che ricordava antiche usanze presenti persino tra i Celti, come quel dio Thor che dopo aver mangiato la carne dei suoi capri ne riunisce gli ossi e questi riprendono a vivere (S. Sturluson, Edda, a cura di G. Delfini, Milano 1975). Leggende antichis-sime, che partivano da rituali di caccia per poi strutturarsi in forme religiose. Sicuramente il Vassallo conosceva le prediche fatte contro i mascheramenti durante le calende di gennaio da diversi padri della Chiesa. Restano famose ancora oggi quelle at-tribuite a S. Agostino, il quale scriveva nel sermone 129 “Alcuni si vestono con pelli di pecora, altri si adattano sul capo teste di animali, felici ed esultanti se riescono a tra-sformarsi in forme bestiali, tanto da non sembrare più uomini” e nel sermone 130°, quasi simile al primo, aggiunge: “Si trasformano in forme bestiali per farsi simili al Dio e, resisi somiglianti, fanno un diabolico sacrificio”. Di quale dio parla? Non certo del dio dei cri-stiani. Dioniso era divinità traco-frigia, entrata tardi nella Grecia classica, ma ben conosciuto nel mondo cretese-miceneo. In Sardegna penetrò in tempi lontani, probabilmente attra-verso i Micenei, intorno al XIII-XIV secolo a.C. Quanto sia stata forte la loro penetrazione all’interno dell’isola lo dimostrano i numerosi templi a megaron che negli ultimi decenni sono venuti alla luce. C’è da credere pertanto che una forma di religione dionisiaca crete-se-micenea (si pensi al culto della bipenne in Sardegna) sia penetrata in tempi antichis-simi, non mediata dalla religione romana, benché anche Roma conoscesse il culto dioni-siaco, sopratutto nella forma
bacchica. Basti pensare ai baccanali romani proibiti dal Senato nel 186 a.C.. Ma Roma conosceva anche Dioniso psicopompo, come attestano al-cuni sarcofagi ostiensi e romani che rappresentano scene bacchiche. Nel frammento di uno di questi, conservato nel Museo Vaticano, si nota la figura di un giovane che porta sul petto delle corregge incrociate. “Dalle corregge, specialmente dai loro punti d’incrocio, pendono campanelli in numero dispari, sette o nove, disposti a tre file... Le scene delle quali esso è parte rappresentano sempre pompe dionisiache, concepite in forma cora-le...”. Così scriveva Gennaro Pesce nel 1957, descrivendo tale sarcofago, con evidente as-sociazione alle maschere Sarde (G. Pesce, Sarcofagi romani di Sardegna, l’Erma, Roma 1957). Infatti le scene bacchiche scolpite sembrano auspicare la rinascita che segue alla morte. Di tali figure ho già trattato nel n° 10 di questa rivista.
La forma tragica e cruenta del culto dionisiaco superstite in Sardegna pare non sia stata sfiorata dalla religione orfica che lo aveva reso più mite in altre regioni, e questo ne deno-ta l’antichità. Nella nostra isola penetrò sicuramente in tempi assai lontani, nella forma più primitiva e selvaggia, e tale si mantenne per decine di secoli, se ancora il Licheri potè vederlo in un aspetto tanto cruento. Ai suoi tempi tutte le maschere portavano ancora un carico di ossi di animali sulle spal-le, con funzione apotropaica e rigenerativa che, agitati, “faghen sonu ‘e matraca”, produ-cevano quel rumore tipico delle bàtole, dei crotali e delle tabelle usate durante la Setti-mana Santa. Tale rumore, a Cuglieri, pare fosse intensificato dalle conchiglie che usavano i “cotzula-dos”. Anche le maschere degli altri paesi sono definite dal Licheri con nomi particolari. A Ortueri le chiama maimones, cioè col nome generico che si dà a tutte le maschere, ma ad Atzara le definisce “penitentes”. Questo termine, più che nome proprio, sembrerebbe un epiteto suggerito dall’accostamento alle confraternite dei penitenti, visto che, come que-sti, portano con sé delle pietre, non in segno di penitenza, ma per provocare un rumore sordo, battendole tra loro. Le maschere di Cheremule sono chiamate “sos impeddaos”, mentre quelli di Austis vengono dette “sos colonganos”, il cui termine ha più o meno lo stesso significato. Infatti la radice кόλος in greco significa pecorae il termine potrebbe es-sere usato per indicare quelli che si vestono da pecora. Ad Austis, Tiana, Teti e paesi vicini le maschere sono dette “is bestias de coli coli”. Ma кόλος ha anche il significato di colui che viene percosso, mutilato, che soffre e