domenica 28 marzo 2021
venerdì 12 marzo 2021
Uno scapigliato a Tonara. Peppino Mereu. di Giovanni Graziano Manca.
Viene alla luce a Tonara il 14 Gennaio 1872, Peppino Mereu, il più grande, forse, dei poeti in lingua sarda.
Mereu oggi è probabilmente anche il poeta sardo più rimpianto, quello che più ci manca. La ragione di questo sentimento diffuso sta certamente, da un lato, nell’attrattiva esercitata dalla sua figura carismatica, dall’altro in quella sua aura da poeta maledetto che muore solo e giovane lasciando orfani i propri estimatori, anche (o soprattutto?) quelli delle generazioni e generazioni a venire fino a oggi che lui non potrà conoscere.
Un novello Baudelaire, il vate tonarese: del resto l’angoscia di vivere (lo spleen) e la sua indole fortemente ribelle riaffiorano sempre, nei suoi versi. La poesia di Mereu, oggi, la si legge e la si apprezza ancora moltissimo sia per i suoi contenuti universali sempre validi, sia per quella intrinseca, straordinaria capacità di Mereu di plasmare e cesellare la parola rendendola pienamente capace di esprimere e interpretare gli aspetti sociali ed economici della Sardegna e della Barbagia del tempo in cui furono scritte.
In A Signor Tanu Mereu scrive:
De coro francu e a tottus cumunu,/mi la fatto cun poveros mischinos/chi opprimidos sunt de su digiunu./Odio cuddos viles istrozzinos/chi dan dinare su chentu pro chentu/e ponent terras santas a camminos./Fizu de su canudu Gennargentu,/bidende sas infamias terrenas,/provo in coro veru sentimentu./Manos ch’hant meritadu sas cadenas/firmant libellos ignominiosos,/ponende sa virtude in graves penas./Rettiles malaittos ischifosos/isparghende funestu su velenu/in custos sitos virdes e umbrosos./E nois cun d’unu animu serenu/nos godimus in paghe s’ispettaculu/chi disonorat custu logu amenu./A su male si ponzat un’ostaculu,/benefica si tendat una manu,/sa Barbagia est zega e cheret baculu.
A Sig.Tanu (Al Sig.Tanu):
Di cuore franco e sodale con tutti, / sono amico di poveri infelici / che sono oppressi dal digiuno. // Odio quei vili strozzini / che prestano denaro al cento per cento / e fanno di luoghi sacri comuni strade. // Figlio del canuto Gennargentu, / vedendo le infamie terrene, / provo nel cuore vero sentimento. // Mani che hanno meritato le catene / firmano libelli ignominiosi, / mettendo la virtù in gravi pene. // Rettili maledetti schifosi / che spargono il funesto veleno / in questi siti verdi e ombrosi. // E noi con un animo sereno / ci godiamo in pace lo spettacolo/ che disonora questo luogo ameno. // Al male si frapponga un ostacolo, / si tenda benefica una mano, / la Barbagia è cieca e vuole un bacolo. //
Peppino Mereu era particolarmente legato a Tonara. Un rapporto viscerale e simbiotico, il suo, con il paese, un amore preminente per i luoghi e le ricchezze naturali di cui esso è dotato. Cara, santa e benedetta dalle muse, viene definita Tonara in una delle poesie più conosciute di Peppino, ma come vedremo egli non si limiterà a cantare in versi le amenità del luogo e l’amore per una terra che l’ha visto nascere e crescere: la poesia di Mereu, se volessimo definirla con termini che aderiscono meglio alla realtà dei nostri giorni, è poesia sociale, di protesta verrebbe da dire, ma anche, tutte le volte che il poeta posa il proprio sguardo introspettivo sulle proprie vicende, esistenziale.
Ecco, per esempio, quello che il poeta scrive in Turmentos:
Donosu rosignolu,/non cantes sutta sa ventana mia/lassami istare solu/unu momentu ca benit s’istria;/custu est logu de dolu,/de iscunfortu e de malinconia,/custu est logu de pena/indigna ‘e s’amorosa cantilena.//Passadas sun sas dies/chi mi ponias su coro in regiru,/tue cantas e ries/e tenes pro risposta unu sospiru./Bentos frittos e nies/m’han leadu de vida su respiru./Su canticu suave/suspende unu momentu, s’ora est grave.
Turmentos (Tormenti):
Grazioso usignolo, / non cantare sotto la mia finestra, / lasciami star solo / un momento, perché viene il gufo; / questo è un luogo di dolore, / di sconforto e di malinconia, / questo è un luogo di pena / indegno dell’amorosa cantilena. // Sono passati i giorni / in cui mi mettevi il cuore in tumulto, / tu canti e ridi / e ricevi in risposta un sospiro. / Venti freddi e nevi / mi hanno portato via il vitale respiro. / Il canto soave / sospendi un momento, l’ora è grave.
Le notizie incontrovertibili riguardanti la vita e la morte di Peppino Mereu sono esigue. Si conoscono con certezza la data di nascita e quella di morte del poeta, la composizione della sua famiglia, il servizio prestato presso l’Arma dei carabinieri reali e quello prestato presso il Municipio di Tonara in qualità di scrivano. Quarto di sette fratelli, perde entrambi i genitori prematuramente: la madre Angiolina Zedda muore a Cagliari nel 1887, il padre Giuseppe, medico del paese, nel 1889, per aver ingerito erroneamente una sostanza letale scambiata per liquore. Alla morte del padre Peppino ha ancora diciassette anni. Essendo in quegli anni il paese di Tonara sfornito di scuole si tende a credere che il poeta abbia acquisito una formazione da autodidatta 1. Dalla lettura dei versi, però, emergono chiari gli elementi che raccontano anche delle molte letture fatte dal tonarese e delle influenze letterarie e culturali da lui acquisite; non a caso si presenta straordinariamente ricco di spunti il verseggiare di Mereu: si va dalle riflessioni filosofiche e dagli argomenti di portata universale come la vita quotidiana, l’amore, la morte, la giustizia, a considerazioni di sapore più politico e polemico contenute nelle opere più, per cosi dire, contestatarie. Queste ultime testimoniano di un approccio del poeta particolarmente commosso nei confronti del disagio che angustia gli strati meno abbienti della società (il contadino, il pastore), ma fortemente critico nei confronti del potere costituito quando questo genera iniquità e verso una giustizia che non è mai giusta come dovrebbe.
La poetica del poeta barbaricino è stata da più parti correttamente ricondotta alla concezione critica degli scapigliati ferocemente avversa al sistema borghese, al piatto andamento della normalità delle cose, all’ideale positivistico. Non solo Mereu si farà interprete e portavoce dei vari aspetti di una crisi sociale ed economica che colpirà l’Italia intera e non solo la nostra isola, ma il poeta si avvicina agli ideali propugnati dal movimento socialista. Negli anni in cui Mereu scrive, in un contesto in cui il fenomeno del banditismo dilaga e le prime lotte di classe si diffondono con gli scioperi e i movimenti politici operai, la Sardegna, socialmente ed economicamente parlando, versa in condizioni pietose. Peppino Mereu dimostra di essere uomo perfettamente calato nell’attualità delle questioni dei tempi in cui ha vissuto e scritto.
