Per chi scendeva, sessanta anni addietro, lungo gli scoscesi gradoni che da Pratza manna, cuore antico e rappresentativo del rione di Toneri, portavano e portano ancora alla piazzetta di Senti Cocco (alias Vincenzo Cocco), aveva l’opportunità, soffermandosi al limite di detto spiazzo, di inquadrare Morù, l’ultima delle contrade non solo del vicinato ma anche dell’abitato di Tonara.
Doveroso precisare che detto centro barbaricino risultava diviso in tre distinte frazioni ben distribuite sui fianchi della montagna (Arasulè, Toneri e Teliseri), ognuna delle quali comprendeva diverse contrade.
Oggi esiste anche una quarta frazione che, sugli sviluppi dei primi insediamenti del secolo scorso, ha acquisito nel tempo una connotazione urbana di notevole spessore. Detto rione, denominato Su Pranu, è decisamente fuori tema rispetto agli altri contesti abitativi sia dal punto di vista edilizio, che da quello paesaggistico e storico. Pur restando un satellite di posizione ancorato sulla terraferma vive sempre della luce riflessa dei suoi vecchi abitatori.
I materiali che hanno concorso alla edificazione dei nuovi quartieri sono tutti di importazione. Alla calce, ai mattoni, al pietrame, alle tegole ed al legname per i tavolati e le capriate, una volta prodotti in loco, si sono preferiti il calcestruzzo, il ferro, i laterizi, le piastrelle ed i portoncini di marche nazionali.
Dal punto di vista paesaggistico, il livellamento del terreno difficilmente può garantire al turista di passaggio le profondità tipiche degli scenari collinari o lo sviluppo acrobatico dei punti di fuga presenti negli altri rioni.
Dal punto di vista storico nulla si può dire di una borgata cresciuta frettolosamente nell’arco degli ultimi cinquanta anni.
L’area che avrebbe dovuto ospitare questa nuova zona residenziale, fu definita dal Lawrence, durante la sua breve visita del 1921, l’altopiano illuminato d’oro. (1)
L’impressione che lo spettatore riceveva dall’ultimo avamposto della contrada di Senti Cocco era quella di un presepe vivente incastonato sulla roccia in prossimità dell’avvallamento della rupe di Su Toni.
Oggi questa visuale è impedita da una costruzione sorta negli ultimi decenni che ostacola di parecchio le migliori letture di Morù.
Vi è comunque un’altra possibilità per il turista di passaggio di cogliere buone immagini dell’insieme ma le prospettive offerte sembrano, per effetto della distanza, concedere poco alle sfumature, ai dettagli ed alle tonalità cromatiche. Per soddisfare questa esigenza bisognerebbe portarsi verso la zona dei ruderi di Santa Anastasia ma, ripeto, molti presupposti di lettura verrebbero vanificati.
In ogni modo il quadro proposto dall’avamposto di piazzetta Senti Cocco presentava, a partire da destra verso sinistra, nello spazio di circa centocinquanta passi:
· un primo gruppo di abitazioni quasi incollate alla parete calcarea della montagna con il fronte occupato da piccole strisce di terra che, adibite alle provviste di legna ed ad altri usi domestici, andavano a radere la strada con delle siepi di confine curate alla bell’e meglio
· due agglomerati di piccole case con i muri divisori in comune e con i tetti spioventi su un solo versante ben distribuiti ad anello che assicuravano la disposizione di una prima fila lungo la strada principale e di una seconda sul fronte di una lunga teoria di costruzioni incassate sulla roccia
· una serie di viottoli che dalla strada andavano a raggiungere tutte le singole abitazioni componendosi e scomponendosi nei vari acciottolati della contrada.
Al disotto della via principale, degli appezzamenti di buona terra andavano a guadagnare un avallamento del terreno denominato Su Acu che al tempo delle piogge riceveva dall’alto le acque di Cracalasi per poi inseguire più in basso gli apporti idrici della sorgente di Morù.
