La mattina di fine gennaio che mi
accoglie a Tonara sul piazzale Sa
Discarriga nella frazione di Toneri
è molto fredda.
Io mi trovo vicino ad uno dei sedili in granito che movimentano questo
caratteristico belvedere formato dalla terra di riporto delle fondazioni delle
costruzioni a monte. Da una nota dei registri consiliari del 1906 apprendiamo
che per l’abbellimento di tale spiazzo, chiamato allora Piazza Boni, vennero sistemati lungo il perimetro esterno dodici
panchine dalla forma a pi greco. Il
lavoro, commissionato a Bernardo Madeddu,
fu eseguito per l’importo di 84 lire.
Lo sguardo dello spettatore volge, da
nord a sud, in corrispondenza delle montagne, dell’abitato e dell’ampia
vallata. Orfano di messaggi paesaggistici è il solo settore occidentale.
Di fronte a me, con occhi rivolti ad oriente, nella parte alta è Punta
Fais mentre ad alzo zero ed in basso occupa la mia visuale per diversi gradi il
severo campanile della pieve. Per la sua forma saprei riconoscerlo tra mille
soggetti. Se potessi realizzare un modellino in legno non faticherei più di
tanto per eseguire il lavoro. Si tratta di una struttura poliedrica formata da
diversi prismi di base quadrata ma di differente altezza che si intervallano
nella loro successione verso l’alto con evidenti incorniciature in trachite
modellate ad arte lungo gli spigoli laterali delle facce superiori, e da una
piramide che nel suo vertice crea lo spazio per una sfera della grandezza di un
pallone da calcio, per una figura ellittica che rappresenta un pesce, il
simbolo della redenzione, e per la croce. Qualcuno mi ricorderà che in alto c’è
anche un parafulmine. Si c’è anche quello.
Fino a quando il significato dell’acronimo greco dell’animale non mi era
stato svelato avevo sempre creduto, perché così mi avevano informato, che
quella ellisse presagisse la morte di qualcuno. Specie quando l’orientamento,
nel suo movimento a 360° attorno alla croce, insisteva in una posizione ben
precisa, era da presumere che un’anima del villaggio dovesse salutare per
sempre i tre rioni.
Dei blocchi sovrapposti:
·
Il
primo, addossato alle sue fondamenta ed in parte incassato tra la facciata
della chiesa e la navata laterale sinistra, immette a metà altezza, attraverso
una scala a chiocciola sufficientemente illuminata da piccole feritoie
circolari, alla tribuna del coro.
·
Il
secondo, a forma di cubo, servito anch’esso da finestre a forma di oblò, offre
il testimone al vano delle campane.
·
Il
terzo è riservato al settore campanario di cui fanno parte le piccole campane
sospese alle arcate delle finestre ed il campanone. Quest’ultimo è delegato a
ricevere tanto i colpi del batacchio azionato dalle corde del campanaro come
anche quelli del martello messo in funzione dall’orologio.
·
Il
quarto rappresenta il punto di raccolta della strumentazione di bordo
dell’orologio. Non ho mai avuto la fortuna di accedervi. Superiormente, in
direzione della volta, una piccola apertura consente, attraverso una
piattaforma esterna, di operare attorno alla piramide. Agli inizi del secolo
scorso la sommità del campanile rispettava una forma a cupola mentre i pannelli
degli orologi che ora insistono su delle corone circolari erano di forma
quadrata.
Lassù sulla cresta montagnosa che ospita Cima Fais conto di arrivarci prima di mezzogiorno. Avevo
programmato questa visita da tempo e finalmente il momento è arrivato. So che
in alto farà tanto, tanto freddo, ma non demordo dall’idea di avventurarmi in
quella terra di nessuno.
Lungo le strade che delimitano e
fiancheggiano questa caratteristica piazza, che nel lontano 1921 si onorò di
ospitare per una decina di minuti D. H.
Lawrence, la celebre penna d’oltre Manica, non si vede anima viva.