In Lamentos de unu nobile, per esempio, canta:
1.Funesta rughe/chi giust’a pala/per omnia saecula/ba’in ora mala./2.In diebus illis/m’has fatt’ onore,/ma oe ses simbulu/de disonore./3.Oe unu nobile/chi no hat pane,/senz’ arte, faghet/vida ‘e cane./4. Senz’impiegu/su cavalieri,/est unu mulu/postu in sumbreri./5.A pancia buida,/senza sienda,/papat, che ainu, paza in proenda./6. Deo faeddo/cun cognizione,/ca isco it’ este/s’ispiantaggione./[…]11.Ah caros tempos/c’happo connottu!/sezis mudados/in d’unu bottu!…
Lamentos de unu nobile (Lamenti di un nobile):
Croce funesta / che porto in spalla, / per omnia sæcula / va’ in malora.// In diebus illis / m’hai fatto onore, / ma oggi sei simbolo / di disonore. // Oggi un nobile / che non ha pane, / senz’arte, fa / vita da cane. // Senza impiego / il cavaliere, / è un mulo, / col cappello. // A pancia vuota, / senza averi, / mangia, come l’asino, / la razione di paglia. // Io parlo / con cognizione, / perché so cos’è, / la miseria.// […] Ah tempi cari / che ho conosciuto! /Siete cambiati / tutto d’un botto! //
E in A Nanni Sulis II:
Unu die sa povera Sardigna/si naiat de Roma su granariu;/como de tale fama no nd’est digna./Su jardinu, su campu, s’olivariu/d’unu tempus antigu, s’est mudadu/ind’unu trist’ispinosu calvariu.
A Nanni Sulis II (A Nanni Sulis II):
Un tempo la povera Sardegna / si chiamava il granaio di Roma; / ora di tale fama non è degna. // Il giardino, il campo, l’oliveto / d’un tempo antico, s’è tramutato / in un triste, spinoso calvario. //
E’ generalmente riconosciuto che la valenza culturale e sociale dell’opera di Mereu si spinge anche oltre gli angusti confini della Sardegna. Peraltro, quelli proposti poc’anzi sono versi che testimoniano del forte senso critico di Mereu, della energica vis polemica che irradia da molte delle sue poesie e della grande attenzione che il vate del Gennargentu riserva ai mali che travagliano la propria terra, mali, spesso, che ancora nessuno è riuscito a debellare.
I testi sono tratti da: Peppino Mereu, Poesias, ILISSO EDIZIONI, Nuoro 2004; le traduzioni sono curate da Marco Maulu
https://www.mediterraneaonline.eu/uno-scapigliato-a-tonara-vita-e-arte-del-poeta-peppino-mereu/
Peppino Mereu Nato il 14 gennaio 1872 e morto 11 marzo 1901.
Peppino (Giuseppe, Ilario, Efisio, Antonio, Sebastiano) nasce a Tonara da Giuseppe Mereu e Angiolina Zedda. Pur essendo figlio del medico condotto del paese non ebbe mai vita facile. Il sesto di nove fratelli: più grandi di lui erano: Edoardo (1860), ufficiale postale ad Assemini ed ivi sposato con Fedela Mereu, asseminese; Manfredi (1862), ufficiale postale a Tonara; Maria Assunta (1864), verosimilmente morta bambina, Elvira (1866), sposata con Pietro Mameli di Lanusei, ed Assunta (1869), verosimilmente morta anche lei bambina; più piccoli: Matilde (1874), coniugata Morini e morta a Pesaro nel 1918, insieme a tre figli, vittima della famigerata influenza spagnola; Ernesto (1876), ufficiale del Genio militare, sposato prima con una Sereno Golzio a Torino e poi con una Pintucci a Roma; ed Emilia (1881), accolta nella casa del fratello Edoardo ad Assemini dopo la morte dei genitori e poi sposata Falciani. Il padre morì accidentalmente nel 1889 bevendo del veleno che aveva scambiato per liquore; la madre era morta pochi anni prima, nel 1887, a Cagliari.
Si arruolò nell'Arma dei Carabinieri in cui rimase per 5 anni, di servizio in diversi paesi della Sardegna. È proprio durante la vita militare che il poeta prende coscienza anche dei problemi socio-economici dell'Isola e manifesta idee che si ispirano al nascente movimento socialista. Pur in contrasto con i suoi superiori dell'Arma, nelle feste di paese partecipava alle tradizionali "gare" di poesia estemporanea in competizione con poeti ben più anziani e quindi più preparati uscendone spesso vincitore.
Di salute cagionevole, durante l'ultimo anno della vita militare la malattia del poeta si fece più intensa: dopo aver trascorso vari periodi nell'infermeria presidiaria di Sassari e di Cagliari infine, fu congedato il 6 dicembre 1895. Rientra a Tonara e vive per un breve periodo con il fratello Manfredi, a quel tempo ufficiale postale. Per incomprensioni tra i due, la convivenza dura poco sicché il poeta si trasferisce per qualche tempo a «Muragheri» (una caratteristica zona di Tonara dove fra l'altro si trova la fonte di «Galusè»). In questo periodo il poeta vive grazie all'aiuto di varie persone e svolgendo ogni tipo di mansione: canta nei matrimoni, partecipa alle gare poetiche, fa le musicas (serenate che si facevano in primavera al ritorno dei pastori); inoltre, essendo nel paese uno dei pochi capace di scrivere, fa lo scrivano per clienti occasionali. Dall'ottobre del 1898 al dicembre del 1900, per interessamento del segretario comunale, certo signor Pulix, lavora come scrivano presso il Comune e la conciliatura. In questo periodo trova alloggio presso il messo comunale, Trabadore Medde, che gli mette a disposizione una stanza nella sua casa adiacente agli uffici comunali.
Muore l'11 marzo 1901, a soli 29 anni (dubbia è la causa della sua morte: le fonti più attendibili parlano di diabete).
Monumento allo scrittore a Tonara
Nato e vissuto in una Sardegna afflitta da fame, malaria e corruzione, di tutto ciò è cosciente pervadendone la sua opera. Affine agli scapigliati milanesi e vicino alla scuola nuorese dei poeti de su connottu (letteralmente "del conosciuto"), Mereu visse una vita di stenti protetto solo da pochi amici tra cui Nanni Sulis, al quale sono dedicati numerosi componimenti del poeta. La sua è poesia sociale, di protesta ma anche esistenziale[1].
Una frase estrapolata da una poesia dedicata al Sulis può aiutare a capire il suo pensiero:
(SC)
«Senza distinziones curiales devimus esser, fizzos de un'insigna, liberos, rispettados, uguales
IL CANTO SOCIALE DI PEPPINO MEREU di Stefano Flore
Piccola antologia poetica ragionata
IL CANTO SOCIALE DI PEPPINO MEREU
Giuseppe Ilario Efisio Antonio Sebastiano Mereu, nacque a Tonara il 14 gennaio 1872 da Giuseppe Mereu, e da Angiolina Zedda di Cagliari.
Nel 1887, quando il poeta aveva quindici anni, muore la madre e circa due anni dopo perde il padre, medico condotto di Tonara a seguito ingestione di una sostanza velenosa, e non si capisce se la morte sia dovuta a una tragica fatalità o a determinata volontà suicida. A diciassette anni si ritrova, quindi, quarto di sette figli, senza il sostentamento paterno. La vita di Peppino Mereu, che, sen
za tanti privilegi, poteva considerarsi agiata, con la perdita dei genitori subisce una drastica svolta.
Non è difficile immaginare quanto negativamente, queste due disgrazie, in un così breve lasso di tempo, possano aver influito sul normale corso di vita dei fratelli Mereu sia dal punto di vista affettivo, che da quello economico. Può essere che questi eventi luttuosi abbiano avuto anche ripercussione sugli studi di Peppino Mereu, che sappiamo limitati alla terza elementare, anche perché non esistevano allora a Tonara classi scolastiche superiori il che non toglie che nelle sue poesie dimostri conoscenze non acquisibili solo attraverso la sua bassa scolarizzazione.
In sintesi, il contenuto socio-culturale, l’attualità dei contenuti poetici, la metrica espressa con una carica di sensibilità non comune, la forza della sua denuncia sociale fanno di Mereu un poeta unico ed originale per i suoi tempi.