riceve danno, perciò entrambi i significati si addicono alla vittima del carnevale che in questi paesi è chiamato anche “coli coli”. Il termine che il Licheri usa per definire le maschere di Samugheo è “ossudos” che equivale a “garrigaos” con cui definisce quelle di Mamoiada le quali portano ugualmente un carico di ossi sulle spalle. Altra caratteristica che viene spesso messa in rilievo è la maschera di sughero (caratzas de ortigu), che sembrano por-tare quasi ovunque, tranne quelli che avevano il volto imbrattato di fuliggine e sangue. Non si parla mai di maschere di legno. La maschera lignea richiede un impegno e maestria nell’esecuzione che non tutti doveva-no possedere. La maschera di sughero poteva invece essere modellata con facilità da chi-unque. Inoltre aveva la caratteristica della leggerezza. Con tutta probabilità, finito il rito, veniva gettata nel fuoco come il fantoccio. Rinnovarla anno dopo anno come si rinnova il dio e la vegetazione che rappresentava doveva essere nell’ordine delle cose. E’ probabilmente per questa ragione che non ci sono pervenute maschere lignee molto antiche. Senza volerlo, il Licheri conferma cose già intuite, come ad esempio il perchè una persona folle o poco avveduta è chiamata ancora oggi mamuthone o maimone. In una delle ultime poesie riportate da Eliano Cau in questo bel libro, che si rivela fon-damentale per il suo contenuto, il Licheri, pur non parlando di maschere, accenna ai ma-li che affliggono la società del suo tempo. La poesia intitolata “Males terrenos” ed è datata 1778 (tutti i brani sono sistemati dal Cau in ordine cronologico e vanno dal 1752 al 1802, anno della morte del Licheri). Nella suddetta poesia l’autore si lamenta del cattivo operare della sua gente. Il brano inizia: “Sa idda ch’est derruta, pro su male operare...” ed enuncia quelli che sono i peccati più gravi. Tra i mali peggiori c’è l’utilizzo, come vittima carnevalesca, del folle. Ecco i versi: “No si ponzat pius sutta/ a morte cundennadu/ cussu mal’assortadu/ chi no atuat./ Chi timet e si cuat,/ cun preigas sanadu,/ ca indemoniadu,/ ma non bochidu./ Ne cun peddes bestidu/ in infernale corte,/ pistadu fin’a morte/ pro esser reu./ De ite, Deus meu!/ Ani-mas innocentes,/ in trattos de serpentes/ feos perdidos./ Foras de sos sentidos/ dae su dimoniu ispintos,/ dae su dimonio bintos,/ lua e cicuta./ Sa idda ch’est derruta!”. (trad.: Non si assoggetti alla condanna a morte il povero disgraziato che non è in grado di intendere e teme e si na-sconde; va guarito con preghiere perchè è invasato, non va ucciso. Né deve essere vestito di pelli e immesso nell’infernale corteo (delle maschere) per pestarlo fino a morire, come fosse reo. Di che cosa, Dio mio! Anime innocen-ti, conciate in sembianze di brutti serpenti, smarrite, spinte fuori di sé dal demonio e da questo vinte con euforbia e ci-cuta. Il paese è distrutto!).
Da questi toccanti versi veniamo a conoscenza di cose finora solo sospettate e mai accer-tate: la vittima del carnevale, quella che doveva rappresentare la passione e la morte del dio della vegetazione, dell’ebbrezza e dell’estasi, veniva stordita oltreché col vino, anche con una certa dose di sostanze tossiche, spesso mortali: lua (euforbia) e cicuta. Questo spiega anche perchè tale vittima, nei carnevali sardi, è scomparsa prima delle altre e per-chè in alcuni paesi dove il carnevale è stato riesumato, la vittima manca. (D.Turchi, Maschere, miti e feste della Sardegna cit. – D.Turchi, Su carrasecare. Immagini del carnevale in Barbagia, Nuoro 2005). Questo libro apre uno squarcio profondo sulla vita del Settecento. Siamo grati al poeta gesuita Bonaventura Licheri per aver chiarito alcune zone d’ombra del secolo in cui visse. Ma poiché ci pare di capire che non tutto il materiale sia stato recuperato, auspichiamo che questo avvenga quanto prima con una nuova pubblicazione fatta da Eliano Cau, in modo da portare alla luce tutta l’opera inedita del Licheri, custodita in un primo tempo dal sacerdote Sebastiano Patta e successivamente da Raimondo Bonu. Il volume si chiu-de con un’appassionata riflessione di Tonino Cau su Neoneli e sulla tradizione canora di questo paese, nonché sul grande numero di canti sacri di Bonaventura Licheri che di Ne-oneli era nativo.