In cielo, mentre il sole viaggia sul tratto ascendente della sua
parabola, la luna, con la sua gobba orientata a ponente, sta per congedarsi
dalla mia visuale. Adesso, ore nove del mattino, staziona immobile quasi a
perpendicolo sulla rupe di Su Toni. Mi
viene quasi da chiederle: Ma ci sei(s) o ci fai(s) ? Raramente, in questo centro montano, mi era capitato di vedere
i due astri in contemporanea sulla volta celeste.
Di spalle, nei pressi della fontanella pubblica, il caldarrostaio sta
ultimando di montare i raccordi della sua bancarella fatta di un tavolo di
legni d’abete e di una tenda di colore bianco. Assi di diverse misure,
angoliere, ganci, treppiedi e cordami vari traboccano in grande quantità
dall’interno di un piccolo furgone. Gli strumenti di cottura, i prodotti di
combustione a base di carbone, i sacchetti di castagne ed il registratore di
cassa entreranno in funzione nel tardo pomeriggio.
A qualche metro dal fontanile è parcheggiato il mezzo di trasporto che
mi porterà sulla montagna. Un cartello in bella evidenza indica le tratte
invernali per i luoghi caratteristici di questo centro a vocazione turistica:
alle 10 per Punta Fais, alle 12 per Su Ponte de Su Samucu ed alle 15 per Ghenna ‘e Crecu.
Presumo che:
a)
per
Cima Fais il passaggio si effettui lungo sentieri camionabili a nord
dell’abitato di Arasulè oppure
transitando per l’arteria asfaltata che da Pilosu,
borgata dell’estrema periferia, porta a quota 1450 nei pressi di Muggianeddu.
b)
per
il caratteristico ponte ferroviario a doppia arcata si proceda con la strada
non asfaltata che da Pischinartui,
dopo l’attraversamento del rione di Su
Pranu, porta a S’Argiola de Sa Serra,
Talaristini e Su Mont’Urrubiu. In alternativa si potrà scendere verso la frazione
di Teliseri ed inseguire il tracciato
che conduce alle regioni di Santa
Anastasia, Murù e Tugurui, per poi ricongiungersi a S’argiola de Sa serra e continuare sino
a Su Mont’Urrubiu. Da questa stazione
di arrivo si dovrà procedere a piedi lungo la discesa che porta alla linea
ferroviaria.
Per gli abitanti di Toneri, rione ubicato a mezza costa tra
le frazioni di Arasulè e Teliseri, il percorso da sfruttare per
il raggiungimento del singolare ponte ferroviario insiste sul passaggio nei
siti agrari di Martzulè, Utzasè, Funtana tia, Crechigiu, Su montigu de is Porros, Cucuru ‘e Figos, Istrullau, Talare e Malasasà e Su Monte Orrubiu. In alternativa a detto tracciato, a partire da
Cucuru ‘e Figos si potrà procedere all’attraversamento del tancato di Tiu Nannei, un
possidente del passato.
Alla fine della discesa il ponte ti accoglie
con il suo notevole strapiombo. Da piccolo ho sempre evitato di ricorrere, per
eccesso di prudenza, alle ringhiere di protezione. Ho sempre preferito passare
in mezzo alle rotaie. Il problema delle vertigini si avverte in misura minore.
c)
per
Ghenna ‘e Crecu, a 1095 metri di
quota, sia necessario portarsi a Pischinartui,
continuare per Latzarasà, Su Calavrige, Curadore e ripiegare verso il sentiero che indirizza verso l’alto.
L’ultima tappa è in località Terrabatzò,
la base della vetta da scalare. Il mezzo non può andare oltre. Si dovrà
procedere a piedi su un percorso privo di vegetazione arborea ma ricco di
ciuffi di timo e di altre piante care alla cucina. Gli spazi migliori sono
quelli rivolti verso il Campidano,
con corridoi di lettura che interessano il vicino Barigadu. Quando si è in cima, la visibilità opera a
trecentosessanta gradi ed il territorio circostante è tutto sotto i piedi
dell’osservatore.