Il ritmo e la lirica nelle poesie di Peppino Mereu, la fanno da padrone, decretano le sue alte capacità di compositore che accompagnano il lettore piacevolmente dentro i contenuti meditati, spontanei, quanto profondi, del suo pensiero. I suoi versi sono piani difficilmente, nelle poesie la rima è fatta a scapito del contenuto, ma ambedue camminano in sintonia con la consapevolezza del discorso, che si distende con grande capacità narrativa:
Egli comincia giovanissimo a cantare con i poeti estemporanei di allora:
Bachis Sulis, Lorenzo Zucca, Agostino Diana e Francesco Capeddu.1 Sono questi nomi che ricorrono diverse volte tra le rime delle sue poesie e di cui purtroppo non abbiamo testimonianza alcuna circa la loro produzione poetica, che, dai versi del Mereu deve essere stata di grande spessore lirico come evidenziato in alcune sue poesie, prima fra tutte quella dedicata a Paolo Hardy:
“Da-e s’altu nuraghe
cun supremu disgustu
mi meravigli’ ‘e su tou ardimentu
Lassa dormir’in paghe
su sonnu a cuddu giustu
chi de liricu summa fama hat tentu.
S’insultu est meda grave
turbare sa suave
armoni’ ‘e sos sonnos de Larentu…”
E ancora nella poesia dedicata a Tonara:
“Canta, canta continu,
o patria de Larent’ e de Capeddu;
de musas ses giardinu,
cara ses a Tommasu e Bachiseddu;
t’allegrat Aostinu,
ca possedit bernescu su faeddu,
cun sa musa brullana
si mustrat dignu fiz’e Peppe Egiana.”
Il sette aprile del 1891, compiuti i diciannove anni, non avendo altre speranze di lavoro, alla pari di molti suoi coetanei, si arruola volontario nell’arma dei carabinieri, ove rimane fino al dicembre del 1895, quando viene congedato per infermità.
Nei primi anni di arruolamento conosce le prime amarezze: viene accusato ingiustamente ed artatamente di furto da parte di un suo superiore, che la voce popolare vuole suo diretto rivale in amore. Da tale accusa il poeta viene in breve completamente scagionato ma da buon sardo conserva in fondo al cuore tutto il suo rancore anche di fronte alla tragica morte del suo avversario. Questo suo ex superiore viene trucidato a Fonni, a fine ‘800.1 In una lettera in rima del 5 luglio 1896 indirizzata al suo collega e poeta Eugenio Unali di Pozzomaggiore così commenta Peppino Mereu:
Bi nd’ hat in compagnia e disciplina
samben’hat fattu s’istrale fonnesa
basada siat sa manu assassina.
No t’indignet sa mia cuntentesa
chi dimustr’in basare cudda manu
chi sever’hat punidu sa vilesa
Peus pro chie de cor’es villanu
daghi est soldadu ponet in olvidu
chi su soldadu det essere umanu.
Ma è proprio il periodo di arruolamento nell’arma quello in cui Peppino Mereu acquisisce una forte consapevolezza sociale, forse grazie ai contatti con le miserie umane della Sardegna di allora, una prossimità che lo vede, suo malgrado, testimone e protagonista impotente. Attraverso le sue poesie, ci fa pervenire passionali e temerari versi, quasi un invito alla rivolta contro le ingiustizie ed i patimenti del popolo sardo. In qualche strofa chiama in causa proprio i carabinieri, a testimoniare che la Benemerita non era, in quei tempi evidentemente, un grande esempio di giustizia.3
Deo no isco sos carabineris
in logu nostru proite bi sune
E no arrestant sos bagarruteris
Nella stessa poesia del 1892, dedicata all’amico Nanni Sulis, sembra insita la consapevolezza del poeta - carabiniere di due diversi “modelli” di giustizia, una severa per i poveri ed una tollerante o assente per i furbi e potenti:
Viles ch’ant meritadu sa cadena
Sa giustissia puru hana trampadu
Gai s’ant infrancadu d’ogni pena
Mentre chi unu poveru appretadu
Furat pro s’appittitu unu cogone
Lu ides arrestadu e cundannadu
Su famidu chi furat un’anzone
est cundannadu dae sos giurados
fin’a degh’annos de reclusione
E narrer chi b’at palattos fraigados
dae sa man’infame e sa rapina
sos meres ladros sunt pius amados…
Sempre dalla stessa poesia è facile dedurre che, idealmente, Mereu aderisce al nascente socialismo utopistico, dove trova motivo di speranza e di riscatto sociale. Tale corrente di pensiero e di azione è rappresentata in Sardegna dal giovane militante Jagu Siotto, studente universitario di Orani. Siotto, attivissimo in quegli anni, è per un breve periodo nel 1889, redattore del giornale “La Volontà”, che ebbe solo un paio di mesi di vita, ed in seguito, nel 1901 fonda un periodico chiamato “La Lega”. Tanto basta per far sì che Peppino Mereu si entusiasmi e ne predichi un verbo che pare essere un vera apologia alla sovversione politica e un appello a favore della giustizia sociale:
Tottu sos poverittos sun mandrones
pro sos atatos ca no hant connotu
famine affannos e afflissiones
Ma si si averat cussu terremotu
su chi Jagu Siotto est preighende
puru sa poveres’at aer votu
Happ’a bider dolentes esclamende
mea culpa sos viles prinzipales
palatos e terrinos dividende
Senza distinziones coriales
devimus esser, fizzos de un’insigna
liberos rispettados uguales
Mereu non sembra, nelle sue esternazioni poetiche, tenere in alcun conto la divisa che rivestiva nè limitazioni imposte dai regolamenti della Benemerita. Questo fatto meraviglia non poco, conoscendo il controllo ferreo dell’Arma sui propri militi, che arruolava solo dopo approfondite informative favorevoli, vegliando costantemente sulla loro fedeltà assoluta, e interferendo pesantemente anche nella vita sentimentale dei suoi Carabinieri, che erano obbligati ad avere il nulla osta dai propri superiori anche per sposarsi.
Stupisce pertanto, per quei tempi, il suo azzardo di pensiero, considerando i contenuti del messaggio politico che nessun altro poeta sardo prima di allora ci avasse mai trasmesso.
Gli ultimi anni trascorsi con la divisa, poco prima che una grave malattia lo portasse al congedo anticipato e alla morte poi, il carabiniere Mereu li passa in alcune sedi del nord Sardegna, tra cui Codrongianos ed Osilo. E’ in quella circostanza che entra in contatto con Genesio Lamberti, maestro educatore laico, al quale dedica una bellissima ed interessante composizione poetica. Genesio Lamberti, nato a Tempio nel 1859, era stato, tra l’altro, direttore del giornale “Le Bocche di Bonifacio di S.Teresa Gallura”. Dopo varie esperienze, in diverse parti della Sardegna, approda a Osilo nell’anno 1892, assunto, col voto unanime del Consiglio Municipale caldeggiato dall’allora provveditore scolastico Delogu, per dirigere ed organizzarvi le nuove scuole elementari, probabilmente in attuazione della legge Coppino del 1877 riguardo l’istruzione obbligatoria, ancora disattesa in molti centri della Sardegna. Tre anni dopo il suo arrivo, Osilo vantava il primo caseggiato scolastico, che un’inchiesta del tempo, per conto della società editrice Dante Alighieri, classifica come:”Non inferiore ad edifici scolastici costruiti a Torino e Milano”4.
Il Maestro riuscì molto bene nel suo intento, tanto che non mancarono attestati di stima e riconoscimenti pubblici anche da parte del Superiore Ministero, che, in seguito, lo nominò Benemerito con l’attribuzione della medaglia d’oro. Proseguendo nella sua missione di educatore, constatata la scarsa frequenza scolastica da parte dei ragazzi, riuscì a fondare, sempre a Osilo, la Società di Mutuo Soccorso, con l’intento di avvicinare gli operai e i contadini e convincerli dell’importanza di mandare i propri figli a scuola.
Peppino Mereu coglie l’ansia ed il significato dell’opera di Genesio Lamberti in una poesia datata Osilo 7 maggio 1895, viscerale e istintiva, ove il poeta esprime i suoi dubbi, senza trovare la pace, circa la capacità dei sardi, di operare per una positiva trasformazione sociale della loro realtà. Rimane, nel contesto un documento sempre attuale con una grande carica umana che irrompe sin dalle prime ottave, con i sogni svaniti del suo credo, con una lirica dolce e disperata, una voce che si alza dal silenzio della passività, sempre senza rassegnazione:
Ue che sezis dados,
o sognos de amore,
o penseris de gloria? Distruttos
sezis e calpestados
dae su giustu rancore
chi proat custu coro: sognos bruttos
mi turbant s’intellettu
e isparghent velenu intro su pettu.
