domenica 2 giugno 2013

Caminos de monte di Nino Mura

Caminos de monte

(dal Blog Pratza Manna: Tonara nel prsente e nel passato)
  




Caminos de monte è una manifestazione sportiva di carattere non agonistico che si disputa annualmente a Tonara, sulla distanza di 12 chilometri, nelle prime settimane di maggio. L’appuntamento, riservato a marciatori di ogni età, prevede anche la possibilità per un percorso più breve ma ugualmente impegnativo. La pendenza è sempre contenuta anche se si viaggia su quote che vanno dai 900 ai 1500 metri. Questo non impedisce a qualcuno di ritenersi un perfetto scalatore o rocciatore anche se di scalate o arrampicate c’è poco o niente. Cuore, polmoni e un po’ di allenamento sono sufficienti per fugare ogni timore di insuccesso. Tutti possono arrivare al traguardo finale. Di premi da distribuire ai partecipanti non ce ne sono. Valgono unicamente quelli omaggiati a tutto campo da madre natura con i superbi e mutevoli passaggi e paesaggi d’alta montagna.









Io non faccio parte degli iscritti. Sono a corto di fiato e soprattutto di energie giovanili. Eppure, per onorare l’invito propostomi dalla Pro Loco, l’ente che organizza la manifestazione, non mi è mai mancato il tempo, in questo periodo scorso, per qualche supplemento di passeggiata. Col pensiero cercherò di mimare i percorsi dei partecipanti facendo una breve camminata intorno ai rioni più vicini. Impiegherò in tutto una quarantina di minuti, escludendo naturalmente da detti tempi quelli dedicati alle soste in chiesa, alla mia casetta di Toneri, al belvedere di Sa Discarriga ed al portico che insiste sulla piazzetta di Sant’Antonio. Questo è il programma di massima che ho abbozzato in partenza da Oristano, la città in cui risiedo da tempo, ma, come sempre accade quando si va fuori porta, non mancheranno le varianti di percorso.


La giornata è fredda ma non piovosa. E’ piovuto abbastanza quest’anno.


Le iscrizioni alla gran fondo sono iniziate da diversi giorni ma per i ritardatari si potrà provvedere anche durante l’ora che precede il via, che è fissato per le nove. Già dalle otto sono presente alle varie operazioni che vanno a interessare tanto la macchina organizzativa quanto i diretti interessati alla marcia. Non mancheranno i curiosi. C’è sempre un notevole divario di tipo rappresentativo tra i quadri d’immagine anteriori all’evento che si deve consumare e quelli che si vivono stando a contatto diretto con la realtà. C’è sempre una differenza di qualità tra i due momenti. Né potrebbe essere altrimenti.


Contrariamente alle mie aspettative non vedo persona alcuna nei pressi del posto di accoglienza. Venendo meno le attese per qualcosa di interessante preferisco andare a messa nella parrocchia di San Gabriele. In una decina di minuti, passando per strettoie che nulla hanno a che fare con i normali percorsi pedonali o automobilistici, mi ritrovo in chiesa. Avrei preferito assistere alla funzione religiosa in programma per le ore undici nella chiesetta diSanta Maria, la contrada in alto al rione di Arasulè, ma sarà per un’altra volta. In detto luogo di culto di cui conosco bene l’ubicazione e un po’ della sua storia di fine cinquecento non ci sono mai entrato se non in occasione di visite brevissime. Al contrario di quanto avviene nella pieve di Toneri, dove si avverte il senso di una familiarità allargata a tutta la comunità dell’abitato, nel tempio del rione superiore prevale lo spirito di gruppo del vicinato.


Ed eccomi a San Gabriele. La mia abitazione non dista dal sagrato più di una quarantina di metri. Eppure, nonostante questo senso di vicinanza, mi sento sempre in trasferta. Lontano, anzi lontanissimo dalle persone ma vicinissimo alle cose. Fa uno strano effetto ritornare in Barbagia dopo lunghe assenze. Per giunta devo sempre rapportarmi con due misure differenti di memoria, quella di mezzo secolo addietro e quella odierna. E’ come operare con un pantografo che mi permette di comparare nel tempo due realtà simili ma allo stesso tempo differenti. Faccio pur sempre parte del panorama umano d’origine anche se da esso sono distante come un elettrone dal suo nucleo.
Durante la funzione, il sacerdote, alto nei suoi paramenti bianchi, predica ai fedeli ben distribuiti lungo le due bancate che dal portone principale portano ai primi gradini del presbiterio. Saremo in tutto una trentina. La nostra età è compresa tra i settanta e gli ottanta anni. Il più giovane dal punto di vista anagrafico è proprio il celebrante. Tra noi e lui c’è un abbondante salto generazionale anche se spiritualmente è il padre di tutti.


Io, che mi trovo appoggiato ai caldi legni della bussola d’ingresso vedo tutti gli altri di spalle. Non riconosco nessuno dei presenti fatta eccezione per Antonietta ed Italia che, stranamente, si sono dimenticate di invecchiare. Nel momento della comunione mi porto avanti appositamente per leggere meglio i lineamenti delle persone presenti ma ho notevoli difficoltà a scavare su identità segnate inesorabilmente dal tempo.

Il legno, sostituendosi egregiamente al freddo marmo del pulpito, della balaustra e dell’altare, prevale in ogni dove. In zona presbiterio la mancanza di certi arredi, una volta presenti, fa elevare maggiormente verso l’alto anche le mezze colonne che, a partire dalle mensole, sorreggono la volta a crociera. Anche la figura del sacerdote soggiace allo stesso effetto ottico.

