venerdì 3 ottobre 2008

IL RETABLO DI S.ANASTASIA (POST. 1585) del maestro di Tonara di Gian Gabriele CAU

di Gian Gabriele Cau

La restituzione al patrimonio culturale artistico della Sardegna di tre tavole superstiti del Retablo di S. Anastasia attribuito ad un anonimo cinquecentesco, convenzionalmente noto come “il Maestro di Tonara”, è cronaca recente. Nel 1997, la tavola della Passione del Cristo è esibita per la prima volta a Sassari, in occasione della Seconda Mostra dell’Antiquariato. Ma solo una accurata ripulitura e un attento e costoso restauro consentono il recupero anche di un S. Michele arcangelo e di un Giudizio Universale e, finalmente, l’esposizione dell’intero trittico nella sala consiliare del Comune di Tonara, nell’aprile 2004.
Le tavole del Retablo di Tonara, unico caso in Sardegna in un retablo cinquecentesco, sono in castagno, un legno tipico di quella Barbagia, che induce a credere che il Maestro abbia operato in loco. Lo stato generale dei dipinti a seguito del restauro è complessivamente discreto, per quanto si registrino non trascurabili cadute di colore e lesioni del supporto, vuoi per la riduzione della tavola (Passione di Gesù Cristo e Giudizio Universale) vuoi per l’inserzione di talune cerniere della cassapanca. Le dimensioni della piccola chiesa rapportate a quelle delle tavole superstiti sembrerebbero escludere una collocazione che non fosse quella della cappella maggiore. Diretta conseguenza di questo postulato sarebbe la necessaria rappresentazione della santa patrona Anastasia (una tavola o un piccolo simulacro in una nicchia ad incasso) cui dirigere le suppliche dei devoti.
Il retablo era verosimilmente strutturato secondo un poco comune schema architettonico di matrice gotica sarda-catalana, accostabile a quello del Retablo di S. Giacomo Maggiore di Ittireddu, caratterizzato da un trittico con tavole sfalsate di differenti dimensioni e sormontato da una canonica Crocifissione (nella fattispecie una Passione di Gesù Cristo) nella cimasa, in linea con la sottostante figura centrale della Santa Anastasia. Le strette bande marginali delle altre due tavole, sulle quali aderivano le cornici a pinnacoli, dichiarano esplicitamente il loro status di pessas foranas: il San Michele nello scomparto sinistro, il Giudizio Universale in quello destro del riguardante. La devastazione della figura del demonio nella tavola del San Michele, presuppone una collocazione del retablo bassa per l’accessibilità da parte di devoti iconoclasti. Un polvarolo e una predella forse di cinque elementi, con la canonica figura del Risorto o dell’Ecce Homo al centro completavano l’ancona.
Il polittico appare come il frutto della collaborazione di due o più personalità prossime ad un ambito culturale riconducibile alla cosiddetta Scuola Cagliaritana di Stampace, che in Pietro Cavaro ebbe l’esponente più dotato. Le tre tavole superstiti sono di grande interesse non tanto per l’intrinseca qualità pittorica, quanto per il singolare accostamento di citazioni dalle opere di un consistente numero di artisti isolani non solo di ambito stampacino. Da una maniera prevalentemente popolareggiante, spesso vernacolare, emergono taluni spunti che rivelano una sorprendente, vastissima conoscenza della realtà artistica isolana della fine del xv e del xvi secolo. Dal Maestro di Olzai, a Lorenzo, Pietro e, forse, Michelangelo Cavaro, ad Antioco e Pietro Mainas, fino ad Andrea Sanna, nel quale si crede di riconoscere il Maestro di Ozieri[1].