…ite cosa est su mundu
in su cale vivimus,
privos de lughe, amore e libertade?
Unu mare est, prufundu;
da-e cando naschimus
bi navigamus. Cun felizidade?
No: pro chi parzat gai,
felizidade no nde’esistit mai.
E sos abitadores
de sa terr’ ite sune?
Terra fang’ischifosu, no sun terra.
Tristas faccias de funes:
sos frades a sos frades faghent gherra.
E in sa terr’intantu
aumentat s’infamia e su piantu.
Vivimus avvilidos
in custa tenebrosa badde ingrata de ais e de ois.
Sutta sos fioridos campos
sa velenosa arza bomind’est, su velenu
e nois genia poveretta
rittinimus su gridu e sa vinditta.
Poi continua, forte e diretta, la sua rabbia argomentata, la sua esortazione, quasi un’arringa contro un popolo impotente e pavido, ove lui stesso si immedesima e al quale la sua poesia sembra negare il diritto di cittadinanza in questo mondo:
Ah perfida genia!
Proite ti lassa tinghere
su cor’a luttu? Ischida e faghe prou.
O forsi villania
no ti paret su lingher
s’ispada tinta de su sambene tou?
Su cane a orulare,
s’arzat si no li dana a mandigare
E tue senza pane,
istancu famidu e nudu
no alzas de disdign’una protesta!
Ses peus de su cane,
vile servis e mudu:
linghes sa manu ingrata e faghes festa
a chie ti deridet,
cando pedinde,
a manu tesa t’idet
De su grassu sarau
chi sos riccos segnores
faghent a palas tuas, cun fastizos,
populu ses isciau,
fadigas e sudores
cunsacras pro caprizios e disizos
de cussa zente ischiva,
e tue famidu gridas: viva evviva!
Viva chie su punzu
ponet in su siddadu
de su sambene tou pius ardente.
Su pane senza aunzu
si nd’has, avvelenadu
lu pappas, ca ses dannadu eternamente
a vivere in s’ischifezza,
famidu umiliadu e postu in beffa.
O populu famidu
da-e te cazz’addane
su pan’ ispel, iscudel’ a baleu.
Su coldol’induridu
chi mandigas pro pane
halzalu minaciosu’in cara’a Deu
e cun disdignu in s’aera
l’imbolas custa triste preghiera.
A questo punto si rivolge a Dio, affinché dia uno sguardo pietoso e faccia scendere la sua ira terribille contro l’ingiustizia umana e contro i rettili che strisciano, senza ascoltare la pietosa intercessione di Maria. Poi riprende la sua drammatica arringa:
Ma tue populu, finghes
de protestar’ e times:
de pedire su tou birgonzosu.
A chie t’opprimet linghes,
de islancios sublimes
ses incapace zeghu e sonnigrosu
si no si fit intesu
su gridu e vinditta de s’offesu.
Cagliadi, det sighire
S’infamia. Sa festa
faghes a chie de sa frusta est dignu.
Prefersi su pedire
a una giusta protesta
chi podes immolare cun disdignu.
Ti negana su pane
e tue dae sa patri andas addane.’
Nella parte finale di questa poesia il poeta parla della morte ed anche dell’ipocrisia umana di fronte alla morte. Cita Petrarca “cosa buona mortal passa e non dura”, quasi un presagio per la malattia che sentiva sempre più incombente. Infatti la successiva poesia la dedica al fratello, scrivendo dall’ospedale presidiario di Sassari mentre già rimpiange i tempi andati:
T’ammentas caru frade, cantu forte,
allegr’ e sanu fia in pizinnia?
Odiende sa morte
de solas isperanzias vivia.
Oe cuss’allegria s’est partida
annientad’est cuddu coro forte
manchendem’est sa vida
pro cunfortu giamende so sa morte.
T’ammentas caru frade, sos jucundos
Sorrisos amorosos chena pena?
Cuddos pilos biundos
chi m’abbasciant a sa nazarena?
Zessados sos incantos risulanos, oscurad’ est
S’allegra fantasia.
Como sunt pilos canos
Chi coronant s’istanca fronte mia.
Nel suo corto ma intenso percorso poetico il poeta tocca diversi temi che sono tuttora di grande attualità, primo fra tutti quello che oggi chiameremmo ecologico o ambientalista.
Nella poesia a Zuanne Sulis abbiamo una diretta e drammatica testimonianza riferita al disastro ambientale causato dal taglio indiscriminato di piante da parte del governo centrale, che ha compromesso per sempre l’ecosistema allora esistente in Sardegna.5
Su jardinu su campu e s’olivariu
d’unu tempus antigu s’est mudadu
in d’unu trist’ispinosu calvariu
Buscos chi mai b’haiat intradu
rajos de sole, miseras sacchettas
hant bestidu e su log’hant ispozzadu
Arvures chi pariant pinnettas
pro ingrassare su continentale
hant leadu undas e marettas.
Inue tottue est passada s’istrale
pro seculos e seculos de zertu
si det bider funestu su sinnale…
Ecco allora arriva dal poeta, puntuale e dolorosa l’imprecazione, come nella tradizione sarda di fronte all’impotenza , contro i responsabili e i complici di questa rapina:
Vile su chi sa Gianna hat abertu
a s’istranzu pro benner cun sa serra
fagher de custu logu unu desertu.
Sos vandalos cun briga e cuntierra
benint da-e lontanu a si partire
sos fruttos, da chi brujant sa terra.
Da quanto che si è cercato di analizzare sino a questo momento potrebbe scaturire la convinzione che ci si trova davanti ad un poeta solo arrabbiato, cosa assolutamente non vera, perché nell’insieme delle sue poesie si riscontra l’anima popolare con varie stagioni poetiche, e prima fra tutte quella umoristica.
Rileggendo alcune delle sue poesie si capisce chiaramente che Mereu si divertiva, e che divertiva gli altri, integrato perfettamente con la vitalità della sua terra, Danno irreparabile non solo agli effetti idrografici e per l’economia in generale, ma pure per i riflessi climatici e l’estensione della malaria.” scherzava spesso alle spalle dei potenti, mettendo in ridicolo le loro contraddizioni e le loro miserie con una satira straordinaria.
Un esempio di questa satira sottile e tagliente sta in “Lamentos de unu nobile” che racconta le vicissitudini del nobile di allora che rimpiange il passato benessere. Il lamento sta nei tempi, che sembrano non risparmiare nessuno ove anche il bastone della distinzione e del prestigio viene usato per acchiappare le cicche per strada..
In illo tempore
cando tenia
richesas, benes
e nobilia,
pappai petta
petta ‘ e vitellu,
frisca freschissima
dae su masellu.
Oe mi cumtento
de pan’e casu,
cando bin’appo,
e binu a rasu.
E tra parentis,
gai pro cullunu,
mi narant martire
de su digiunu……….
Oe sa superbia,
no est de mundu;
sos pantalones
no giughent fundu.
Sa bacchettina
de sas pius riccas,
s’est cunvertida
in ciappaciccas…
Torradu a domo
po pius dolore,
m’ido sa visita
de s’esattore.
Dendemi titolos
de unu nobile
mi ettat cara
ricchezza mobile.
Eo li rispondo
in tonu affabile:
richesa mobile
miseria stabile….
Anche il clero con le sue furbizie, le incongruenze, spesso in contrasto con i dettami del Vangelo, era spesso e volentieri bersaglio di vere e proprie requisitorie poetiche. In molti casi era canzonato con poesie umoristiche, come in “Su canarinu de su Rettore”:
Su burriccu chi tenet su rettore
non meritat sa fama de molente,
est a corinnos che un’accidente,
invidio su sou bonumore.
