giovedì 16 ottobre 2008

Da Pratza manna a Marrakech di Giovanni Mura





Riceviamo e pubblichiamo Pratza Manna a Marrakech del Prof. Giovanni Mura (noto Nino) autore di numerose indagini sulla storia di Tonara.







Per poter essere puntuale a Cagliari alle operazioni di imbarco sul primo volo per Roma, il gruppo dei tredici turisti isolani in partenza per il Marocco si è dato appuntamento in piazza Tharros ad Oristano alle cinque del mattino. Vi è chi veniva da più lontano e, suo malgrado, aveva dovuto abbandonare il centro storico del suo paese a notte fonda.
La stessa cosa sarebbe capitata anche a me se fossi partito da Tonara, nel cuore della Barbagia centrale.
Pratza manna, punto di ritrovo importante nell’Ottocento del ridente centro montano, ha perso nel tempo, a causa dello spopolamento, i connotati di arteria principale. Già nella prima metà del Novecento, il toponimo citato, pur ridotto da grande piazza a normalissima via, veniva frequentato quotidianamente dalle circa ottocento anime della frazione di Toneri le quali, per motivi diversi, si vedevano obbligate a servirsi delle rivendite di alimentari e tabacchi o della fontanella di acqua potabile presenti lungo strada. I primi avventori, soprattutto donne, erano quelli che facevano provvista di latte presso l’improvvisato negozio degli Anedda. Ma la vita si animava già dalle prime luci dell’alba con la preparazione al lavoro degli animali da soma e da tiro e dell’attrezzatura occorrente per i vari disimpegni. Erano questi i conduttori di carri agricoli ed i lavoratori dei campi e delle boscaglie.




Quindi aprivano le loro botteghe i falegnami ed i calzolai. Anche presso la sartoria di Rita Floris, l’esperta nella confezione di costumi femminili, i lavori iniz


iavano di buon mattino. Le osterie erano localizzate qualche centinaio di metri più in su.
All’estremità superiore dell’abitato, si delineavano con imponenza le costruzioni della chiesa e della casa parrocchiale. Oltre, l’aperta campagna dava il là agli altri vicinati. In alto Arasulè, la borgata più numerosa, ed in basso Teliseri, l’ultimo dei rioni sia dal punto di vista altimetrico che demografico. Il piccolo borgo di Ilalà, posizionato nella vallata, era stato dichiarato ufficialmente distrutto già dagli inizi degli anni Trenta.
Arasulè, un concentrato di diverse centinaia di case disposte a schiera e spesso addossate le une sulle altre sull’erta della montagna, sembrava obbedire in questo ordine ad una strategica difesa dalle insidie dei crudi inverni.
Poco margine veniva riservato alla viabilità interna tanto che in molti punti la percorribilità era seriamente compromessa dalle frequenti strettoie presenti nel tracciato. Sono segnalate ancora oggi nel contesto urbano testimonianze di queste viuzze impossibili che nel linguaggio locale vengono denominate istrintorgios, orrugas istrintas, erriles.
Secondo Sebastiano Podda, rappresentante di Arasulè, solamente ai primi due termini dialettali si può associare il significato di vicolo vero e proprio mentre al terzo quello di vicolo cieco. S’Orruga istrinta ad esempio, è questo il nome di una caratteristica via tonarese, non è un viottolo chiuso e quindi non rientra nel concetto di errile.
Secondo Luigi Mereu invece anche il vicolo aperto fa parte degli erriles. Riferisce al riguardo che a Teliseri veniva chiamato così quel budello di scorciatoia che univa ed ancora unisce la parte bassa del rione con il centro dell’abitato. Negli anni cinquanta, ancora prima dei lavori di sistemazione dello stretto ed oscuro corridoio, il passaggio era consentito ad una sola persona. Due passanti non avrebbero potuto mai superarsi. A guadagnare l’uscita era sempre colui che entrava per primo. FIFO (first in, first out, letteralmente prima dentro, prima fuori), clausola cara agli analisti di bilancio in tema di valutazione delle scorte di fine anno, poteva essere benissimo applicata anche nel nostro contesto podistico.