Il Cristo crocifisso, l’unica figura nella quale si ravvisi una maniera visibilmente più colta e raffinata, rimanda direttamente a quello realizzato nel 1518 da Pietro Cavaro per la Crocifissione del Retablo di Villamar. Da questo derivano il nimbo in foglia d’oro lavorata a bulino con tre raggi rossi a “T”, la postura degli arti inferiori flessi ad angolo retto e il particolarissimo nodo che cinge il perizoma al fianco sinistro. Di suo il Maestro disegna un fiotto di sangue che fuoriesce dal costato con un vigore che non ha raffronti nella pittura sarda del Cinquecento e che segna in lunghi rivoli il perizoma, secondo un modello comune a tutte le Crocifissioni di Lorenzo Cavaro (si vedano i Retabli di Gonnostramatza, di Giorgino e di Sinnai[2]). Un reiterato rinvio ai maestri di Stampace, pur nella consapevolezza che - è il ginocchio sinistro coperto a rivelarlo - questi stessi tratti siano del tutto estranei al Crocifisso ligneo, detto di Nicodemo di Oristano, preciso riferimento iconografico isolano di quasi tutte le Crocifissioni, per tutto il xvi secolo[3]. Un fatto che suona come qualcosa di più di un omaggio al maestro ideale e che suscita inquietanti interrogativi sul rapporto (di parentela?) del Maestro di Tonara con i capostipiti della Scuola Cagliaritana, aprendo all’eventualità di un diretto coinvolgimento della assai discussa, oscura figura di Michelangelo Cavaro, sopravvissuto alla morte del ben più noto fratello Michele nel 1584[4]. Una ipotesi affascinante, tuttavia asfittica per l’assenza di possibili concreti elementi di comparazione e per la contraddittorietà dell’unico documento disponibile che lo riguardi[5].
Ai piedi dell’immagine di un Cristo decisamente sproporzionato, ma giustificato dall’intenzione di evidenziare il divario di una grandezza divina, sono Maria, Giovanni e la Maddalena, le cui posture e il ripiegamento dei manti - determinante il particolare del fazzoletto stretto fra le mani di quest’ultima ai piedi della croce - non possono assolutamente prescindere dalla Crocifissione del Retablo di Sant’Anna di Sanluri datato 1576 e ricommissionato nel 1571 a Michelangelo Cavaro e Pietro Mainas[6]. Anche l’originale maniera di rappresentare le nuvole globulari, quasi fossero degli acini di un ceruleo grappolo d’uva, riecheggia quelli di numerosi scomparti del Retablo di Sant’Anna, in particolare quello della Nascita di Maria e, nella predella, quelli dell’Assunzione e della Resurrezione.
Nello sfondo, in prossimità di una Gerusalemme che nelle torri a pianta circolare riecheggia quelle delle città turrite del Maestro di Ozieri, come le vignette di un fumetto ante litteram sono ritagliati due originali e interessantissimi piccoli riquadri contigui. Nel primo a sinistra, in chiaro riferimento all’episodio evangelico sui preparativi di quella Pasqua che, col tradimento di Giuda, segnerà l’inizio di quella Passione che nella stessa crocifissione del Cristo raggiungerà il suo apice, sono raffigurati gli apostoli Pietro e Giovanni (uno dei quali a dorso di un asino), che incontrano davanti alle mura della città un personaggio con un otre sotto il braccio[7]. Nel secondo, come illuminato da un improbabile seguipersona teatrale che, staccandolo dallo sfondo, dà voce al brano pittorico, alcuni soldati recanti uno stendardo e delle lance sorvegliano l’esile figuretta di un Cristo in stato di arresto, con le braccia legate dietro la schiena, secondo il racconto dell’evangelista Giovanni[8].
Conferma della diretta e inequivocabile derivazione di entrambi gli episodi dalla Passione di Cristo, cimasa del Retablo di Sant’Elena[9] dell’ozierese Andrea Sanna, è la palmare citazione anche di quel personaggio che, appena occultato dal declivio di un poggio in controluce (pedissequa, si oserebbe dire “sovrapponibile”, la derivazione dal Retablo di Benetutti anche nella sua raffigurazione all’altezza del ginocchio destro del Crocifisso), indica lo svolgersi di quegli eventi, con l’evidentissimo intento di potenziare il significato della narrazione. La particolarità del prestito iconografico permette di individuare un preciso termine post quem nel 1585, data della consacrazione del Retablo di Sant’Elena[10], per la realizzazione del Retablo di Tonara.