Cantende su manzanu il ”la” maggiore
no est nudda a su mere differente,
parent bessidos dae tott’una bentre
differenziat solu su colore…
E ancora in “Cunfessende”:
Cunfessore:
Creder in sognos no permittit Deu
Ca est gravissimu peccau mortale.
Penitente:
Mi so bisadu, su rettore meu,
nacchi l’aiant fattu cardinale,
crettidu l’hapo e mi nde fatto reu
ca su sonnu mi est parfidu reale.
Confessore:
Cando passat in mente nettu e giaru
Su sognu est avvisu, o fizu caru.
In tempi di carestia, che cosa c’è di meglio che fare la serenata a pancia vuota e associare l’amorosa alle brame gastronomiche? Ecco allora:
Serenada:
Aiz’ aiz arrustida
tue ses modde bistecca,
tue ses pro me busecca
sa pius bene cundida
ses taccula saborida
mostarda grassa e purpuda,
ses una gioga minuta,
un’iscarzoffa un’olia,
una vera trattalia
pro fagher buffare mustu.
Cosa pius bella e gustu
non nde potto desizare.
Pensa bella, a t’ingrassare,
dormi tranquilla e cuntenta
faghes sonnos de pulenta,
de basolu e de patata.
Custa bella serenata
l’hat fatta s’amante tou;
amadu caffè cun ou,
pensa de ti riposare.
Nei paesi in quei tempi anche se c’erano, non esistevano eroi; persone con straordinarie vicissitudini spesso si smitizzavano da soli con la loro stessa semplicità, ma diventavano protagonisti per la maniera colorata di raccontare i loro fatti drammatici e lontani, facendo sorridere i propri compaesani:
<<Ebbè come la va, Signor Francesco
nesit predu passende in su caminu.>>
<<Semus a s’oritonte e su destinu
vieni, figlioccio che prendiamo il fresco.
Ti voglio raccontare, se ci riesco,
comente fit sa guerra a Solferinu
si no pregunta a frade meu Peppinu
come fuggì l’esercito tedesco.
La notte che ci avevano attaccati
zunchiavano le balle sulla testa
come fanno i calleddi appena nati.
C’era un calore che nel mio termometro
Il mercurio bolliva e la tempesta
Del fuoco si sentiva a un centimetro.
La poesia “Nanneddu meu” è forse la più popolare, perché è stata di recente musicata con successo ed è inserita nel repertorio di canto di tutti i gruppi che si dedicano alla musica etnica in Sardegna. Si tratta di un bellissimo canto, con il necessario opportunismo e umorismo triste, dove denunce e riferimenti sono ben indirizzati. Una maniera di scherzare anche nelle disgrazie in un mondo in progressiva mutazione, al quale nostro malgrado, sembra voler dire il poeta, ci si deve gioco -forza adeguare, per poter andare avanti nel nostro cammino.
Nanneddu meu
Su mund’ est gai,
a sicut erat
non torrat mai
Semus in tempos
de tirannias
infamidades
e carestias
Famidos nois
Semus appende.
Pan’e castanza,
terra cun lande
Terra ch’hat fangu
torrat su poveru
senz’alimentu,
senza ricoveru….…
e finisce:
AdiosuNanni
tenedi contu,
faghe su surdu
ettad’ a tontu
A tantu, l’ides,
su mund’est gai:
a sicut erat
no torrat mai.
In alcune poesie, tra cui quella a “Nanneddu meu” e “Lamentos de unu nobile” sono evidenti, importanti avvenimenti storici, come la guerra doganale tra Italia e Francia, voluta dai Savoia, con l’intento di salvaguardare le industrie del nord, messe in crisi da una agguerrita concorrenza transalpina. Tale politica fu però deleteria per l’economia isolana. Infatti la Sardegna anni prima, a fatica, era riuscita, nonostante gli alti costi di trasporto, ad aggirare il monopolio dei commercianti italiani e ad aprirsi un credito per il collocamento delle proprie merci nei mercati europei, attraverso il porto di Marsiglia.
L’economia iniziava a decollare, si esportava bestiame , formaggio, olio, e vino, in modo particolare verso Francia, Inghilterra e Belgio, nascevano nuove imprese e si aprivano sportelli bancari.6
La Sardegna aveva veramente tanto da tribolare, se si aggiunge a quanto citato tutta una serie di calamità naturali che il poeta ci racconta:
…B’est sa fillossera,
impostas, tinzas
chi nos distruit
campos e binzas….
…Sa perenospera
tottu hat distruttu,
binzas e campos
no dant produtu…
Credo non si possa parlare di Peppino Mereu nel giusto verso, se non si fanno cantare le sue poesie, se non si ha la capacità di ascoltare il ritmo delle rime, seguire la fantasia delle sue liriche, il filo sottile, talvolta drammatico, a volte dolce o ironico, con il quale lega il pensiero ai fatti. E il dramma di un ragazzo poco più che ventenne, che con la poesia fa cronaca in diretta della sua morte con il travaglio della sua agonia.
Il rapporto del poeta con la sua terra è estremamente profondo, sembrano quasi un binomio inscindibile, che mai, nemmeno nei contrasti più forti o nella sofferenza, viene messo in discussione. E così dolci canti arrivano da lontano:
Gentile Tonara,
terra de musas, santa e beneita,
patria mia cara,
cand’est chi b’hap’ a bennere in bisita?
E ancora… la nostalgia struggente:
Ah dura lontananza,
a sa chi m’hat sa sorte cundannadu.
Mi enit s’arregordanzia
De unu tempus ispensieradu,
s’onesta comunanza
de amigos chi hapo abbandonadu;
mi torrat a sa mente
unu tempus passadu allegramente.
Rientrato a Tonara dopo il congedo, Peppino Mereu convive per un certo periodo con il fratello Manfredi, impiegato presso le poste del paese, ma la convivenza si rivela difficile e dopo poco tempo si trasferisce a “Muragheri” poco distante da Galusè.6 “Galusè è il titolo di un altro capolavoro di Mereu, ma è anche una fontana che scorre tra castagni e noccioli, un poco sopra Tonara. E’ il punto di ristoro “su pasu” per tutti, e dove:
Tottu sunt uguales,
inoghe nemos vantant sos blasones.
Bacculos pastorales
s’aunint a ispadas e bastones.
Tottu parent fedales
sas bezzas cun sas giovines persones,
bezzones e battias
torrant piseddos a sas abbas mias.
E’ la fontana di Galusè, testimone delle allegrie, delle miserie umane, alla quale il poeta dà voce, e la fontana si presenta e parla a una fanciulla immaginaria, che, per lui, certamente aveva il volto di una persona amata5:
Eo so Galusè,
logu delissiosu de incantu.
Firm’inocghe su pè
o passizerri custu est loghu santu:
deo confido in te;
cert’has a currer a mi dare vantu
cun bellas cumpagnias
a t’infriscare de sas abbas mias.
Umil’ in custa rocca
mai de murmurare appo zessadu,
Bentu frittu e fiocca
hana sa venas mias astragadu,
mai però sa brocca
hat su nettaru sou irmentugadu;
pedidu m’hat continu
sos bundantes umores ch’appo in sinu.
Ancoras e in dies
no mi mancant dulzuras e bisittas.
Tottu current a mie,
e si consolant cun sas abbas frittas,
e deo, rie rie,
contento broccas mannas e brocchittas.
Da-e custas frittas venas
Sempere partine sas broccas pienas.
La fontana che sente, ma non vede per l’oscurità, le cose che non devono essere viste, l’allusione alle capriole col corpetto, (Crabolas in paletta de fagher meraviglia e ispantu e atteras suzzettas incarezzadas de nieddu mantu) le donne più santarelle che si bagnano le labbra arse, la fontana complice omertosa che rimanda ad una fila di puntini…7
E’ sempre la fontana, il centro di ristoro e del canto, il punto ideale per appianare le divergenze, e il luogo dove vanno a:
Faghes paghe sos contrarios.