Al disopra dei tetti delle abitazioni, il fumo dei comignoli non impediva di inquadrare la folta e fitta vegetazione che per larghi spazi sembrava proteggere, oltre che abbellire, l’abitato dalle insidie della lunga parete.
Quindi, nella successione dal basso verso l’alto, la piazzetta ci consentiva di osservare alcuni fazzoletti di terreno di poche are d’estensione, la strada principale, le casette di prima e seconda fila, i viottoli a forma di scalinata, i tetti delle abitazioni con i comignoli sempre in attività e la folta vegetazione con i ciuffi sbuffanti verso gli anfratti e le spigolosità di un tacco roccioso che nella sua severità ed imponenza poteva permettersi il lusso di sorreggere l’altopiano illuminato d’oro.
Per chi invece sostava in prossimità del punto medio della via maestra di Morù (105 anime distribuite in 30 famiglie nel censimento del 1829 con prevalenza dei cognomi Toccori e Loche), ad una cinquantina di metri circa dall’avamposto citato, poteva inquadrare di fronte, con lo sguardo rivolto ad oriente, buona parte del vicinato di Toneri (718 anime, 192 famiglie; con prevalenza degli Zucca, Sulis e Cocco).
In particolare, partendo da sinistra verso destra si poteva focalizzare l’attenzione sulle contrade di:
Cracalasi-Catzolaghedu (le anime censite nel citato anno sono 135, le famiglie 35 mentre i cognomi più rappresentativi dal punto di vista numerico sono quelli degli Zucca e dei Garau),
Cortzò (10 anime e 4 famiglie con maggiore rappresentanza degli Zucca e dei Mameli),
Barigau (77 anime e 19 famiglie con maggioranza dei Loche e dei Sulis),
Pratza Senti Cocco (26 anime e 6 famiglie; Mura ed Urru)
Cartutzè (37 anime e 12 famiglie; Urru e Poddie).
Nascoste nella parte alta della frazione si succedevano le contrade di
Pratza de is Garaus (89 anime e 23 famiglie; Dearca e Carboni),
Pratza manna (56 anime e 15 famiglie; Floris e Porru),
Maria Abrà de susu (104 anime e 25 famiglie; Cocco e Sulis)
e nella parte bassa quelle di
Maria Abrà de osso (35 anime e 11 famiglie; Pruneddu e Todde) e di
Pratza de is Zuccas (44 anime e 12 famiglie; Zucca ed Urru). (2)
Il tutto sembrava una borgata in caduta libera verso la minuscola piazza di Senti Cocco e le rovine di Santa Anastasia.
Cima Fais, il punto in cui sorge il sole, era occultata dalle contrade superiori di Toneri. Alla destra, al disotto delle ultime case di Cartutzè, era ben visibile il rudere della vecchia parrocchiale di Santa Anastasia. In alto alla chiesa sconsacrata il crinale dei monti chiudeva questo magico scenario fatto di casette di fango e di tetti d’argilla in continua rincorsa verso il fondovalle.
Questo era il lato paesaggistico offerto nel passato dalla contrada in questione. Per ciò che riguardava il lato umano devo mettere in discussione la fontana a più bocche di Morù.
Specie d’estate, durante le vacanze estive, era un punto di ritrovo di notevole richiamo per bambini, giovani ed anziani.
Quante spanciate d’acqua, ad onor del vero non tanto buona, mi sono concesso da giovanissimo presso quella fonte. Né badavo e né avevo il tempo di badare alle dicerie che quell’acqua facesse diventare matti o che producesse il gozzo. Era così notevole la portata di quelle sorgenti che ti saziavi in pochi attimi.
Più lunga l’attesa per i conduttori di asini e cavalli i quali dovevano pazientare a lungo prima che gli animali trovassero il momento adatto per soddisfare la loro sete. Talvolta bastava un nonnulla, un movimento involontario da parte di chicchessia o il più semplice dei brusii, che i quadrupedi abbandonassero la vasca di decantazione e riprendessero la loro strada.