Nel vocabolario del nostro contemporaneo Mario Puddu, il lemma gurtuniu, presentato con gli equivalenti termini di boturinu, guturinu, gutoniu, assume il significato di caminu astrintu meda ma anche di carrela astrinta, a bortas chentza essida. Poco rilevante al riguardo il contributo offerto dal Porru e dallo Spano nei loro dizionari del secolo diciannovesimo.


Nell’atto di donazione stipulato da Sebastiano Sucu in favore del figlio Giovanni Antonio, il notaio tonarese Pietro Francesco Floris, con la segnalazione del vocabolo errili, non sembra sciogliere il dubbio sul concetto di vicolo aperto o chiuso. Nel documento, che è del 1769, risulta scritto: Primero dicho Sebastian Sucu su Padre le constituje toda aquella casa q(ue) tiene, y possehe en el lugar denominado Su Montigu, y vesindado dicho Arasuley […] que afronta de parte delante à huerta de d(ic)ho Donador, espaldas à huerta del V(enera)ble Juan Andres Tocory errili en medio de un costado à casa de Pedro Pisquedda, y de otro à casa de d(ic)ho Donador, avalorada en cien libras.
Se si fosse trattato veramente di un vicolo cieco il nostro notaio avrebbe potuto utilizzare la definizione spagnola callejon sin salida ossia via senza uscita.
A parte le dispute che potranno interessare l’argomento penso che sarebbe molto più proficuo iniziare a censire questi strani percorsi del centro storico e, una volta identificati, pensare a rappresentarli con il nome della contrada di appartenenza come ad esempio s’errile de Santa Maria, de Su Montigu oppure, nei casi di ulteriori segnalazioni, s’intradorgiu de parte ‘e susu, de parte ‘e mesu o de parte ‘e osso.
Visto da lontano, Arasulè innevato sembrava suggerire l’idea di un folto raggruppamento di pinguini in assetto di cova. Durante le altre stagioni ai colori bianchi e scuri proposti dalla coltre nevosa si aggiungevano quelli evidenziati dai tetti delle costruzioni e dalle tinte espresse dal paesaggio circostante.
Pratza manna non era stata ancora interessata negli anni Quaranta dal lavoro dei sampietrini e questo consentiva ai meno giovani di organizzare i loro giochi sulla terra battuta con calci alle palle di stracci per i maschietti e salti a ripetizione sulle caselle per le femminucce.
Sul far della sera, crocchi di persone, soprattutto buontemponi ed abili conversatori, si distribuivano a cerchio intorno ai basamenti della fontanella pubblica o ai rudimentali gradini della rivendita di monopolio per consumare con maestria le notizie del giorno e quelle dei tempi andati. Saper gestire la parola, nei tempi in cui radio e televisione non facevano ancora parte del vivere comune, era molto importante. Il tutto avveniva nei pressi del ballatoio di casa Porru, oggi oggetto di desiderio per i numerosi turisti che, in occasione delle sagre paesane e della processione della via Crucis, affollano l’arteria in oggetto.
Ad onor del vero la piazza grande della mia infanzia è stata piazza Epiro, fuori le mura, sulla confluenza di via Satrico, ma in quel periodo, a causa dei continui bombardamenti sulla città eterna, era molto rischioso e quasi avventuroso poterla frequentare con tranquillità. Di Pratza manna invece, per avervi abitato da piccolo per circa un anno in casa dei nonni materni, ho un buon ricordo. Poco tempo dopo la mia famiglia si era trasferita nei pressi della chiesa, quasi ad una decina di metri sotto il livello della base di quel campanile che, ai tempi del suo restauro, sul finire degli anni venti, veniva chiamato su campanile a camisedda per via del colore bianco dato agli ultimi piani della costruzione. Quasi sicuramente la struttura campanaria formato camicetta avrebbe potuto trovare buona accoglienza e protezione standosene comodamente sottobraccio alla imponente mantella nera della maestosa facciata della basilica di san Petronio a Bologna. L’accostamento dei siti monumentali di Pratza ‘e cresia e di Piazza Maggiore, certamente irriverente per i contrasti di stile architettonico e per quelli dimensionali, ventisei metri d’altezza del campanile tonarese contro i cinquantuno della facciata incompiuta, trova giustificazione al contorto ragionamento solamente nella mia incosciente immaginazione.