Il luogo di ritrovo per spie e commissari di pubblica sicurezza, dove possono accordarsi e perfezionare le loro trame occulte; con il delitto che fa l’occhiolino alla giustizia.
E’ il posto dove, nel momento cruciale del voto, si tiene il famoso pranzo elettorale, con i maccheroni ingurgitati da bocche fameliche, mescolati e conditi da promesse che non si compiranno mai.
Alla fine del dialogo ecco il riferimento autobiografico: la fontana chiede alla ragazza notizie di un giovane pallido
e magro, del quale oramai da tempo non aveva nessuna notizia, tanto da avere il sospetto che fosse morto.
Un’epoca beniat
unu giovanu pallidu e romasu.
Inoghe invocaiat
Sas noe virginellas de Parnasu
afflittu pianghiat
e mentres m’imprimiat unu basu,
misciaiat amaras
lagrimas a sas mias abbas giaras.
In questa breve escursione lungo il canto di Peppino Mereu, il tempo ha scandito le sue regole e ci ha fatto percorrere le sue poesie con inevitabili saltelli, come i canguri, con il rimpianto di averne tralasciate tante, tutte meritevoli di menzione.
Ma conviene ancora fare un riferimento ai rapporti del poeta con le donne. Molti dolci versi sono dedicati alle donne, con nomi che fanno parte della lirica tradizionale sarda: una rosa, una viola, s’ amabile fiore, rosa ses cun su lizu, s’ anzone chi tenia o nomi convenzionali come: Lia cara o cudda candida Maria.
Nelle poesie il rapporto con le sue donne raramente è contemplativo, statico o descrittivo, ma si inquadra nel contesto di un’azione o una storia, incrociandosi con il cammino delle sue sventure o dei suoi rimpianti.
Nella poesia titolata ”Amore”, ad esempio, egli canta:
Beni dami sa manu isfortunadu
Tue ses dignu de s’istima mia;
lottende in d’unu mar’ e angustia
custu virgine cor’has meritadu
E in “adiu a Nuoro” recita:
…cale orfanu fitzu isconsoladu
passo sas dies cun su cor’affrantu
suspirende a Nuoro profumadu,
giardinu d’ una rosa ch’amo tantu.
Sempre in riferimento al tema del rapporto con l’altro sesso , nel libro”Vecchia Florinas”,8 c’è una curiosa storia, che, a mio modesto avviso non ha avuto il giusto rilievo e che ha per titolo “Il poeta e la ragazza”.In quella sede si racconta che Giuseppe Mereu poeta carabiniere di stanza nella stazione di Codrongianos, amoreggiava con una certa Maria Domenica, secondogenita di cinque figlie, di Giovanni Dore. Questi, proprietario di due mulini, uno a Florinas e l’altro in una impervia località di campagna chiamata Briai, quando scoprì le simpatia che correva tra i due giovani non ebbe di meglio da fare che confinare la figlia nel mulino di campagna, sotto la vigile sorveglianza di una zia. Racconta il Manconi che Maria Domenica fu accompagnata dal padre a cavallo e lei a piedi, dietro, scalza e a testa bassa.
Giuseppe Mereu non si dava pace e appena poteva, servizio permettendolo, andava verso il mulino di Briai per cercare di intravedere anche da lontano la sua innamorata. Manifestando tutto l’ardore dei suoi vent’anni, non pago delle visite di giorno, cercò il contatto con la sua amorosa anche di notte. Una notte oscura passando in quel luogo impervio sbadatamente, il poeta scivolò e finì nel fiume infradiciandosi fin dentro il midollo delle ossa. Maria Domenica dopo poco tempo rientrò a Florinas col padre disposto ad accettare, anche dietro pressioni del parentado, il fidanzamento della figlia con il giovane carabiniere tonarese. Racconta sempre il Manconi che ci fu una breve corrispondenza di lettere e poesie inedite conservate sino a qualche anno prima.
Nel frattempo, la caduta nel fiume la trascuratezza del poeta stesso l’imperizia dei medici tramutò una banale infreddatura in qualche cosa di molto più serio. Per causa di questo fatto, e concordemente, il fidanzamento fu sciolto, a causa della sua malattia e, sempre secondo il documento citato, il poeta ritornò nella nativa Tonara, ad aspettarvi la morte. Maria Domenica Dore per diversi anni rifiutò qualsiasi proposta di matrimonio; infine cedette alle pressioni della famiglia e si sposò. Mori anche lei a causa di un male incurabile nell’anno 1918 e volle essere sepolta con il costume tradizionale che aveva usato il giorno del suo matrimonio.
E’ questa una storia abbastanza interessante, ma la cosa più curiosa è che a raccontarla, con una grande delicatezza e tenerezza, è il figlio di Maria Domenica Dore, che probabilmente per avere notizie così dettagliate e minuziose ha attinto dalla memoria e dai i ricordi delle sue zie.
Giuseppe Mereu moriva a Tonara il giorno 11 marzo del 1901 all’età di soli ventinove anni. Nell’ultima poesia testamento il poeta descrive con fredda lucidità il suo funerale, rifiutando il prete i pianti e le parole inutili e ipocrite:
E nessunu pro me ispendat peraulas
In laudare comente bind’ada
Chi finzas in sa fossa narant faulas.
Poi… due strofe ci riportano inevitabilmente alla storia con Maria Domenica Dore. Il poeta accenna a due ritratti conservati in una busta, il cui sigillo non deve essere profanato, uno è della mamma fatto il giorno della sepoltura,
s’atteru est de s’anzone chi tenia
in coro, cun amore tantu forte
chi m’hat leadu vida e pizzinnia.
De cuss’amore nde tenzo sa morte
a s’ora de sa vida sa pius bella.
Ah ! Decretu fatale e dura sorte!
Stefano Flore
Versione italiana delle poesie di Peppinu Mereu
N: 29 Quaderni bolotanesi. Pag. 400
“Dall’alto nuraghe
con supremo disgusto mi meraviglio del tuo ardire.
Lascia dormire in pace
il sonno di quel giusto
che ha avuto fama di grandissimo poeta.
L’insulto è molto grave,
aver turbato la soave
armonia dei sogni di Larentu”…
Versione italiana delle poesie di Peppinu Mereu
N: 29 Quaderni bolotanesi. Pag. 401
Alcuni sono nella compagnia di disciplina:
la scure di Fonni ha fatto scorrere il sangue,
sia baciata la mano assassina.
Non meravigliarti della contentezza
che dimostro nel baciare quella mano
che ha punito severamente la viltà.
Peggio per chi è di cuore villano
e si scorda quando è soldato
che il soldato deve essere umano.
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Io non riesco a capire, i carabinieri
che cosa stiano a fare nei nostri paesi
se non arrestano i bancarottieri.
------------------------------------------
I vigliacchi che hanno meritato le catene,
hanno truffato la legge,
così si sono salvati da qualsiasi pena.
Versione italiana delle poesie di Peppinu Mereu
N: 29 Quaderni bolotanesi. Pag. 402
Mentre il povero sospinto dalla necessità
ruba un pezzo di pane per sfamarsi
viene arrestato e condannato.
L’affamato che ruba un agnello
viene condannato dai giudici
perfino a dieci anni di reclusione.
E dire che esistono palazzi costruiti
dalla mano infame della rapina:
e i padroni ladri sono i più stimati.
----------------------------------------
Tutti i poveri sono fannulloni
per i sazi che non hanno conosciuto
la fame gli affanni e i sacrifici.
Ma se si realizza quel terremoto
che Jago Siotto va predicando
anche la povera gente avrà diritto di voto.
Potrò vedere dolenti esclamare
<mea culpa>, i vili padroni
mentre verranno divisi palazzi e terreni.
Senza distinzioni curiali
dobbiamo essere figli della stessa bandiera:
liberi rispettati e uguali.