Di donne, inginocchiate su ristretti spazi fatti di pietre levigate e di rivoli copiosi, intente a mettere in ammollo, sciacquare e strizzare i panni del loro bucato, ne vedevi sempre un numero discreto. Le portatrici d’acqua costituivano spesso delle brevi processioni che si ripetevano in continuazione per l’intero arco della giornata lungo le varie vie del vicinato.
Sembra di sentirle quando facevano richiesta di un aiuto alle comari di turno per il giusto posizionamento del cercine tra la brocca ed il capo. Stesso discorso valeva per livellare il mastello del bucato sulla cervice. Aggiudaiemi omare a m’assentare sa brocca in pitzu ‘e su tedile oppure a m’assentare s’ischiu.
Non mancavano di onorare i servizi alla fonte gli ortolani che quotidianamente prestavano il loro servizio nei piccoli appezzamenti a ridosso delle aree di Itzì o di Nugepasca né rinunciavano alla sosta rinfrescante quanti risalivano assetati dai noccioleti di Erisia o da quelli del fondovalle. In un lungo elenco di proprietà terriere inserito in un dispaccio inviato da Domenico Martini, viceparroco di Tonara per molti decenni dell’Ottocento, ad Antonio Tore, vescovo di Ales, sono segnalati gli orti e gli ortolani della Toneri del 1829. Is ortos de Funtana sono trentasei. (3)
Tutto questo si sviluppava intorno alla fonte di Morù.
Annare a Funtana era l’espressione tipica di chi intendeva raggiungere detta sorgente. Era sufficiente fare cenno al solo appellativo per riconoscere il sito in questione. Nei discorsi tra madre e figlio valevano al riguardo le seguenti espressioni che, nella impostazione grammaticale, ricordano molto da vicino la costruzione inglese:
(Madre) Eninno sese? (venendo stai?)
(Figlio) Aue este a b’annare? (Dove si deve andare?)
(Madre) A Funtana. Alla fonte.
(Figlio) Seo eninno (Sto venendo).
Nonostante detta fonte costituisse il perno più importante e determinante delle correnti di traffico dell’intero vicinato di Toneri, non bisogna sminuire la vitalità espressa dalla contrada di Morù all’interno dei propri quartieri. Sessanta anni addietro era proprio un presepio vivente fatto di personaggi intenti a cucire e ricucire i loro propositi quotidiani mentre la strada principale sembrava scandire il tempo a quanti andavano o rientravano dalla fonte, dagli orti, dalla campagna o dagli altri vicinati. E c’era spazio anche per gli anziani che a fatica ed a passo lento, per via degli acciacchi, tiravano a campare sperando in un domani migliore.
In un fermo immagine del 1955 il fotografo è riuscito ad rappresentare un aspetto paesaggistico della Morù di ieri. In particolare i dettagli inquadrano un tratto della via principale, l’unica fontanella pubblica, una scalinata che si impenna verso l’alto e quattro o cinque casette con gli architravi e gli stipiti delle aperture tinteggiati di color bianco sporco e con i tetti a spiovere da un solo versante. Lungo strada, tra il fontanile e la scalinata, una ragazza in costume incita con una piccola frusta un asinello a procedere più spedito. Sulla groppa dell’animale, due sacchetti semipieni di mercanzia lasciano intravedere le estremità inferiori della sella. Al disopra dei tetti una fitta vegetazione cresciuta a fil di parete sullo strapiombo di Su Toni sembra fungere da bambagia al quadro pittorico del passato. Chiudono lo scenario le ombre a perpendicolo generate dai corpi inanimati e da quelli in movimento.
Deve trattarsi di un’istantanea curata a fine mattinata durante il periodo estivo. Impossibile accreditare la ripresa fotografica ad orari serali in quanto il sole di pomeriggio, nell’atto di congedarsi da dietro la rupe, genera ombre sempre più estese verso oriente. Non dimentichiamo che l’esposizione della contrada è molto infelice. Le abitazioni che guardano a mezzogiorno sono in numero ridotto.
