Niente è più convenzionale, soprattutto in poesia, di una Sardegna cantata da dentro il villaggio con la serenità di un uomo che ha vissuto e perciò goduto, amato e sofferto. Su questa vita, propria e altrui, il poeta o cantore che dir si voglia, esercita come un dominio di saggezza, un distacco che registra avvenimenti grandi e piccoli e al contempo li analizza e li giudica. Potenza del fare versi.
È necessario intendersi a questo punto sul significato
che qui vogliamo attribuire a quel "convenzionale" d'inizio, che in
un certo qual modo è diverso rispetto al valore d'uso della parola, un
significato che si addice alla norma e quasi mai alla trasgressione. La norma,
quando si parla e si scrive di poesia sarda in lingua sarda, è appunto, per i
costruttori di parole nel chiuso del villaggio, la serenità. Il
tumulto interiore viene alla luce non come lacerazione di giorni ma nella
dimensione di tempo epico: una necessità da percorrere per poterla
compiutamente descrivere.
Pensiamo alla serenità interiore che emana dai versi,
tanto per restare nei classici, di Pietro Pisurzi, Luca
Cubeddu e Melchiore Dore, dove la loro missione
sacerdotale (curare anime per lenire la sofferenza dei corpi) è tutta nella
loro capacità di fare poesia.
"Ti cunservas che turtura innozente / Chi de ogni
bruttura 'olat attesu".
Scrive Padre Luca (1).
Il rovescio di questa situazione è Remunnu e
Locu che dice:
"Latte chene mezzoratu / m'at datu Diegu Brunnu /
de s'abba chi b'a ghettatu / si nch'ide' s'acu in funnu" (2).
La metafora è chiara. È un segno di differenza
nel villaggio globale della poesia che produrrà la
"scapigliatura" di un Peppino Mereu e che ha già
registrato al suo interno voci di dissonanza, di non serenità, siano esse
appartenenti ad un'Istituzione (il sacerdote Diego Mele) o siano
invece di dannati senza scampo (Antonio Domenico Migheli, Salvatore
Poddighe, Batore).
Una volta definiti l'apparenza e i lati oscuri del
villaggio convenzionale, possiamo dire che tutti questi segnali ritornano nella
poesia del tonarese Raffaele Casula, portata con amore
dell'universo e di mondi così come di cose evenemenziali. Tonara è
per Casula, che vi è nato e vissuto, il punto di emanazione e il
ritorno, la misura (il senso della misura) del tempo. Per il lettore,
questo mondo a misura tonarese è un viaggio di conoscenza e di
riscoperta che si conclude e ricomincia quando la saggezza del poeta
annota:
"m'incamino s'eternu riposu / senz'imparar'e
comente vivire" (p. 229).
La serenità totale viene rimessa in discussione dall'inquietudine
finale. Indagando dentro la conventio poetica, dentro la
pace e il suo sogno (per prendere il titolo del primo libro di Casula, Sonnios
de pazie appunto) ne emerge un reticolo di contraddizioni.
Tra le più evidenti, l'uso della lingua. Sia in
questo Sardigna cara come in Sonnios, Casula usa
una lingua di inappartenenza (il logudorese classico)
così come ha fatto Peppino Mereu e così come in un'altra latitudine del pianeta
Sardegna fa Giovanni Maria Cherchi che ricorre al sassarese
per scrivere versi. L'uso del logudorese convenzionale (un uso corretto)
permette a Casula di uniformarsi al sentimento del tempo (e
dei tempi) pur restando dentro il suo villaggio. Riversata in un codice più
diffuso, la lingua del villaggio resta come contesto, come condizione
indispensabile per la narrazione, dove l'esperienza di una vita si
offre al lettore senza infingardaggini, in abundantia cordis.
Questo libro è insieme memoria individuale ("Prìte
ca Peppe Zucca antigamente..." - p. 43) e continua critica versus "piliesses
ostinados / chi / semenan in su mundu sa paura" (p. 14). Casula
computa versi con la terribile umiltà di cui sanno essere
capaci i cantori di paese e quindi anche con tutta una necessaria
superbia costruita sul pane sudato e sulla povertà.
Nella galleria di ritratti che hanno Tonara come
riferimento obbligato ("Tonar' est un'amenù / paradisu de irde
verdaderu..." - p. 199), tra letizie familiari e senso del
vissuto, tra interpretazioni di eventi e notizie ("Su paba / chi non
giambat sos affannos" - p. 86-87), il poeta è colui che "finas
a s'ultim'ora... disizat / e isperat ancora" (p. 33). La
vecchiaia, uno dei temi ricorrenti nel testo, contraddice se stessa. Il poeta
pretende di continuare a vivere nonostante la tragedia che scoppia all'improvviso
come il fulmine per far perire "solu cudd' innozente
criadura" (p. 115). Dopo e insieme alla solitudine del
tragico, continua la poesia.
E così, attraverso corsi e ricorsi di storia paesana e
non, con ritorni di personaggi prima umiliati e poi esaltati (uno per
tutti Berlinguer), attraverso grida per la pena di morte e omaggi
a Montanaru, Bustianu Satta e Mereu,
con l'ossessione del fuoco davanti agli occhi (cussu male), il poeta non
rinuncia, non può rinunciare, alla contemporaneità e avverte
(p. 115):
"Sos pizzinnos chi deris fin s'amore / de
s'innozente brama mai istanca / si dan'a sa sustanzia bianca / e olvidan
s'andera de s'onore."
Se la poesia è un continuo ritorno all'innocenza
dell'infanzia e alla sua profanazione, chi, per mestiere o per passione scrive
versi, non può da questo innesco ciclico di vita e di vite, mai
distaccarsene.
Natalino Piras Nuoro, gennaio 1990
Note Aggiuntive
1.
L. Cubeddu in Il meglio della grande poesia in
lingua sarda. Cagliari, Della Torre, 1975. P. 72-73.
2.
Cfr. G. Albergoni - N. Piras, Quale Memoria pro so'
remitanos. Bitti, Liberatzione, 1983.