Versione italiana delle poesie di Peppinu Mereu
N: 29 Quaderni bolotanesi. Pag. 403
Dove siete finiti,
sogni di amore,
pensieri di gloria? Distrutti
siete e calpestati
da un giusto rancore
che questo cuore sente: brutti sogni
Versione italiana delle poesie di Peppinu Mereu
N: 29 Quaderni bolotanesi. Pag. 404
turbano la mia mente
e spargono veleno dentro il petto.
…che cosa è il mondo
nel quale viviamo
privi di luce amore e libertà?
E un mare profondo,
dal momento della nascita ci navighiamo. Con felicità?
No: anche se così può sembrare,
la felicità non esiste mai
E gli abitanti della terra cosa sono?
Terra: fango schifoso, non sono terra.
Rettili facce da patibolo:
i fratelli fanno la guerra ai fratelli.
E intanto sulla terra
aumentano l’infamia ed il pianto.
Viviamo avviliti
in questa tenebrosa
e ingrata valle di lamenti.
Sotto i fioriti
campi, la velenosa
tarantola sta vomitando veleno, e noi
generazione miserabile
tratteniamo il grido della vendetta!
------------------------------------------
Ah, perfida generazione!
Perché ti lasci tingere
il cuore a lutto? Svegliati, agisci.
O forse viltà
no ti sembra leccare
la spada colorata del tuo sangue?
Il cane ulula
se non gli danno da mangiare.
E tu, senza pane
stanco affamato e nudo,
non sollevi una protesta di sdegno!
Versione italiana delle poesie di Peppinu Mereu
N: 29 Quaderni bolotanesi. Pag. 405
Sei peggio del cane,
vile servente e zitto:
lecchi la mano ingrata e fai festa
a chi ti deride
quando ti vede mendicare con la mano tesa.
Dei grassi banchetti
che i ricchi signori
fanno con grandi sperperi alle tue spalle,
popolo sei oppresso
fatiche e sudori
consacri per i capricci e i desideri
di quella gente schifosa
e tu affamato gridi: <Viva! Evviva!>
Viva chi il pugno
mette nel forziere
del tuo sangue più ardente.
Il pane senza companatico,
se ne hai, avvelenato
lo mangi perché sei dannato eternamente
a vivere nell’immondezza
affamato, umiliato e posto in ridicolo.
O popolo affamato,
da te allontana
il pane di ghiande, lancialo lontano.
Quella corteccia indurita
che mangi al posto del pane,
alzala minacciosa verso Dio:
con disdegno, nell’aria
scaglia questa triste preghiera….
Versione italiana delle poesie di Peppinu Mereu
N: 29 Quaderni bolotanesi. Pag. 406
Il giardino, il campo l’oliveto
di un tempo lontano, si sono trasformati
in un calvario triste e spinoso.
Boschi dove mai erano penetrati
i raggi del sole, miseri sacchetti
hanno riempito, ed hanno spogliato il suolo.[1]
Alberi grossi come Pinnettas[2]
per ingrassare il continentale,
hanno affrontato le onde e le tempeste.
Ovunque sia passata la scure
per secoli e secoli di certo
si vedrà una traccia funesta.
---------------------------------
Vile colui che a aperto la porta
al forestiero perché venisse con la sega
e facesse di questo posto un deserto.
I vandali, con prepotenza e contese,
vengono da lontano per spartirsi
i frutti, dopo aver bruciato la terra.
Versione italiana delle poesie di Peppinu Mereu
N: 29 Quaderni bolotanesi. Pag. 407
In illo tempore
quando avevo
ricchezze, beni
e nobiltà
mangiavo carne,
carne di vitello,
fresca freschissima
presa dal macello
Oggi mi accontento
di pane e formaggio
quando ne ho,
e vino a razione.
E, tra parentis
un pò per scherzo
mi chiamano martire
del digiunare…
Oggi la superbia
non è di mondo
i pantaloni
sono senza fondo
La bacchettina
delle più pregiate
si e trasformata
in acchiappa cicche….
Tornato a casa
per maggior dolore
trovo la visita
dell’esattore
Versione italiana delle poesie di Peppinu Mereu
N: 29 Quaderni bolotanesi. Pag. 408
Dandomi titoli
di ricco e nobile
mi notifica in faccia
ricchezza mobile
Io gli rispondo
con tono affabile
ricchezza mobile
miseria stabile.
-----------------
Il somaro che ha il parroco
non merita la fama di asino
raglia sempre come un accidente
invidio il suo buon umore
Cantando il mattino in “la” maggiore
non è per niente diverso dal padrone
sembrano usciti dallo stesso grembo
anche se sono differenti nel colore.
---------------------------------------
Appena appena arrostita
tu sei una tenera bistecca,
tu sei per me la trippa,
quella meglio condita.
sei una taccola squisita,
mostarda grassa e polposa,
sei una lumachina,
un carciofo, un oliva,
una vera frattaglia
per fare bere vino.
Cosa più bella e gustosa
non potrei desiderare.
Versione italiana delle poesie di Peppinu Mereu
N: 29 Quaderni bolotanesi. Pag. 409
Cerca, cara, di ingrassare,
dormi serena e contenta;
fai sogni di polenta,
di fagioli e di patate.
Questa bella serenata
l’ha fatta il tuo amante,
amato caffè con uovo,
cerca di riposare.
---------------------------
<Ebbè, come la va, Signor Francesco?
Disse Pietro passando per la strada.
Siamo giunti all’orizzonte del destino:
vieni figlioccio che prendiamo il fresco.
Ti voglio raccontar, se ci riesco
come fu la guerra a solforino,
altrimenti chiedi a mio fratello Peppino
come fuggi l’esercito tedesco.
La notte che ci avevano attaccati
fischiavano le palle sulla testa
come fossero cuccioli appena nati.
C’era un calore che nel mio termometro
il mercurio bolliva e la tempesta
del fuoco si sentiva a un centimetro.
Versione italiana delle poesie di Peppinu Mereu
N: 29 Quaderni bolotanesi. Pag. 410
Nanneddu mio,
cosi va il mondo:
come era un tempo
non sarà più.
Viviamo tempi
di tirannia,
tanti soprusi
e carestia…
E noi, affamati,
mangiamo
pane di castagne,
terra con ghiande.
Terra con fango
ritorna il povero
senza alimenti
senza ricovero…
Addio, Nanni,
conservati bene
fai il sordo
e fingiti scemo.
Intanto lo vedi
così va il mondo:
come era un tempo
non ritornerà più.
Versione italiana delle poesie di Peppinu Mereu
N: 29 Quaderni bolotanesi. Pag. 411
C’è la filossera
imposte e pesti
che ci distrutto
campi e vigne
La perenospera
tutto ha distrutto
vigne e campi
non danno prodotto
-----------------------
Gentile Tonara,
terra di muse, santa e benedetta,
patria mia cara
quand’è che tornerò a farti visita…
Versione italiana delle poesie di Peppinu Mereu
N: 29 Quaderni bolotanesi. Pag. 412
Tutti sono uguali,
qui nessuno vanta blasoni.
Bacoli pastorali
si uniscono a spade e bastoni.
Tutti sembrano coetanei:
Le persone vecchie e quelle giovani,
vecchietti e vedove
nelle mie acque ritornano bambini.
Io sono Galusè
luogo delizioso e incantevole.
Ferma qui, il tuo piede
ho passeggero, questo è un luogo santo
io confido in te,
certo che verrai a farmi vanto,
con belle compagnie,
a ristorarti nelle mie acque.
Umile in questa roccia
non ho mai smesso di gorgogliare;
il vento freddo e la neve
hanno raggelato le mie vene,
la brocca però non ha mai scordato il suo nettare;
e mi ha chiesto di continuo
gli umori abbondanti che ho nel seno.
Ancora oggi non mi mancano tenerezze e visite.
Tutti vengono a me
e si consolano delle mie acque fredde,
Versione italiana delle poesie di Peppinu Mereu
N: 29 Quaderni bolotanesi. Pag. 413
ed io sorridendo
riempio brocche grandi e piccole.