Ognuno di noi partecipanti ha lasciato di buon mattino il suo centro storico, la sua piazza dei miracoli ed io idealmente la mia. L’ho affidata in buone mani, alla sua storia fatta di piccole cose, di miserie umane, di vita sofferta ma anche di piacevoli svaghi legati ai passatempi ed alle speranze di un futuro migliore. Penso che nell’Ottocento la vita scorresse lenta e faticosa specie per gli appartenenti alle classi meno agiate i quali salivano alla ribalta ogni qualvolta Ammirabile Corriga, il notaio di Pratza manna, veniva incaricato di mettere nero su bianco sulle pratiche di compravendita, di successione, di contrazione di mutui o di disposizione di ultime volontà o quando il sacerdote di turno ufficializzava l’ingresso alla cristianità ed alla comunità dei battezzati o annunciava la formazione delle nuove coppie di sposi o formalizzava il commiato dalla vita terrena dei malcapitati di turno.


A Roma, primo scalo, ci incontreremo con i componenti del secondo gruppo di viaggio, provenienti con molta probabilità da Piazza del popolo, da Piazza Duomo, da Piazza Maggiore o da Piazza Tal dei tali. Ognuno avrà in serbo il suo fiore all’occhiello da ostentare come distintivo, come motivo d’orgoglio, come appartenenenza ad un luogo, ad una società o ad una fede regionalistica. Non mancheranno i rappresentanti veneti per ricordare che xe tanto granda anca Piassa san Marco.
Tutte belle ed importanti le agorà dei nostri luoghi di provenienza ma in questo nostro excursus in terra africana non dobbiamo dimenticare che stiamo per rendere visita alla piazza di Marrakech, una tra le più belle ed affascinanti del mondo. Sarà come fare la conoscenza di un altro pianeta dove le luci naturali e quelle artificiali la fanno sempre da padrone in ogni ora della giornata.
Staremo a vedere se le attese saranno rispettate o se invece si tratterà del solito scoop pubblicitario organizzato sapientemente ad arte da certe agenzie di viaggio.
Il mio servizio di inviato speciale non tratterà alcun altro percorso e le mie osservazioni cercheranno di inseguire un solo obiettivo che è quello di rispecchiare fedelmente lo spettacolo offerto dalle migliaia di operatori ed espositori di Marrakech. Non so se sarò all’altezza del compito affidatomi ma in cambio cercherò di comportarmi lealmente ed in buona fede con gli altri e soprattutto con me stesso.
Il secondo gruppo di turisti è formato da due coppie di Milano, due coppie di Perugia, due di Napoli, una di Frosinone, due di Bari, ed una di Palermo. Completano la rosa un torinese ed una romana. Tra isolani e continentali vi è modo di socializzare e di fraternizzare nei lunghi viaggi in pullmann, nei percorsi riservati alle visite alle città imperiali ed a tavola durante le soste ristoratrici.
A Marrakech si arriva a tarda sera dopo un’intera giornata a bordo delle ruote gommate. Si era partiti di primo mattino da Rabat, la capitale marocchina, metropoli situata cinquecento chilometri più a nord.
Il programma prevede la visita alla piazza mercato per il pomeriggio del giorno successivo per cui si preferisce tentare nel dopo cena un primo approccio con la città facendo delle brevi passeggiate lungo il viale antistante il Palazzo dei Congressi. Le costruzioni di foggia occidentale sembrano darsi il cambio in continuazione con quelle di tipo arabo con bellissime fontane. Di notte le città acquistano attraverso le luci dell’illuminazione pubblica un valore aggiunto. Fa caldo, tanto caldo. I teng cavr precisa un napoletano. Conferma nel suo dialetto anche il siciliano: Cun chistu cauru ca c’è ca è peggio che essere a Palermo. E’ comunque un disagio sopportabile. Non si avverte umidità. Si tratta di alta pressione.
Alle sedici esatte del giorno dopo ci ritroviamo tutti a ridosso della città vecchia. La guida locale, pregandoci di stare uniti, ci invita a seguirla attraverso uno dei tanti percorsi che portano al grande spiazzo. Si ha subito a che fare con strettoie al limite della viabilità. In certi punti la distanza massima è di gran lunga inferiore all’apertura delle nostre braccia. Le costruzioni, molto basse, non superano i cinque o i sei metri d’altezza. Sopra le nostre teste il cielo è rigato da continue ed esili travature in legno od altro materiale predisposte tra edificio ed edificio. In ogni momento è il solito via vai di passanti vestiti secondo i dettami arabi ma anche occidentali. Biciclette e motorini sfrecciano a velocità sostenuta. Bisogna prestare molta attenzione.