Nella seconda tavola, l’unica integralmente riconducibile ad un solo maestro evidentemente più dotato, nella postura il San Michele arcangelo ricalca, per il tramite di una stampa di Nicola Beatricetto, un’idea di Raffaello per il celebre dipinto San Michele debella satana[11]. Al Retablo della peste del Maestro di Olzai[12], da taluni forse identificabile in uno dei capostipiti dei Cavaro, Antonio o lo stesso Lorenzo[13], rimanda, invece, il gesto dello stesso Principe degli angeli, che con un solo strumento pesa le anime e trafigge quanto resta del corpo frantumato di un maligno vittima, ancor prima che di una originale lancia-bilancia, di un malinteso sentimento religioso. Più dello stesso santo, di estremo interesse è la deliziosa rappresentazione di due episodi ispirati al culto michaelico sul Gargano (dove si trova il più antico santuario europeo dedicato all’Angelo), secondo il racconto del Liber de apparitione sancti Michaelis in monte Gargano.
Al primo dei tre prodigiosi eventi ricordati nell’Apparitio rimanda quel brano che, in prossimità della mano destra dell’Angelo, minutamente descrive, con una dovizia di particolari dal sapore vagamente fiammingo, un San Michele in groppa ad un toro presso un dirupo, secondo un modello iconografico diffuso in Italia e in Europa, ma assolutamente inedito in Sardegna[14]. In prossimità di quei gradoni di pietra, che riecheggiano in parte quelli del paesaggio della Crocifissione del Retablo di Sant’Anna e quelli dello sfondo della Crocifissione del Retablo di Iglesias[15] di Antioco Mainas, si compie il secondo episodio, che rievoca la vittoria conseguita, per intercessione dell’Angelo, dai beneventani e dai sipontini sui napoletani, qui costretti a riparare fin sotto le mura della loro città[16].
Soggetto assai raro nella pittura sarda il Giudizio Universale, terza e ultima tavola superstite, denuncia la conoscenza dell’omonimo dipinto dello smembrato Retablo di Serdiana e del Retablo della peste, entrambi del Maestro di Olzai[17], con la puntuale riproposizione di quel personaggio carico di una cesta sulle spalle con due infanti. La scena è caratterizzata da una imponente edicola in forme classicheggianti animata da una moltitudine di personaggi, ma la lacunosità della crosta pittorica non ne permette una chiara lettura. Tra di essi, al centro del tempietto è parte della figura di un angelo, forse identificabile, per il rilievo accordatogli, col San Michele, l’altro arcangelo che col San Gabriele, cui dal 1607 è intitolata la nuova parrocchiale, divide a Tonara e più in generale nelle Barbagie, una devozione antichissima e profonda[18]. Al di sopra di questo, il Risorto si libra alto su alcuni santi, tra i quali pare di distinguere la Santissima Vergine e San Pietro, e su di un certo numero di angeli, alcuni dei quali di profilo denotano una chiara difficoltà del pittore nel rappresentare fisionomie scorciate. Nell’inclinazione della figura, nei pettorali squadrati e nelle pieghe parallele, serrate e fortemente marcate del lenzuolo che gli cinge gli arti inferiori, l’immagine del Salvatore deriva, ancora una volta, da quella dipinta al centro della predella del Retablo di Sant’Anna di Sanluri. Alla sua destra sono le anime nobili e beate dei redenti, alla sua sinistra quelle deformi e sgraziate dei dannati. Tra queste ultime è un irsuto personaggio che, nella mostruosità delle anche convergenti in un solo arto, soffre, tra le fiamme, le pene di un misterioso contrappasso; mentre nella parte centrale e inferiore della tavola alcuni risorti vanno incontro al loro destino, presi in consegna chi da un angelo, chi da un demone alato, sinistramente ittifallico.
La forte incisività della linea che si rileva in taluni tratti conferma – qualora ve ne fosse ancora bisogno – la maniera di un maestro sardo in questa importantissima opera, che a tutti gli effetti segna il luogo di incontro e di compenetrazione tra le Scuole più rappresentative del manierismo isolano. La Stampacina dei Cavaro e la Logudorese di Andrea Sanna. Nel senso, del tutto inedito, nord-sud.


__________________________________________________________________
[1] Per un approfondimento sull’identificazione del Maestro di Ozieri in Andrea Sanna (1535 ca. - 1607/1611) si segnala: G. G. Cau, Il Retablo di S. Elena di Benetutti (1585) del pittore Andrea Sanna detto il Maestro di Ozieri, in «Quaderni Bolotanesi», n. 29, Cagliari 2003, pp. 197-244. G. G. Cau, Il Retablo di S. Maria degli Angeli di Bortigali (post 1550) del pittore Andrea Sanna detto il Maestro di Ozieri, in «Quaderni Bolotanesi», n.30, xxx, Cagliari 2004, pp. 297-332. M. Farina, Retablo firmato da Andrea Sanna. Sarebbe il Maestro di Ozieri l’autore dell’opera in Cattedrale [di Ozieri}, in «La Nuova Sardegna», Sassari 5 marzo 2003, p. 27.