Case di fango curate con molta fatica e con molto sudore. Pavimenti in terra battuta al piano terreno e tavolati per il piano superiore. Sino ad una quarantina di anni fa un patrimonio edilizio ancora integro, incontaminato, fatto di facciate di antica malta, di balconi in ferro battuto, di tetti in tegole caserecce e di comignoli sempre in attività.
A Morù sono stato di passaggio tante volte, soprattutto d’estate. Questo accadeva quando dovevo raggiungere un orticello di poche are di superficie o fare visita a terreni lontani.
Raramente avevo la possibilità di aggirarmi all’interno della contrada. Mi capitava talvolta, intorno agli anni cinquanta, di seguire la radiocronaca delle partite di calcio in casa di Francesco Carboni, allora mugnaio di professione, uno dei pochi abbonati alla radio. Ancora prima, ai tempi del grande Torino, i servizi radiofonici venivano seguiti da dietro le grate della finestra della caserma di Via Monsignor Tore. Il più delle volte ci dovevamo accontentare di commentare i risultati all’indomani degli avvenimenti sportivi.
La sua abitazione era una delle poche costruzioni esposte a mezzogiorno e come tale godeva dei benefici elioterapici per l’intera giornata. Tanto negli esterni quanto negli interni ricalcava il disegno delle economie delle altre dimore della contrada. Una piccola scala conduceva al piano superiore dove i genitori, entrambi nati alla fine dell’ottocento, accoglievano gli ospiti, con molto garbo. Ricordo che il padrone di casa si lamentava spesso dei postumi da congelamento subiti sul fronte carsico. Il toccasana era dato da ampie fasciature che la moglie amorevolmente gli avvolgeva attorno alle estremità inferiori.
A fine partita avevo l’opportunità di traguardare la via principale inseguendo altri viottoli, altri acciottolati, altri percorsi dove le giocatrici di carte, ben distribuite in numero di tre o quattro attorno a dei grandi canestri, all’imboccatura dei vari usci, formavano diverse formazioni.
Dappertutto bambini, giovani ed anziani. Gli animali erano rappresentati in maggior parte dalle galline. Vivacità nei primi, spensieratezza nei secondi, saggezza nei terzi e stupidità e goffaggine nei rari voli radenti dei pesanti pennuti.
Che poesia ripercorrere mentalmente le strade di una volta. La modernità ed il progresso hanno imposto altri materiali, altri movimenti architettonici, altre pennellate. Peccato! Resta comunque la magia espressa dall’antico borgo incassato ai piedi della montagna in custodia di pochi abitatori e per giunta molto anziani.
Da qualche semestre è venuto a mancare anche Francesco. Dalla sua contrada era partito in cerca di migliori fortune intorno agli anni sessanta per farvi ritorno da anziano. Negli anni in cui il Cagliari militava in serie C parteggiava per i colori del Milan. Non so se nel tempo abbia cambiato idea. Quando lavorava di mazzetta e scalpello sui palmenti del mulino di Sa Discarriga non trovava di meglio che canticchiare infinite volte la formazione rossonera (Buffon, Sivestri, Bonomi…). Io facevo tifo per la Juventus. Ancor prima ero stato di fede torinese, del grande Torino.
La sua casa oggi è vuota come lo è la maggior parte delle altre abitazioni della contrada.
Quando ripasso da queste parti, nel vedere case sventrate, tetti pericolanti, ballatoi in stato di precarietà, pergole con le impalcature traballanti, percorsi accidentati, incuria ed abbandono un po’ dappertutto, avverto quasi la colpa di non aver mai tentato di porre alcun rimedio. Purtroppo la mia diagnosi arriva con molto ritardo. Non ho con me medicine da pronto soccorso né per lunghe degenze. E’ un discorso in perdita il mio. Non porta da nessuna parte. Per giunta sono anziano anch’io.