Ad un certo punto la guida indirizza verso i locali di un’erboristeria: è l’unica sosta prevista dal programma di bordo. Siamo invitati a sedere ed a consumare una bevanda negli interni di una piccola sala. Vengono offerte della menta calda, coca cola, aranciata e anche dell’acqua. Dopo questi preliminari si dà spazio alla presentazione dei vari prodotti per la cura del corpo e per la cucina. Ad ognuno dei presenti viene consegnata una busta per l’incetta degli articoli proposti dalla casa. Si inizia con gli antidepressivi, i coagulanti, i vaso dilatatori per continuare con i rassodanti, gli anti rughe e tutti gli altri unguenti efficaci contro i malanni ed il logorio della vita moderna. Quindi si passa ai prodotti di bellezza ed a quelli utilizzati per migliorare e potenziare i ricettari della cucina. Gli addetti ai lavori passano di mano in mano piccole buste di spezie, boccette di oli, di creme, di essenze, di profumi e di ogni toccasana. Le proposte dei rivenditori sono accettate dai clienti in tempi brevissimi. Spesso gli offerenti non fanno in tempo a lanciare i loro messaggi nella dovuta completezza che l’affare è già concluso. E’ un continuo agitare di mani in segno di adesione. Sembra di essere in una corbeille, il recinto dove si contrattano i titoli di Borsa. Questo serve contro il mal di … A me. A me. Questo contro…A me. A me.
Quando si esce fuori sono le diciassette. Arrivati ad uno slargo a cielo aperto da cui si intravede a qualche centinaio di metri un’ampia terrazza, riparata da una tenda rossa, ci viene indicata la strada da seguire per arrivare alla piazza. Sul piano terreno vi è una farmacia; è lì che dobbiamo ritrovarci alle diciotto e trenta in punto una volta terminate le nostre visite. Non c’è da sbagliare. Il rompete le righe viene ordinato ed eseguito prontamente.
Penso che in un’ora e mezza si potranno soddisfare molte curiosità. La componente sarda preferisce comunque restare compatta. La porta d’ingresso, una delle tante che immettono al mercato vero e proprio, dista da noi non più di cento metri. In poco tempo raggiungerò la meta dei miei desideri.
Sono nelle vicinanze del grande invaso. Non vedo l’ora di calcare l’arena. Il cuore batte sempre più forte come succede agli atleti che stanno per coronare la grande fatica prima di immettersi nello stadio ed andare a ricevere gli applausi degli spettatori distribuiti in ogni ordine di posti.
C’è una precisazione da fare al riguardo. Contrariamente a quanto accade ai maratoneti per me non ci saranno né battimani né premi da ritirare. Sarò io stesso, una volta varcato l’ingresso ed inanellato i vari percorsi dell’anfiteatro, a tributare idealmente i dovuti onori agli attori presenti nella scena.
So che la festa è già cominciata. Non so da quando, né quando terminerà. Forse alla fine dei secoli. Sarà uno spettacolo continuo di luci, di ritmi, di suoni, di colori, di odori, di linguaggi, di folclore e di magia. La sede stradale intanto diventa più ampia e più percorribile, le distanze superano adesso i tre e i quattro metri. Hai abbondante spazio per scansare pedoni, cicli, motocicli e carretti tirati a mano da abili corrieri. Le donne, suddivise a piccoli gruppi, hanno tempo e modo di infilarsi e scomparire nei primi negozi di tessuti a portata di mano. Agli uomini, continuo bersaglio dei venditori volanti, non resta che piantonare le uscite. In una di queste soste forzate ho modo di vedere religiosi di fede islamica guadagnare l’uscita dalla porta di una moschea. I minareti a base quadrata presenti sui muri di cinta confermeranno questa mia impressione. Ciascuno dei partecipanti alle sacre funzioni, appena riprese sull’uscio le proprie scarpe, è pronto a confondersi con i passanti. Tra maschi e femmine, ad occhio e croce, saranno più di un centinaio.