[2] Lorenzo Cavaro, Retablo di Gonnostramatza, 1501, doppio trittico, tempera su tavola; Lorenzo Cavaro e bottega (attr.) Retablo di Giorgino, 1508, due elementi di polittico, tempera su tavola, Torino, collez. Ballero; Retablo di Sinnai, 1508 circa, doppio trittico, tempera su tavola cm 168 x 128, Sinnai, chiesa di Santa Vittoria.
[3] Il prezioso simulacro conservato presso la chiesa di San Francesco ad Oristano è caratterizzato dalle gambe ripiegate ad angolo retto, da una marcata strozzatura della vita, dal perizoma annodato al fianco destro, dal ginocchio destro scoperto, dall’alluce del piede destro divaricato e ripiegato, dalle dita delle mani contratte nello spasmo della morte, dallo scorrere di rivoli di sangue sugli avambracci e da un disegno delle sopracciglia inclinate all’esterno.
[4] Nel testamento di Michele Cavaro, Michelangelo è investito dell’incarico di esecutore testamentario, cf. Archivio di Stato di Cagliari, Minutario del notaio Gerolamo Ordà, atti notarili legali n. 1557, f. 273, in G. Olla Repetto, Contributi alla storia della pittura sarda nel Rinascimento in “ Commentari”, XV, n. I - II, Roma 1964, p. 126. Per certo Michelangelo Cavaro è già morto il 29 aprile 1594, quando un certo Antonio Cavaro compare in nota ad uno strumento notarile in qualità di suo erede, cf. C. Aru, La pittura sarda nel Rinascimento in «Archivio Storico Sardo», XVI, Cagliari 1926, p. 173.
[5] In più riprese Carlo Aru manifestò il dubbio sulla possibilità di riconoscere la qualifica di pittore al minore dei figli di Pietro Cavaro. L’equivoco nasce dall’ambiguità dell’atto di allocazione del Retablo di Sant’Anna di Sanluri, nel quale il nome «Michelangelus» compare una sola volta, volvendo in «Michael» nelle successive citazioni all’interno dello stesso documento. Di qui il dubbio che possa trattarsi di un errore del notaio che rogò quell’atto. L’ipotesi si fa forte del fatto che in tutti i rimanenti documenti reperiti al nome di Michelangelo non segua mai la qualifica di pittore, cf. Archivio di Stato di Cagliari, Minutario del notaio Gerolamo Ordà, atto rogato il 30 luglio 1571, f. 163, in C. Aru, La pittura sarda nel Rinascimento in «Archivio Storico Sardo», XV, fasc. 1 e 2, Cagliari 1924, p. 6, n.1; C. Aru, La pittura sarda nel Rinascimento, cit., pp. 175-176.
[6] Il Retablo di Sant’Anna fu commissionato ad Antioco Mainas, ma a seguito della sua prematura scomparsa (ante 30 luglio 1571) il figlio Pietro Mainas e Michelangelo (o Michele) Cavaro assunsero il compito di portare a termine l’opera, che fu consacrata, probabilmente sull’altare maggiore, nella parrocchiale di Sant’Anna di Sanluri il 12 dicembre del 1576.
[7] “Nel primo giorno degli Azzimi, all’ora in cui si immolava l’agnello pasquale [crepuscolo], i suoi discepoli gli dicono: «Dove vuoi che andiamo a preparare perché tu possa mangiare la Pasqua?» (cf. Nuovo Testamento, Vangelo di Marco, cap. 14, vers. 12.). Rispose loro: «Ecco, quando sarete sul punto d’entrare in città, vi si farà incontro un uomo che porta una brocca d’acqua […]»”, (ibidem, cap. 22, vers. 8).
[8] Cf. Nuovo Testamento, Vangelo di Giovanni, cap. 18, vers. 1, 3, 12-13.
