Chi avesse, in futuro, la felice ventura di visitare Capri, non manchi di sottrarre, almeno un momento, ai piaceri paesistici e gastronomici di quel paradiso, per dedicare una visita attenta a La Conchiglia. Salotto raccolto e confortevole, per metà libreria per metà galleria antiquaria, annidato nel cuore del centro storico, riserva infatti, specie al sardo occasionale, una vera sorpresa.
Nell'insieme delicatamente marino delle stampe a soggetto caprese, esposte con informale eleganza,
spiccano infatti, brusche di forme e di colori, le fogge inequivocabili del costume barbaricino: rossi e neri e bianchi intarsiati con bella sintesi xilografica, che rivela subito a un occhio esperto accenti nordici, bene databili, divisi come sono tra secessione ed espressionismo. Segno pesante e angoloso, quasi gestuale, che chiude campiture cromatiche piatte, brillanti di ricercata, seppure barbarica, semplificazione: non si va insomma oltre il secondo decennio del secolo. Ma se la datazione è presto confermata dalle cifre segnate sulla tavola - 1917 - il monogramma che le sovrasta (una H e una P stampate sovrapposte alla maniera gotica) esclude subito qualsiasi attribuzione ai maestri sardi della
xilografia: troppe d'altronde e l'ansia sintetica e la deformazione anatomica, anche per un Biasi.
Ci aiuta allora l'autore dichiarandosi per esteso - a matita - quel nome una storia già antica, seppure ancora ignota in Sardegna, di un pittore viennese e del suo amore diviso tra due isole: una storia vera, anche se sembra uscita dal pennino di Sergio Atzeni. Inizia nel 1900, quando l'artista ventenne, dotatissimo studente della Kunstakademie, abbandona Vienna per seguire a Capri il più visionario dei suoi professori: Karl Wilhelm Diefenbach. Un eclettico simbolista, vegetariano, naturista e pacifista, che sceglie di fuggire la mondanità dell'Occidente moderno per vagare come un nomade dalla
Mitteleuropa sino al Cairo, e approdare finalmente al mito incorrotto dell'isola dei faraglioni, circondato come un Messia da uno stuolo di fedelissimi.
Tra questi è Hans Paule che ben presto estremizza gli insegnamenti del maestro, sino a staccarsene per trasformarsi in felicissimo troglodita, abitatore di quella Grotta dei Faraglioni che si affaccia sul litorale incantato dell'isola delle Sirene.
Pictor spelaeus lo definisce scherzando ma rispettoso ammiratore della sua opera, Edwin Cerio, moltissimo e raffinato intellettuale e sindaco di Capri, in un articolo monografico apparso sul Mattino di Napoli nel settembre del '42.
In quell'antro omerico, a diretto, appassionato contatto con una natura vergine, l'artista vive e lavora instancabile, a effigiare in miriadi di disegni, come in un misterioso rituale primitivo, il volto mutevole di quel mare degli Dei. «Ma capitò nella grotta - scrive Cerio - qualche amatore d'arte e lo tentò con l'oro. Così Paule precipitò dall'età della pietra nell'età del metallo monetato quasi senza
accorgersene».
Da quella prima, timida esperienza di negozio, alla personale nel caffè più alla moda di Capri, il passo fu breve. Il troglodita cede alle insistenze di un'ammiratrice e acconsente«a farsi sgrossare la barba, ad indossare gli indumenti coi quali era venuto da Vienna - continua Cerio -
per comparire al Caffè Kater Hiddigeigei. In un paio d'ore vendette tutto quanto aveva portato con sé. Wenck, direttore del Glaspalast di Monaco andò poi a stanarlo nella sua grotta acquistando tutta la sua produzione e invitandolo a esporre in Germania».
Il pubblico dell'arte, in quella Capri dei primi del secolo, non ha niente da invidiare a quello di Londra, di Mosca o di Berlino: è lo stesso. Se accorrevano infatti a frotte i pittori, da ogni angolo del globo, in quel natio borgo selvaggio, a inseguire gli ultimi richiami del Grand Tour, così i protagonisti della storia e della cultura europea di quegli anni si sono incrociati sulla celebre "Piazza", alta sopra l'azzurro intenso del Tirreno, come e forse più che nei Champs Elysées. All'ombra delle sontuose paglie di Panama, fasciati nello sfolgorio coloniale di lini e flanelle, hanno passeggiato per
i viottoli ombrosi di mirto e di cipressi, Gor'kij e Conrad, Lawrence e Lunaciarskij, Krupp e Francesco Giuseppe, Shaljapin e Rilke, per tacer di Lenin, intento a giocare a scacchi sotto quelle pergole imbiancate a calce amate anche da Nicola II.E il successo che questo pubblico tributa al giovane Paule gli permette una variazione, appena più civile, allo stile di vita trogloditico: trasloca infatti dalla grotta marina a un magazzino d'attrezzi da pesca, sempre davanti al mare, a contatto epidermico, goduto, con quella natura che continua - nonostante l'effimera avventura mercantile - ad
essere unico nume tutelare della sua esistenza. Almeno sino al maggio del 1915, quando è il governo
italiano ad assumersi la tutela del pittore che, seppure convinto pacifista, è purtuttavia suddito dell'odiato,asburgico nemico. E così, da quell'isola già orgogliosa della sua vocazione turistica, la mano del destino porta Hans Paule in un'altra isola, nota allora solo per storiche vocazioni malariche e carcerarie: la Sardegna. «Relegato nella regione più aspra e selvaggia dell'isola -racconta Cerio - accolto amorevolmente da una banda di malandrini che avevano preso ad infestare quella plaga
impervia, poté esplorare un paese d'una bellezza impensata, tale da dargli una nuova visione del paesaggio italiano».Poche parole che non possono che riferirsi alle Barbagie: cuore di Ichnusa, duro di roccia e di quercia, che si apre improvviso agli occhi del giovane austriaco, ebbri del mare
di Capri.