Nei negozi presi d’assedio dalle nostre compagne di viaggio le trattative vanno per le lunghe. Si può contrattare sin che si vuole. E’ il solito gioco del tiro alla fune. Oggetto del contendere è sempre la solita maglietta, il solito souvenir. Alla fine la spuntano sempre i negozianti anche se i margini di guadagno sono spesso molto risicati. Quando si varca la porta d’ingresso si sono fatte le ore diciotto. Qualche bassa abitazione mi impedisce ancora per poco di vedere che cosa succede in profondità, verso il vasto recinto. Ciò che mi stupisce maggiormente è la componente femminile che continua a fare incetta di orecchini, braccialetti e altri ninnoli di pregiata fattura berbera. Vado convincendomi sempre di più, mano a mano che il tempo passa, che alla maggior parte delle donne non interessi un bel niente dei contenuti magici offerti all’interno della cinta muraria. Quando mancano quindici minuti all’appuntamento previsto per la partenza rompo gli indugi e vado per conto mio.
Ed eccomi dentro alla piazza. D’altronde ero venuto qui solo per questo.
Dal taccuino della mia memoria vado ad elencare alcune note degne di menzione.
Un lustrascarpe lucida in continuazione una scarpa nera su uno sgabello di pochi legni. La probabilità che un passante possa ricorrere alle sue prestazioni è ridotta al minimo. Infradito, scarpe da tennis con mezze calze di foggia occidentale, sandali alla francescana sembrano non lasciare alcuna opportunità di lavoro al nostro operatore.
Proverbiale la compostezza di un assonnato negoziante che con le estremità della gamba sinistra appoggiate su una sedia obbliga i passanti a superare l’incomodo.
Non ho soldi per i souvenir. La poca moneta che porto con me serve eventualmente per acquistare dell’acqua naturale o per delle emergenze. Magliette? No grazie! Orologi? No, grazie! Occhiali? No grazie! Arance? No grazie!
Più avanti mi aspettano i serpenti. Sono distribuiti in diverse postazioni. Ho un debito nei loro confronti. So di aver aver fatto soffrire sino all’esasperazione un cobra esposto nella teca di un rettilario presentato ad Oristano una trentina di anni fa alla biblioteca comunale. Più lo irritavo e più distendeva il suo collo a dismisura. Tra me ed il serpente il vetro. Un bel coraggio il mio! Il coraggio del codardo. Ho un debito anche per le diverse bisce che ho sterminato in età giovanile. Le ho sempre temute comunque. La credenza che questi colubri non riescano a strisciare verso l’alto è contraddetta dalla mia esperienza. Ho visto una volta un esemplare giovane serpeggiare agilmente con il suo corpo sulla verticale di un muro in cemento armato. Non aveva altre possibilità di fuga. Le lucertole invece venivano cacciate dai giovanissimi del mio paese per puro divertimento. Era sufficiente avvitare la parte terminale di uno stelo di graminacea a mo’ di nodo scorsoio che lo strumento di cattura era pronto per l’uso. Questi piccoli rettili venivano sempre rimessi in libertà.
Gli addetti al governo dei temuti vertebrati sono quattro: il primo tiene a bada tre cobra ed una vipera, il secondo suona lo strumento a fiato, il terzo ha tra le mani delle innocue bisce ed il quarto chiede i soldi con un tamburello di pelle d’asino. Solo gli ultimi due si danno un gran da fare per tenere a debita distanza i curiosi. I cobra, sempre in posizione eretta dalla cintola in su, caricano il loro esile peso sulle ultime spire del loro corpo. La vipera assomiglia tanto per grossezza quanto per maculatura della pelle ad una murena. Sono differenti i colori, giallo sporco per il rettile e bruno scuro per il pesce anguilliforme. Deve trattarsi di un crotalo, ma non riesco a vedere i sonagli della coda. Sembra che stia dormendo. Di vipere ne avevo visto una volta all’interno di una bottiglia di grappa a Tolmezzo in Carnia. Mi dissero che l’acquavite veniva servita a chiunque ne avesse fatto richiesta. Normalmente in detta regione usano consumare molto vino in formato taiut blanc o neri. Raramente ricorrono ad altre bevande.