[9] Andrea Sanna, Passione di Cristo, cimasa del Retablo di Sant’Elena di Benetutti, 1585, cm 145 x 149, olio su tavola, Benetutti, parrocchiale di Sant’Elena.
[10] Per un’analisi più dettagliata della complessa allegoria della data e della firma del Retablo di Sant’Elena si rinvia al saggio di G. G. Cau, Il Retablo di S. Elena di Benetutti (1585) del pittore Andrea Sanna detto il Maestro di Ozieri, cit. pp. 225-237.
[11] L’incisione (bulino, 1540 ca. mm 454 x 310) presenta differenze sostanziali col dipinto realizzato da Raffaello per incarico di Leone X e Lorenzo de’ Medici nel 1518. Essa deriva da un disegno oggi disperso che è una importante testimonianza dell’idea originale del Maestro, prima delle numerose alterazioni subite dal dipinto nel corso dei secoli. La tela originale del San Michele debella satana (1518) di cm 268 x160, è conservata a Parigi presso il Museo del Louvre.
[12] Maestro di Olzai, Retablo della peste, post 1477, polittico, tempera su tavola con fondo oro, Olzai, chiesa di Santa Barbara.
[13] R. Serra, Pittura e scultura dall’età Romanica alla fine del ‘500, collana “Storia dell’arte in Sardegna” diretta da Corrado Maltese, Nuoro 1990, p. 173.
[14] La storia del santuario e del culto dell'Angelo sul Gargano è riassunta in tre episodi nel Liber de apparitione sancti Michaelis in monte Gargano un testo agiografico, risalente alla fine dell'VIII secolo. Il più noto di questi è sicuramente quello del toro, divenuto quasi un simbolo del culto michaelico del Gargano. Gargano, un ricco pastore di Siponto (Foggia), al rientro del gregge, accortosi della mancanza di un toro ne organizza la ricerca. Ritrovato il toro presso una grotta, il bovaro, preso dall'ira, gli scaglia contro una freccia avvelenata che, tornata inspiegabilmente indietro, colpisce lui. I Sipontini, impressionati dall'episodio, chiedono spiegazione al loro vescovo che dispone tre giorni di digiuno. Al termine dei quali appare al vescovo l'arcangelo Michele, che dichiara che l'episodio misterioso era stato voluto da lui per dimostrare di essere patrono e custode del luogo. L'episodio, segna il trionfo del cristianesimo sul paganesimo rappresentato da Gargano.
[15] Antioco Mainas (attr.), Retablo di San Francesco di Iglesias, polittico, tempera e olio su tavola, Iglesias chiesa di San Francesco.
[16] Secondo il racconto del Liber de apparitione, nell’anno 492 la città di Siponto era assediata dagli Eruli guidati da Odoacre ed era sul punto di capitolare. Cosicché, il vescovo Maiorano mandò da Odoacre degli ambasciatori, ottenendo una tregua di tre giorni che la popolazione sipontina dedicò in preghiere e penitenze a San Michele. E fu allora che l’Arcangelo fece la sua apparizione, promettendo il suo aiuto a patto che la città non si fosse arresa ai barbari. Il contrattacco della popolazione sipontina si rivelò un successo, dal momento che una tempesta di grandine e sabbia mise in fuga le orde barbariche di Odoacre. In segno di ringraziamento, il Vescovo ordinò una processione verso la grotta dell’Arcangelo, non facendovi, però, ingresso.
[17] Maestro di Olzai, Retablo del Giudizio Universale, fine sec. XV, due elementi di polittico, Serdiana, chiesa di Santa Maria di Sibiola (in deposito presso la Pinacoteca Nazionale di Cagliari).
[18] «La divozione agli Arcangeli Gabriele e Michele, così diffusa in Barbagia, si ricollega in Tonara al fatto che numerose comitive di fedeli, in tempi remotissimi, risalivano i contrafforti e le pendici del Gennargentu, percorrendo una trentina di chilometri fino a Villanova Strisaili, nei cui dintorni si festeggia ancora l’annuale dell’arcangelo Gabriele. Con questa divozione è unita l’antica importazione dell’orzo primaticcio dai campi pressi il mare di Tortolì », cf. R. Bonu, Tonara, Nuoro 2004, p. 20, n. 20. Ad Aritzo, a soli 14 km da Tonara, la stessa parrocchiale è sotto il titolo S. Michele Arcangelo.

____