Finalmente si parte. Il mezzo mi
porta subito verso Arasulè per
inseguire, una volta in periferia, siti territoriali che avevo già percorso altre
volte ma che ora rivedo sotto una luce diversa grazie a testimonianze di
documenti dei secoli scorsi. Molti dei terreni attraversati, infatti, sono
stati aggiudicati in conto donazione a diversi chierici locali. Anche i fondi
terrieri ubicati ad alta quota, le cosiddette terras de monte, avevano nel passato una leggera propensione a
fruttificare qualche reddito. Oggi sono delle res nullius nonostante l’uomo abbia rimediato alla loro improduttività
con degli impianti boschivi di aghifoglie.
Sui bordi stradali delle ultime
rampe di questa montagna la neve è presente prima con esili spruzzate, poi con
tappeti sempre più estesi sino a raggiungere l’intera copertura del territorio
verso quota 1450.
Qui il mezzo si ferma. Oltre non si può procedere che a piedi. Il rientro
è previsto per le undici e trenta esatte.
Intanto approfitto di una breve pausa per indossare tra calzini e
calzari delle buste di plastica. E’ una operazione che richiede del tempo ma è
un atto necessario per prevenire il congelamento degli arti inferiori. Agendo
in questo modo mi è sempre andata bene. Provare per credere. Se le buste non si
bucheranno i nostri piedi resteranno sempre al caldo.
In marcia verso Punta Giovanni
Fais aggiro volutamente l’altana del Muggianeddu
sulla quale, nel periodo estivo, operano le guardie antincendio. La ragione
è semplice. Da militare, negli anni sessanta durante un campo invernale in quel
di Doberdò sul lago ho rischiato una
brutta avventura. Questo succedeva durante
la visita a qualche camminamento della guerra del 15-18, nelle mie ore di
libera uscita. Tanto per dare un riferimento alla geografia del luogo devo
specificare che di spalle avevo i cantieri di Monfalcone, alla mia sinistra il monumentale cimitero di Redipuglia, di fronte, ma molto in
lontananza, la città di Gorizia e
sulla destra la Iugoslavia. Io stavo procedendo tranquillamente verso il
confine quando, a un certo punto, mi accorsi di trovarmi di fronte ad una
altana sulla quale sostavano in tenuta bellica due vedette. Dall’uniforme
sembravano due pompieri. Erano quelle le loro divise militari. Non si accorsero
di nulla ed io potei, grazie alla morfologia del paesaggio carsico riguadagnare
posizioni di assoluta tranquillità. Ero assolutamente convinto che i segni di
confine fossero segnati in modo chiaro sul terreno. Nulla di tutto questo. Era
il periodo della guerra fredda! I superiori mi precisarono che avevo corso un
serio pericolo.
Ed eccomi su Cima Fais. Il
punto più elevato è contrassegnato da un grosso masso che supporta una
struttura edilizia costituita dall’assemblaggio di una cinquantina di pietre di
scisto posizionate senza alcun ordine compositivo. Sembra una pila con diversi
piatti per ogni strato. Tenendo conto anche del basamento l’insieme suggerisce
l’idea di un vecchio scarpone dell’altezza di circa tre metri, del volume di
tre o quattro metri cubi e del peso di molte tonnellate. Imbiancato cosi come è
non riesco a capire se le varie schegge lapidee che compongono la parte
superiore siano saldate tra di loro con del calcestruzzo e se siano ancorate al
basamento con il medesimo collante. Complimenti comunque a quanti hanno
progettato e realizzato il lavoro.
Istintivamente cerco di inquadrare ad occidente la mia abitazione di Toneri ma inutilmente. Devo guadagnare
altre posizioni per riuscire a mettere a fuoco il mio obiettivo. Ed eccola là
in fondo. E’ divertente comparare la minuscola definizione edilizia con altri
spazi, altre profondità, altre angolazioni, altre sfumature.
Molte postazioni del paese sfuggono alle mia visuale in quanto nascoste
dal versante o dalla folta vegetazione.
Di Ilalà, frazione abbandonata
circa una ottantina di anni addietro, è impossibile vedere le sue rovine o i
comparti boschivi prossimi alle sue adiacenze. D’altronde da questa frazione
non è che si possano vedere paesaggi particolari se non quelli che portano alla
rupe di Su Toni o alle parti
superiori di Arasulè. Anna Garau, che vi aveva abitato da
giovanissima, mi aveva riferito in una intervista intorno agli anni sessanta,
che il vicinato di Arasulè,
rischiarato dalla luce debole dei lampioni appena installati nel 1927, le appariva
come in un presepio. Mi pariada unu nitzu.