Incuriosisce tra i pericolosi animali la presenza di un mammifero con una strana coda piatta somigliante alla infiorescenza di una secca ombrellifera. Per corporatura ed agilità è confondibile con uno scoiattolo canadese. I suoi movimenti sono esclusivamente estesi alle zone libere del tappeto su cui stazionano i rettili. L’uniforme degli inservienti rispetta il beldi ossia la tenuta tradizionale marocchina. La foggia in abiti all’occidentale, chiamata romì, non è indicata.
Più avanti un venditore d’acqua con un cappello a larghe falde invita gli altri a dissetarsi e a favorire una foto ricordo. Ha le sembianze di un anziano pellerossa.
Improvvisamente ed inavvertitamente mi si para di fronte un mulatto dall’età indefinibile. Sembra in preda ad un raptus. Il suo stato di eccitamento emotivo pone in mostra una dentatura ridotta in cattivo stato. E’ contento di se stesso. Chissà quale affare importante avrà concluso. Dopo l’istantanea dello sdentato che se la spassa allegramente è la volta di un paraplegico che vende confezioni di fazzoletti di carta. Non ha più di venti anni, ma fa tanta pena. Di passanti insensibili al suo invito alla contrattazione ve ne sono ben pochi. La merce resta invenduta ma l’elemosina è sempre assicurata. E’ comunque enorme lo sforzo che fa per guardarti fisso negli occhi in segno di ringraziamento. Il Dio che atterra e suscita, che affanna e che consola è sempre presente, anche in questa piazza, accanto agli oppressi ed agli uomini di buon cuore.
Di fronte alla farmacia, a circa una cinquantina di passi, stanno montando le bancarelle per la ristorazione serale e notturna. In alcuni settori le tavolate vengono occupate dai primi clienti. I menù propongono spiedini alla carne, scodelle di lumache, insalate varie e pane di grano duro di ottima fattura. I rivenditori di agrumi, di mele, di angurie e di meloni li ritrovi un po’ dappertutto. Sei sempre invitato ad accomodarti.
In fondo, verso l’uscita principale, decine e decine di vetture a cavallo sono a disposizione di coloro che intendono fare un giro per gli angoli caratteristici di Marrakech. I calessi sono spesso tirati da due cavalli.
Negli ultimi minuti cerco di percorrere perimetralmente buona parte del grande catino per visitare il maggior numero di porte in uscita. Ne conto parecchie, alcune grandi, altre piccole, talune di foggia occidentale talaltre di fattura marocchina. Queste ultime ricalcano il solito formato delle principali porte reali disseminate nelle città più importanti. Un’idea della geometria dei contorni può essere data dalla rappresentazione delle toppe di serratura delle camere delle nostre abitazioni. In taluni casi inseguono il disegno delle boccette a sfera, quelle con il roll-on, in altri quello delle bottigliette con la tettarella come nei biberon. Gli arabeschi, nei loro tratti diritti e curvi, pur ripetendo all’infinito gli stessi motivi mistilinei, non finiscono mai di stupire.
Non c’è più tempo per le visite. Siamo attesi a cena presso le tende berbere dei Keidal. Il benvenuto ci è dato con la presentazione delle armi di ventisei cavalieri in groppa ai loro destrieri. Sono tutti vestiti di bianco, compresi i turbanti e i calzari. Veniamo accompagnati all’interno del villaggio, un borgo circondato da alte mura costruite di recente dove, su di una parete, troneggia la figura di un cobra. Prima di prendere posizione a tavola ci vengono incontro diversi gruppi folcloristici. Saranno circa duecento i figuranti che, con i loro canti ritmati con frequenza sullo stesso grado di tonalità, ci presentano l’aspetto genuino della loro matrice africana. Il suono degli strumenti a percussione, bongo e tamburelli, è cadenzato abilmente nel tempo dallo squillo di una lunghissima tromba, l’unico strumento a fiato al seguito delle festanti tribù. Il Giusti per l’occasione ripescherebbe certamente gli stessi passaggi utilizzati in Sant’Ambrogio e riservati a gente che gema in duri stenti e de’ perduti beni si lamenti.
In ogni modo è bene precisare che è tutto artefatto, è tutto maroccato.