E quella terra austera e barbara Paule esplora, studia e riproduce, incantato dalle forme sobrie, asciutte, della sua natura e delle sue genti e ovviando alla comprensibile pochezza di materiali altri con la scelta del più disponibile: il legno.
Di qui il suo privilegiare la xilografia, tecnica certamente nota al valente allievo dell'accademia viennese. Nel tratto secco e sintetico, nei colori preziosi, sembra rivelarsi infatti la lezione secessionista, lontana ma indimenticata, delle famose fotoxilografie policrome del connazionale Carl Otto Czeschka, anche se un vigore rustico, sonoro di rudezze spigolose, lascia intendere il primitivismo - controllato - della semplificazione espressionista.
Favorita forse da quel «contatto - di cui scrive Cerio - con genti d'una cultura autoctona, primigenia, della quale egli usanze». Amore per quella landa desolata ma straordinariamente autentica, che pare addirittura poter cancellare nell'artista il ricordo azzurro della sua amata Capri, se è vero - come testimonia ancora Edwin Cerio - che la terra di Barbagia riesce, finita la guerra, a trattenere Paule per altri sei lunghi anni, dopo i quattro trascorsi in internamento. Come pare altrettanto vero un significativo successo di quell'opera grafica: «I suoi legni, spesso policromi - conclude Cerio - raffiguranti i paesaggi, gli uomini e le donne, le scene familiari d'una Sardegna fino ad allora inedita in arte, furono riprodotti in stampe acquistate dal governo italiano e poi dalle principali gallerie d'Europa e d'America». Nella seconda metà degli anni Venti, Hans Paule finirà tuttavia per cedere nuovamente al richiamo delle Sirene e tornare in una Capri, che ritrova sempre più affermato crocevia mondano di quell'Europa del primo dopoguerra. Land of cypress and myrtle: mito turistico che fiorisce sotto l'occhio vigile e poetico dell'amministrazione Cerio, adeguatamente movimentato dalla caffeina di Marinetti e dei suoi rumorosi seguaci futuristi - Depero, Cangiullo e altri - nonché dal dandysmo abbronzato di Curzio Malaparte e di quel bel mondo che fu. E Hans Paule, arricchito nello spirito e nel segno dall'esperienza barbaricina, si reinserisce perfettamente nel dorato ambiente locale: non lascerà più l'isola incantata, sino alla morte, che lo coglie all'improvviso sul finire del 1951. La Sardegna dal canto suo, come un'amante delusa, sembra essersi vendicata di quel ritorno a Capri, ingoiando nel labirinto muto della sua storia il nome e l'Opera dell'austriaco: l'articolo di Cerio è sino a tutt'oggi l'unica testimonianza di quell'avventura sarda, mentre dobbiamo forse a un altro caprese d'adozione le uniche opere di Paule di cui si conosca - al momento - la presenza nell'isola. Sono due cromoxilografie, conservate nella sede della Società Bonifiche Sarde di Arborea, portate con tutta probabilità in dono al presidente - Piero Casini - dall'architetto Giovanni Battista Ceas, nel febbraio del 1934. Romano di nascita ma residente per gran parte dell'anno a Capri, quest'ottimo assertore del razionalismo, buon amico di Edwin Cerio e con lui strenuo difensore dell'architettura tradizionale dell'isola, giunge a Mussolinia per offrire gratuitamente alla città nuova i due progetti della Casa del Fascio e della Casa del Balilla. Quale regalo di cortesia più opportuno di quelle stampe sarde - pare fossero cinque o sei in origine - di un artista caprese, dove il soggetto tradizionale era inoltre trattato con bella sintesi moderna? L'ipotesi sembrerebbe plausibile, ma resta comunque irrisolto l'interrogativo più avvincente: dove ha vissuto Hans Paule nei suoi quasi dieci anni di residenza in Sardegna? L'unico ausilio è dato dal vago riferimento geografico dello
scritto di Cerio, confortato dai caratteri dei costumi riprodotti nelle poche stampe disponibili - a Capri e ad Arborea - che, nonostante l'avarizia di dettagli dovuta alla citata semplificazione formale, porterebbero senza troppi dubbi nell'area della Barbagia di Belvì: a Tonara o forse meglio ancora a Desulo, sede ideale per un internato, data l'inaccessibilità del sito, specie allora. Fatto è che gli archivi della Questura risalenti a quel periodo sono praticamente inaccessibili. Non resta che la memoria degli anziani o megiio ancora l’opera di Paule, sicuramente esistente nei luoghi della sua lunga stagione sarda. Questa in breve la sorpresa e la sua storia, pressoché inedita: manca solo il tassello finale, la soluzione dell'arcano, che affidiamo umilmente alla curiosità dei lettori.
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