Spaziando sui panorami che portano all’altura di Ghenna ‘e Crecu, il posto dove tramonta il sole, o più a sinistra
verso le depressioni che precipitano a quote inferiori a cinquecento metri è un
susseguirsi di siti che ho frequentato in gioventù e che ora sembrano invitarmi
ad un rendez-vous naturalistico.
Al centro del territorio si vedono in modo molto nitido i terreni brulli
de Su Nuratziu, la montagnola che si eleva rispetto al rione denominato Su Pranu di una trentina di metri. Il Della Marmora definì detta altura con i
suoi strumenti a quota 957 metri. Da detto punto le distanze corrono agli estremi
confini del territorio tonarese come i raggi di una circonferenza.
Non è detto che la località appena definita corrisponda al punto
centrale dell’insieme. Io, per questioni di comodità ed opportunità, preferisco
sempre servirmi dell’avamposto denominato Pischinartui.
Nessuno me lo vieta d’altronde.
Quando i logaritmi entrarono a pieno titolo nello studio della
matematica vi fu chi scelse di costruirsi delle tavole in una base qualsiasi.
Base 10, base due, base tre. Nepero
optò per un numero compreso tra due e tre. Un numero decimale illimitato ma non
di natura periodica. Nessuno ebbe da ridire. Anzi!
La mia base di partenza, ripeto, è Pischinartui.
E’ da questa località che si irradiano tutti i percorsi che portano verso le
estreme periferie territoriali.
Nelle prossime vicinanze è il campo sportivo. La sua altitudine sul
livello del mare sarà intorno ai 930 metri. Se un oggetto venisse sganciato da un
velivolo da quota 1496 sarebbe visibile, sino all’impatto con il terreno, per
il tempo di undici secondi.
Il minimo altimetrico dell’agro tonarese, non visibile dalla postazione
che mi ospita, è a 470 metri in località Is
Putzos dove passa l’omonimo corso d’acqua. A questo punto il dislivello,
superiore al chilometro (1026 metri), genererebbe delle percorrenze, per il
grave in caduta libera, intorno ai 15 secondi.
Perché questa digressione temporale? si chiederà qualcuno. Rispondo che
è sempre bene concedersi ad una riflessione su detta entità immateriale. Se il
tempo non esistesse non avrebbe senso parlare di velocità, di accelerazione, di
forze gravitazionali, di spazio. Se provate per astratto ad escludere dai
vostri ragionamenti detto importante fattore che è il tempo vi accorgerete di
affondare nel buio più profondo. Non se ne può fare proprio a meno di detta
dimensione. D'altronde anche il Nostro Superiore quando si assunse il compito
di realizzare il creato dovette farvi ricorso per ben sette giorni.
Spostando lo sguardo di qualche grado leggermente verso destra ecco Funtana tia, il luogo ombroso che tanti
sospirano dopo tanto faticare dalle località del fondovalle. Per chi rientrava
da Trichisilalà, un pugno di piccole
proprietà terriere affogate sul versante sottostante il casello ferroviario de Su Monte Orrubiu, risalire l’erta della
montagna, passando per il tancato di tiu Nannei, significava superare in poco
spazio un dislivello superiore ai trecento metri. Al culmine della salita
potevi riposarti ma non dissetarti. Occorreva gioco forza fare tappa a Funtana tia. Mentre in precedenza ti
dovevi confrontare ad alzo zero con pareti che non finivano mai di propinarti
sentieri ad alto valore tangenziale ora in prossimità di Cucuru ‘e Figos potevi respirare a pieni polmoni su un percorso che
in leggera discesa ti portava verso l’acqua. Dietro di te non più le chiome
delle querce appena superate ma l’ombra dei castagni delle zone umide de Su Pardu di Toneri.