I commensali distribuiti nelle varie tende superano le cinquecento unità ed in ogni alloggiamento possono prendere posto una cinquantina di avventori. C’e abbondante spazio per il lavoro dei camerieri e per i volteggi ed il canto ritmato delle ballerine dei vari villaggi. I tamburelli assomigliano tanto a dei setacci per la farina con la differenza che la retina che funge da filtro è sostituita dalla pelle d’asino. Mi parent sedatzos forraos a pedde ‘e molente. Il dopo cena prevede corse di cavalli guidati da esperti cavalieri. Si sprecano le acrobazie ed i consensi degli spettatori. Sul finire i riflettori inquadrano un tappeto volante con una coppia di principi. La sospensione nel vuoto a molti metri dal suolo desta molta impressione. Non riesco ad interpretare la scena. Qualcuno mi riferisce che il principe durante la giostra equestre è riuscito a far sua la donna dei suoi sogni. Io avevo capito che stessero rappresentando i fenomeni atmosferici del miraggio o della fata morgana. L’Atlante, la catena montuosa che divide il Marocco da nord-est a sud-ovest in due parti, funge da sicura barriera contro l’avanzata delle sabbie del Sahara. Al di qua le città imperiali di Casablanca, Rabat, Fes, Meknes e Marrakech, al di là il deserto.
Si rientra in albergo verso mezzanotte. Sono ancora in tempo per fare una capatina alla piovra dai molti tentacoli visitata nel pomeriggio. Si tratta di una trasgressione ai programmi delle grandi gite fuori porta. La mia tenuta sportiva evidenzia un paio di scarpe da ginnastica, maglietta a mezze maniche, mezzi pantaloncini da sera e mezze calze come si usa da un paio di anni a questa parte. In tasca cento dirham, l’equivalente di dieci euro. Non ho con me cellulari, macchine fotografiche od occhiali. Faccio affidamento sul mio buono stato di salute e sulla sufficiente conoscenza di una delle due lingue che accompagnano le insegne pubblicitarie. Le mani sono libere di controllare sempre se il documento d’identità ed il permesso di soggiorno sono nella tasca apposita. Di prezioso ho soltanto gli auricolari per combattere la sordità. I borsaioli non saprebbero che farsene di certa chincaglieria bionica. Molte le strade che portano alla piazza. Lo capisci dal modo di procedere dei visitatori, marocchini e stranieri, italiani in maggioranza, che affrontano una delle varie entrate. Mi sento in grado di governare in lungo e in largo ogni sensazione visiva. Soprattutto in profondità. Se mi abbasso di una spanna riesco perfettamente a mimare la visualità di chi mi precede. E’ una leggibilità nulla. Vanno tutti avanti perché bisogna andare avanti. Intanto la calca aumenta ma non si procede a tentoni. C’è sempre spazio per i piccoli movimenti. Capisco ora perché sotto la tenda rossa, appena sopra la farmacia, vi è sempre tanta gente. Si tratta di quanti vogliono vedere il tutto dall’alto. Personalmente vedo bene in profondità da qualsiasi punto della piazza. E’ una considerazione egoistica la mia. La tenda rossa, la terrazza e la farmacia mi stanno diventando antipatiche. Ma dovrò parlare ancora dei lastrici solari poichè in Marocco i tetti non esistono. Le tegole, appena pronunciate sopra gli architravi delle finestre e lungo la recinzione dei cortili, sono miniaturizzate e di colore verde. Tutte le abitazioni terminano con un ripiano orizzontale e su questo sono parcheggiate le antenne paraboliche. Viste dall’alto degli edifici più elevati sembrano, nel loro orientamento verso il satellite, tanti cimiteri con le tombe rivolte verso la Mecca.
Nell’appendice notturna rivedo i cobra sempre disponibili in posizione eretta a soddisfare la curiosità dei presenti. Chissà quanto gradirebbero ritornare nel loro ambiente naturale. Penso che al supplizio lento consumato alla mercè del pifferaio di turno preferirebbero il duello finale con le terribili mangoste. Meglio morire un giorno da cobra libero che cento anni in abiti circensi.
Passo in rassegna i banchi di merce stipati all’inverosimile, le tavolate imbandite di ottime carni, di buone minestre, di insalate miste, di frutti esotici e di buon pane. I buongustai non mancano mai di andare ad occupare i posti liberi. I suoni ritmati dallo scampanellio dei venditori d’acqua e dagli altri strumenti a fiato e a percussione dei molti artisti e giocolieri finiscono per stordire e frastornare.