Da queste fresche vene
le brocche vanno via sempre piene.
-----------------------------------------
Vieni e dammi la mano sfortunato
tu sei degno della mia stima;
lottando in mare di angoscia
hai meritato questo vergine cuore
Versione italiana delle poesie di Peppinu Mereu
N: 29 Quaderni bolotanesi. Pag. 415
E nessuno per me sprechi parole
per gli elogi, come fanno molti
che anche nella tomba dicono bugie
-------------------------------------
…l’altro è dell’agnello che avevo
nel cuore, un amore tanto forte,
che mi ha rubato vita e gioventù.
Di quell’amore ne ho la morte
nell’ora più bella della vita.
Ha destino fatale e dura sorte!
“Canta canta continuamente,
o patria di Larentu e di Capeddu;
sei il giardino delle muse
cara a Tommaso e Bachiseddu;
ti rallegra Agostino perché possiede la parola bernesca,
con la musa burlesca
si dimostra il degno figlio di Peppe Diana”.
Ma tu popolo, fingi
di protestare e ai paura
di chiedere i tuoi elementari bisogni.
Lecchi chi ti opprime
e di slanci sublimi
sei incapace, ceco e assonnato
altrimenti si sarebbe sentito
il grido di vendetta dell’offeso.
Taci, deve continuare
l’oppressione. Fai festa
a chi è degno della frusta.
Preferisci mendicare
ad una giusta protesta,
che puoi scagliare con disprezzo.
Ti negano il pane,
e tu dalla patria vai lontano.
Ti ricordi, caro fratello, come forte
allegro e sano ero da ragazzo.
Odiavo la morte
e vivevo di sole speranze.
Oggi quell’allegria è scomparsa,
quel cuore forte sta cedendo:
sta venendo meno la vita,
per sollievo sto invocando la morte.
Ricordi caro fratello, i giocosi
sorrisi amorosi senza pena?
Quei capelli biondi
che si abbassavano alla nazarena?
Finiti i dolci sogni ridanciani, si è oscurata
l’allegra fantasia.
Ora sono capelli bianchi
che ornano la mia testa stanca.
Confessore:
Dio no permette si creda nei sogni
perché è un gravissimo peccato mortale
Penitente:
Mi sono sognato mio caro parroco
che ti avevano nominato cardinale.
Ci ho creduto e me ne faccio colpa
perché il sogno mi è sembrato reale
Quando passa in mente in modo netto e chiaro
il sogno è un preavviso o figlio caro.
ed io sorridendo
riempio brocche grandi e piccole.
Da queste fresche vene
le brocche vanno via sempre piene.
……Da paesi lontani
ci sono venute persone illustri,
e banchettando in festa
hanno arrostito capretti e agnelli,
e succulente leccornie:
galline, porchetti, pesci e maccheroni.
In queste acque pure
hanno smaltito solenni sbornie.
Tutti si son divertiti
dimenticando ogni contesa.
Ho visto preti
ubriachi cantando a suono di chitarra,
anzi ne ho assistito
beatamente stravaccati per terra
in braccia di una vera
solenne reverenda ubriacatura.
….Fresca , abbondante e pura,
quante feste ho visto e quanto gioco,
baci dati furtivamente,
carezze e sguardi di fuoco.
Ho sentito il giuramento
dell’amante all’amata; in questo posto,
tra canti e festini,
ho visto una fila di puntini.
Io ho visto cerbiatte venire di notte in questo luogo santo,
capriole in corpetto
da destare stupore e incanto
ed altre figure
mascherate di nero mantello:
quelle più pudiche
si sono bagnate le labbra tanto secche.
Ho sentito storie
che a raccontarle non sembrano accadute.
Cetre armoniose, Frusci di contrabbando e bisbigli;
ombre misteriose
hanno ballato a secondo dei suoni,
ed altre cose ancora
che non ho visto perché era buio.
…Mi vantano i dottori
vero rimedio per la gente stitica;
ai miei umori
viene per purgarsi la Politica.
Messeri e signori,
nell’ora tanto delicata del voto
qui, come un saturnale,
danno il famoso pranzo elettorale.
Allora i maccheroni
muoiono in bocche dote e affamate,
mescolati a discorsi
e a belle promesse mai mantenute.
Quante discussioni
ancora vive in me sono impresse!
Ma di tante parole
ho raccolto un sacco di frottole.
Alla mia aria fresca
Vengono a fare pace gli avversari.
Differenti contrasti,
preti, poliziotti e commissari
e nobili spie,
qui danno feste e divertimenti.
Qui il delitto
a fatto l’occhiolino alla giustizia.
Qui l’allegria
non veste mai l’abito della tristezza
Ho sentito Pipia
cantare a gara con l’usignolo;
l’armonia dolce
di quelle voci mi ha consolato.
Ai canti melanconici
ho risposto con soavi mormorii.
Traduzione delle poesie in sardo
Un tempo veniva
un giovane pallido e magro.
Qui invocava le nove muse del Parnaso:
afflitto piangeva,
e mentre mi dava un bacio,
mescolava le sue amare
lacrime alle mie acque chiare.
1 Collettivo “Peppino Mereu” di Tonara. Nanneddu meu “poesias de Peppinu Mereu”. Ed. Condaghes Cagliari 2001. pag.216.
2 Scrive “La Sardegna”, nella sua corrispondenza da Fonni, il 27 ottobre 1893: “Assassinato Veracchi Giovanni colpito con l’occhio della scure. Il Veracchi è una figura conosciuta, fu arrestato come complice dell’assassinio del brigadiere Bò e poi fu il primo teste di accusa e fece arrestare due persone ritenute complici nell’assassinio. Faceva una vita ritirata e per paura rincasava sempre presto e non usciva la notte”.
3 Sa giustissia ti istruat si diceva allora tra la gente comune, come pur oggi si ripete.
4 R. GORLA, Genesio Lamberti “Educatore Civile”, Tipografia e Libreria Gallizzi & C, Sassari. 1904.
5 R.CARTA RASPI. Storia della Sardegna., Mursia Milano 1961, Pag. 881 “… la vandalica distruzione dei boschi consentita per cifre irrisorie ai concessionari di miniere e soprattutto agli appaltatori del ricco patrimonio forestale che dell’isola avevano fatto un immenso braciere per ricavarne carbone vegetale. Si può avere qualche idea del disboscamento operato con i dati dell’esportazione di alcuni anni. 22.315.578 (alberi tagliati) nel 1864, 32.701.922 nel 1865, 29.177.192 nel 1896; cifre tuttavia inferiori a quelle dell’esportazione in Francia e in Spagna fra il 1876 e il 1900”. Danno irreparabile non solo agli effetti idrografici e per l’economia in generale, ma pure per i riflessi climatici e l’estensione della malaria.”
6 C.F.R. C.RASPI id, pag. 882: “Si pensi, che nell’anno 1883 furono esportati a Marsiglia via Genova 26.168 tra buoi e vitelli e i pagamenti venivano effettuati in monete d’oro (marenghi). Poi, il protezionismo del Regno Sabaudo provocò la cosiddetta guerra doganale che pregiudicò e mise in ginocchio la nostra isola per anni a venire, già mortificata da carichi fiscali esorbitanti per e tartassata da odiosi balzelli, che non davano tregua”.
6 C.F.R. Collettivo “Peppinu Mereu” di Tonara. Id. pag. 217.
7 Nella poesia sarda la metafora, il sottinteso la poesia cosiddetta in “suspu” spesso si respira tra le rime. le allusioni e i doppi sensi, che, in alcuni casi sono evidenti, a volte bisogna saperli cogliere come in es. Cuntento broccas mannas e brocchittas, riferimento probabile ai seni delle donne.
8 R. MANCONI, Vecchia Florinas, Tipografia Stella Alpina, Novara 1959, Cfr. da pag. 111 a p. 116.
[1] Riferito ai sacchi di carbone
[2] Capanne circolari costruite dai pastori
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