Benedetta fontana! L’ho sempre chiamata così, con il nome improprio di Funtana Tia. Le ricerche successive mi
hanno condotto ad altre definizioni del suo toponimo, che qui cerco di esporre
in estrema sintesi. I registri consiliari del 1897 ricordano detta sorgente naturale
con l’espressione Funtanatia. In tale
anno, il muratore Chiaffredo La Croce
vi fece dei lavori di ristrutturazione. Successivamente, nel 1907, fu
necessario fare ricorso, per lavori di riattamento, al signor Giovanni Porru. Gli fu corrisposta la
somma di 23 lire.
Dal libro dei censi (crediti
ipotecari) della parrocchia del 1815, registro custodito presso l’archivio
storico diocesano di Oristano, apprendiamo, secondo le risultanze di un atto
notarile del 1713, che la regione in cui si ritrova la nota falda acquifera
veniva denominata Batia eo Crechigiu mentre secondo le attestazioni di un
rogito del 1738 veniva segnalata come Funtana de Batia.
In questo secondo caso il fonte è legato ad un nome di persona, Batia appunto (forse Battista).
Andiamo per ordine segnalando per
intero il contenuto di entrambi i contratti di mutuo.
Nel foglio n°41 è detto:
Fran(cis)co Porru Todde deve dies escud(o)s con hip(otec)a de toda la viña de Batia, eo Crechigiu, q(ue)
afronta de una parte a poss(ess)o de M(estr)e Baquis Todde camino en medio, de
otra parte a poss(ess)o de Dorotea Pinna, y de otra a poss(ess)o delos
hered(ero)s de Sebastian Zucca Sedda assibien camino en medio segun auto
1.Abril 1713. Tonara rogado Domingo Deligia.
L’immobile sul quale è stata accesa l’ipoteca ha il valore di dieci
scudi mentre la rata annua che il mutuante deve corrispondere alla chiesa, ente
erogatore, è di lire due. Il tasso praticato è dell’8%.
Nel foglio n°6 è riportato quanto segue:
Gabriel Mele, y Antonio Mamely
deven doze escudos, y medio con hipoteca a saber d(ich)o Mele de todo aquel
possesso de arboles de castaños q(ue) tiene en el lugar llamado Funtana de Battia q(ue) afronta cabessa
a possesso de Fran(cis)co, y Juan Maria Sulis, de pies a possesso de Maria, y
Juan Porru, de un costado a serrado de la viuda Fran(cis)ca Deligia, y de otro
a possesso de Pedro Zuca:
y d(ic)ho Mamely hipoteca toda aquella viña q(ue) tiene en Tonitzò,
q(ue) afronta de cabessa à vina de Ambrosio Cedde, de pies a majuelo de Barnabè
Tocory, de un costado a majuelo de Joseph Pollie, camino en medio con auto
18:7(m)bre 1738: rogado Pedro Antiogo Mura Tonara:
A fronte di una rata annua di due lire e dieci soldi, i chiedenti mutuo
hanno ipotecato i loro beni di Battia e Tonitzò per il valore di dodici scudi e
mezzo. Considerando che il valore immobiliare e la rispettiva pensione
corrispondono rispettivamente a 625 e 50 soldi risulta che il tasso annuo
praticato è dell’8%.
Sempre nel libro citato, capitolo
dei Predios y tierras dela Paroq(uia)l
Igl(esi)a, al foglio n°134, si fa riferimento ancora a Batia ma non alla fontana. In un passaggio dal periodo sospeso e
purtroppo senza data si fa riferimento al
castaño grande de Batia cedido de Juan Angel Garau q(ue)
afronta ( ).
Per migliori ragguagli si rimanda al primo volume della collana Memorie tonaresi dal titolo L’Amministrazione dei beni della chiesa nel
periodo sabaudo.
Del toponimo in questione abbiamo un ulteriore riscontro nel Fondo patrimoni ecclesiastici dell’Archivio
storico diocesano di Oristano.