Non ho più nulla da chiedere alla grande piovra. Volto nuovamente pagina e mi ritrovo per la seconda volta a Casablanca, a circa duecento ottanta chilometri da Marrakech.
Per il pomeriggio non sono previste visite culturali. Mentre le donne guadagnano posizione all’interno dei vari negozi per lo shopping, gli uomini preferiscono fare brevi passeggiate, spesso interrotte dai numerosi venditori di occhiali, orologi, magliette, bracciali, zufoli. La serata è fresca. Sembra di essere ad Oristano quando soffia il maestrale. L’oceano, perennemente agitato, è a poche centinaia di metri dalle nostre spalle.




Spesso mi domando come l’uomo sia riuscito a guadarlo sino alla riva opposta.
Una scena insolita si presenta in prossimità dell’albergo. E’ un concentrato di suoni, di canti, di colori, di fogge beldì e romì. Musica a base di bongo, di tamburelli, di nacchere e di una tromba a canna lunghissima provvista di ampio padiglione. I commessi, sono tutti schierati nell’ingresso principale in alta livrea. Forse sono lì per salvaguardare la quiete della loro magione pluristellata o per impedire che qualcuno del gruppo festante tenti di forzare gli accessi. E’ solo una mia impressione. Quando mi trovo a pochi metri mi accorgo che il cerchio si apre come d’incanto per cedere il passo a due sposi in abiti occidentali. La coppia, dopo qualche attimo di sosta sul primo gradino della scalinata, fa ingresso allo Sheraton. Seguono tutti gli altri. Nella hall c’è posto per l’allegra compagnia. L’ambiente non è dissacrato. I suonatori, inappuntabili nel loro vestito bianco, continuano a dar fiato ai loro strumenti.
Per tutti è riservata, sotto un firmamento targato vigilia di san Lorenzo, la ampia terrazza dello svettante edificio. Il tempo segna lo zero assoluto. Qui il meridiano che dà origine ai fusi orari è inseguito per un lungo tratto, sino al Sahara, dalla faglia del terremoto di Lisbona.
Agli sposi è assegnata una camera del quattordicesimo piano. In arabo quattordici si legge arbatax. Forse la maggior parte degli abitanti della cittadina omonima non sa che il nome fa fede del numero delle torri di avvistamento costruite nei secoli passati sul litorale marino ogliastrino a difesa dalle incursioni berbere.
Queste scene da matrimonio chiudono la nostra visita in terra di Marocco. Per le nostre inquietudini quotidiane c’è spazio e tempo a partire già da domani. Le emozioni, le impressioni e la ospitalità ricevute sembrano non trovare alcun riscontro nell’atto di villanità perpretato nei nostri confronti all’inizio di questo tour culturale. Preciso al riguardo che alla richiesta da parte di due ragazzini di età tra gli otto e i dodici anni sulla nostra nazionalità con un Siete italiani ? soddisfatta dalla pronta risposta di una anziana rappresentante del nostro gruppo con un sì dalle molte i, fece seguito questo secco ed ultimo messaggio Allora siete tutti stronzi. Tutto questo succedeva a debita distanza da noi. Dubito solo ora che fossero dei marocchini.
Ai saluti africani ed in particolare a quelli estesi a piene mani dai cavalieri berberi al termine delle loro esibizioni fa ora riscontro il nostro gesto di okay, un segno dal doppio significato: per chi lo esterna equivale a manifestazione di ringraziamento e riconoscimento mentre per chi lo riceve sta a simboleggiare il loro dio Allah. Il mignolo, l’anulare, il medio e l’ovale formato dall’indice e dal pollice con i polpastrelli uniti rappresentano nell’alfabeto arabo la a, le elle e la acca del nome dell’ente supremo islamico.
Dei grati ricordi restano le istantanee della dicotomia della personalità di queste genti in continua armonia con lo stile tradizionale e quello moderno, della loro compostezza riflessiva saggiamente centellinata tra tempo, velocità e spazio e delle loro giuste attese per un Marocco migliore.







Perdurano ancora fisse le immagini di animali liberi nei loro ambienti quali gatti, galline, cavalli, pecore e somari. La danza delle vespe, delle api e delle mosche nei mercati civici delle varie città incontrate riporta alla memoria, per certi versi, la mia Pratza manna di sessanta anni fa.










Giovanni Mura