Una settantina di metri più in alto, al disopra di una verticale su cui inerpicarsi è sempre stato proibitivo, c’è l’altopiano d’oro. Per arrivarci bisogna aggirare l’ostacolo puntando a sinistra verso un inghiottitoio molto tortuoso e ripido denominato Titoni oppure risalendo sulla destra i percorsi accidentati e scoscesi di Craccalasi e Catzolaghedu.
A Su Pranu i tonaresi commerciano campanacci, torrone ed altri prodotti. Commercerebbero anche il tempo se fosse possibile, contrariamente a quanto succede a Morù dove questo ultimo articolo resta avvitato allo zero assoluto da molti decenni.
I pochi abitatori, come ho già precisato, viaggiano intorno ad età proibitive. I giovani, oggi in età matura, curano i loro interessi in terre lontane. Non so se qualcuno faccia rientro per le ferie alla piccola borgata. Molto probabilmente ripiegherà in qualche alloggio dell’altopiano illuminato d’oro.
Quando da giovanissimo percorrevo questi isolati la vita si perpetuava in mille attenzioni ed in altrettante direzioni. Non immaginavo che la contrada coll’andar del tempo ne avrebbe sofferto tantissimo.
Ciononostante il vero monile di questo percorso ad anello, che nella parte superiore ci presenta il rione commerciale, è Morù. E’ un gioiello splendente di propria luce cadenzata secondo geometrie di grande peso, non di luce riflessa. Vincente nelle sue prospettive e nei suoi punti di fuga, maestoso nella sua immobilità dei suoi saliscendi e delle sue calli che invitano a cento ingressi ed ineguagliabile ed incomparabile nel suo guscio caratteristico ostentato ai piedi della montagna. L’unico segno di movimento è dato dall’acqua delle sue sorgenti. E non è cosa da poco. Finché c’è acqua c’è vita.
Oggi Morù è un museo a cielo aperto.
Rimane viva la storia della contrada nella memoria degli anziani e soprattutto in quella raccontata dagli archivi ecclesiastici e notarili. Una storia fatta di piccole cose, di pochi segreti e di tante testimonianze che nella loro semplicità sorprendono anche i lettori d’immagine più esigenti e più scrupolosi.
Note
1) Vedi Mare e Sardegna di D. H. Lawrence.
2) Vedi Status animarum 1829 di Tonara nel Fondo Quinque libri dell’Archivio diocesano di Oristano. Per maggiori approfondimenti si rinvia il lettore al fascicolo primo del volume quinto della collana Memorie tonaresi.
3) Vedi le dovute segnalazioni in Archivio diocesano di Ales alla voce Monsignor Tore. Per migliori ragguagli si rimanda alle pagg.180 e seguenti del vol.1° della collana Memorie tonaresi.
Dalla raccolta “Poesias in duas limbas – Poesie bilingui”, Scheiwiller, Milano (2° ed. 1993, 3° ed. 2006 per i tipi de Il Maestrale di Nuoro).
La sezione che include questo "cantone" è intitolata "Cantones pro sos laribiancos", ossia "Ballate per quelli dalle labbra bianche". "Quelli dalle labbra bianche" è prima di tutto il titolo dell'opera prima di Masala, pubblicata nel 1962 da Feltrinelli, racconto dell'epopea della gente di Arasolè, piccola frazione del comune di Tonara, in provincia di Nuoro.
Le "labbra bianche" sono quelle dei morti di fame, dei morti di fatica, dei morti di guerra...
I "cantones" inclusi in quella sezione di "Poesias in duas limbas" sono dunque una trascrizione poetica di quel piccolo romanzo di esordio, quasi un' "Antologia di Spoon River" sarda.
Frantziscu Màsala a combattere sul fronte russo ci finì venticinquenne. Con lui altri 300.000 giovani, in gran parte convinti di andare a coprirsi di gloria, imboniti dalla retorica fascista. Ne morirono circa 115.000, dei quali 85.000 in poco meno di tre mesi, tra il dicembre 1942 e la primavera successiva, durante la seconda battaglia sul Don, lo sbando e la disastrosa ritirata che ne seguirono...
(Frantziscu Màsala, da “Il riso sardonico”, 1984)