Nell’atto di donazione effettuato nel 1766 in
favore del chierico Michele Angelo Zucca
Sedda di Toneri, il notaio Giuseppe Emanuele Dearca riferisce che
tra i beni donati dalla signora Geltrude Sedda, vedova di Pietro Zucca, è
compreso todo el territ(ori)o arboleado a castaños lugar d(ich)o Batia assibien de la
d(ich)a Donadora, emprecio (sic) de
sinq(uen)ta libras, q(ue) afronta cabessa a territorio de los hered(ero)s de
Andres Zuca, pies al camino Real, de un costado a territ(ori)o de Juan Flore, y
de otro costado a territ(ori)o de los hered(ero)s de Gabriel Mele, y otras
&, con todos sus derechos &.
Si rimanda alla seconda parte del
terzo volume della collana Memorie
tonaresi dal titolo Donazioni a
favore di chierici locali.
Socchiudendo gli occhi si ha l’impressione di vedere oltre all’ampia
vallata che mi sta di fronte diversi gruppi montagnosi che leggermente vanno a
scalare verso la pianura campidanese. Oltre è ben visibile il mare.
Alla mia destra verso nord le montagne della Barbagia di Ollolai mi consentono di vedere alcuni agglomerati
urbani di difficile identificazione. Non faccio nessuna fatica, invece, a
riconoscere il santuario della Madonna
di Gonare ad Orani.
Alla mia sinistra i monti di Aritzo
e di Belvi chiudono ogni visuale
verso mezzogiorno. Dietro detti crinali ma molto in basso c’è Gadoni ma detto centro non è visibile in
quanto adagiato sul versante opposto. Ma quanto dovrebbe essere alta la
montagna su cui mi trovo per poter avvistare anche i villaggi più a valle? Meana invece si vede benissimo. Potessi
disporre di un potete binocolo riuscirei a mettere a fuoco molte inquadrature.
E di spalle? Di spalle ad oriente c’è il Gennargentu. Innevato in ogni ordine di forre e di anfratti. Nitide
le postazioni di Punta Paolina e di Punta La Marmora. Del Bruncuspina non so riferire alcunché per
non esserci mai stato. Siamo sempre nel Mandrolisai,
il primo dipartimento della Barbagia
centrale.
Se mi fosse possibile omaggerei ciascun paese del Nuorese con delle
lastre di scisto che poggiano sul versante occidentale di Punta Paolina. Il monte, chiamato una volta Su Sciusciu, per via della singolare murata di migliaia e migliaia
di lastre e lastroni cadenzate lungo il pendio, non perderebbe nulla della sua
spettacolarità di pietre immobili ma in apparente movimento di caduta se diventasse
orfana del materiale lapideo da consegnare alle piazze più importanti dei vari
centri barbaricini. Pietra del
Gennargentu, indicherebbero i cartelli turistici. Io dal canto mio potrei
soddisfare le sospirate richieste delle varie comunità eseguendo il semplice comando
informatico di Taglia e incolla.
Nelle immediate adiacenze c’è abbondante spazio per procedere al di qua
e al di là del crinale senza paura di cadere o su un versante o sull’altro. Non
siamo mica sulle Dolomiti, qui gli estremi limiti del territorio sono ampiamente
modellati ad ondulazioni.
In alto il cielo è terso e le
nuvole scompaiono dalla mia vista. Di rapaci che volteggiano nell’aria alla ricerca
di cibo neppure l’ombra. In questa lettura di panorami ad alta quota non
avverto sul terreno alcun movimento sospetto di animali selvatici. I leprotti
che normalmente arrancano buffamente con le loro lunghe gambe posteriori sui
terreni scoscesi si sono forse concessi una tregua temporanea.
Ben diverso il comportamento di alcuni rappresentanti della fauna
selvatica del Gran Paradiso i quali, durante una mia breve visita in montagna di
diversi anni fa, sembravano soddisfare la mia curiosità regalando fugaci
apparizioni per poi battere in ritirata. Questo succedeva soprattutto quando mi
trovavo a tu per tu con le marmotte e gli stambecchi. Le prime dopo aver posato
a debita distanza per tempi brevissimi, si eclissavano istantaneamente nei loro
cunicoli sotterranei mentre i secondi, pur lontani dal mio punto di
osservazione, dopo avermi fatto un inchino dall’alto delle rocce a perpendicolo
sul territorio, indietreggiavano quel tanto che basta per scomparire definitivamente
dalla mia visuale.
Oggi per gli animali deve essere giorno di riposo. Non so fino a quando
durerà questa forma di astensionismo che per certi versi va ad interessare
anche gli eventi meteo. Qui l’immobilità d’immagini e di paesaggi è nettamente
in contrasto con le tonalità struggenti ed altamente emozionanti del mio stato
d’animo, letteralmente soggiogato dagli scenari offerti da questi avamposti
naturali. Eppure non sono facile alla commozione. Gradirei esternare ad altri i
sentimenti che provo ma sento che non riuscirei mai a soddisfare appieno questo
mio proposito. So anche che il tentativo di rimediare con un Copia e incolla vanificherebbe i
risultati finali in quanto l’originale che resta in me è sicuramente il
documento più fedele. Tutte le altre copie peccherebbero di una imperfetta
messa a fuoco.
Con me non ho, come al solito, macchine fotografiche o cineprese.
Testardamente mi ripongo alla fiducia della mia memoria visiva. Non ho alcun
taccuino per gli appunti né sarei in grado, dato il freddo intenso, di reggere
la penna in mano. Solo i piedi stanno al caldo grazie alle buste di plastica.
Della visita alle famose fonti che interessano questo versante e che in
passato sono servite per rifornire il deposito dell’acqua sarà per un’altra
volta.
Essendo
assolutamente insufficienti ai bisogni della popolazione, precisa una nota
consiliare del 1926, le scarse fonti
esistenti dentro e in prossimità dell’abitato specie durante la stagione
estiva, si
delibera in consiglio comunale per la costruzione dell’acquedotto con la
designazione delle sorgenti di Osolì,
Funtana fritta, Bau ‘e seos e Mussu Impera Maria le cui acque all’esame batteriologico
e chimico sono risultate ottime.
Riferisce il parroco Raimondo Bonu nel suo lavoro su Tonara
che all’inaugurazione dell’opera idraulica, avvenuta il 16 ottobre del 1932,
presenziarono il prefetto Michele
Chiaramonte ed il podestà Giovanni
Antioco Carta. La gestione relativa all’erogazione del prezioso liquido
venne affidata al Comune.
Per il
momento è fine delle trasmissioni con l’alta quota. La mia puntualità al punto
di ritrovo con il mezzo di ritorno al paese è garantita con un forte anticipo
rispetto all’orario convenuto. Strano, ma del mezzo gommato non c’è più
traccia. E’ sparito come d’incanto. Nessun segno di ruote gommate sulla neve
fresca.
Mi rincuora la presenza di un cavallo
stanco sempre disponibile ai comandi del padrone. E’ il mio destriero. E’
anziano e di queste lune ha compiuto settantatre anni. Gioisce nel rivedere
questi tratturi. Sembra ricordarmi della volta, era l’agosto del 1953, che mi
condusse a passo spedito sul Gennargentu e sul lago Flumendosa. Altri tempi per il mio cavallo francescano! Per una
cataratta dovrò portarlo dal veterinario fra qualche mese. Si ristabilirà
prontamente. Glielo auguro di tutto cuore.
E su caddu de Santu Frantziscu,
nello stesso modo con cui mi aveva accompagnato in salita mi riporta lentamente
in discesa verso il paese. Sul piazzale Sa
Discarriga anche il venditore di caldarroste ha tradito le mie attese.
Strano, ma anche il cartello con gli orari invernali per Cima Fais, Su Ponte de su
Samucu e Ghenna ‘e Crecu non è
più leggibile. Forse non sono ancora maturi i tempi per certe definizioni
turistiche. Forse ho forzato un po’ troppo la mia fantasia.
Sulla strada non vedo ancora nessuno. Un cane, padrone assoluto della
circolazione viaria, viaggia indisturbato sulla mezzeria, ma con tono molto dimesso.
Forse avrà ululato per tutta la notte. Mi rivolge appena lo sguardo quasi per
parteciparmi che qui lo spopolamento è una piaga sociale. I progetti ad meliora sono da rimandare ad altre
occasioni. Mala tempora currunt!