I vari ambienti mi sono comunque molto familiari. Sono anche tentato di infilarmi nella sacrestia per salutare il bel mobile in stile barocco ubicato a destra dopo l’entrata. E’ la vecchiaapparatora. Sarà per un’altra volta, se si presenterà l’occasione. Ancor prima della benedizione finale sono già sul sagrato.

Mi basta sbirciare verso il basso in direzione dell’abitazione dei miei genitori per riassumere a colpo d’occhio i danni provocati dal fortunale che nel mese scorso, con forza inaudita, ha letteralmente scardinato dai muri portanti l’intera copertura. Un tetto in eternit! Pur sempre un tetto, anche se da tempo in quella dimora non ci abita nessuno. Fa freddo ho precisato. Ma ora, alla vista di certe immagini, fa ancora più freddo. Avverto quasi un senso di smarrimento e sgomento. Nell’aria, un pianto d’una capinera ( ). Nell’aia un bel cavallo dal manto bianco cenere pascola indisturbato. La vita continua.

Risalgo le mie strade di montagna riportandomi verso la strada provinciale. Dopo aver rasentato la casa di tia Maria Teresa, l’anziana abitatrice degli anni sessanta, mi ritrovo nei pressi del Bar di Carta. Oggi detti luoghi hanno altre denominazioni ma io ragiono sempre con la memoria dei tempi passati.


Subito dopo, alla mia sinistra mi attende il belvedere. Una cinquantina d’anni addietro la piccola piazza ospitava poche piantine di leccio ed una serie di sedili di marmo messi a dimora agli inizi del secolo scorso. La scarpata nuda e brulla, eccezione fatta per la presenza di alcune piante di acacia e di un gelso cresciuto spontaneamente sul bordo superiore, era ed è ancora regolata su buona parte dell’insieme da una fiancata dispiegata a tronco di cono. Su di essa insistevano due tratturi longilinei che la solcavano dall’alto in basso con fenditure decise e notevoli che potevano garantire a giovani e meno giovani il transito nei due sensi. Spesso durante l’estate le visite a questo avamposto in terra battuta erano molto frequenti. Per i residenti dei quartieri ubicati più in basso era sufficiente monitorare da lontano il lato panoramico che guarda ad est per rendersi conto della vitalità della piazza. Dal sagrato della chiesa parrocchiale qualcuno, agli inizi degli anni cinquanta, mi aveva segnalato la presenza di un personaggio importante del mondo della cultura. Quello con la folta capigliatura è Carlo Levi.

Un altro scrittore dalla chioma e dalla barba rossa si era trattenuto per pochi istanti nel gennaio del 1921 per cogliere emozioni da trasmettere ad altri, a tantissimi, a mezzo mondo. Era David Herbert Lawrence. Chi non ha ancora letto Sea and Sardinia?

Oggi le esili piante, diventate più grandi, assicurano con le loro fronde un’ombreggiatura a tutto campo. Una ringhiera in ferro abbellisce e protegge la piccola oasi che nel suo interno riserva spazi ludici per l’infanzia. In basso, sul lungo strada che lambisce la scarpata, si eleva per diversi metri un cordone in cemento armato, provvisto di un passamano utile a quanti vi transitano quando il sottofondo è innevato o ghiacciato.

Il mio sopralluogo durerà pochi minuti, il tempo necessario per risalire alla giusta conformazione della piazza e della sua superficie. Sarà sufficiente calcolare il perimetro esterno per venire a capo di tutto. I cento trenta passi da me condotti su un percorso quasi circolare mi permettono di stabilire che il raggio è di circa ventuno metri mentre l’area si aggira intorno ai mille e quattrocento metri quadrati. Una superficie equivalente potrebbe essere data da uno spiazzo rettangolare di dimensioni trentacinque per quaranta.

Alla sinistra sono ben definiti i contorni della casa di Tia Maria Patta, di fronte la parte superiore del campanile della pieve, sulla destra lo strapiombo di Su Toni che fa da guardia alla superba vallata e di spalle la strada provinciale che più in là indirizza ai centri di Sorgono eTiana mentre al di qua conduce al rione superiore o meglio al punto di ritrovo degli aspiranti rocciatori.

Appena fuori dal recinto panoramico mi accorgo che molte delle partecipanti alla funzione religiosa mi hanno raggiunto e superato. Alcune di esse imboccano l’abitazione di Graziano, un imprenditore edile della vecchia guardia. Forse vorranno rendere una visita di cortesia alla moglie, in precarie condizioni di salute già da diverse settimane. Altre mi precedono a distanza per scomparire dietro la curva in fondo.

Mi ritrovo ora nella piazzetta Carta, nel cuore del quartiere di Sant’Antonio. Più avanti, al termine del viale, stanno già effettuando le operazioni di punzonatura. Il particolare interesse per questa anteprima di carattere sportivo è ora sottolineato dal passo cadenzato e ritmico di numerosi atleti che a piccoli gruppi si dirigono all’adunata. Mi sposto sulla sinistra e li lascio passare. Non vorrei che perdessero il tempo di marcia. Sono riconoscibili per lo zainetto che portano a tracolla, per l’abbondante marsupio posizionato sulla vita e per una divisa che sa di scarpe da tennis da grande tenuta, di giacconi a vento, di pantaloni in velluto e di cappellini a tesa larga o a cuffia. Alti, anzi altissimi, come tutti gli esseri oggetto di osservazione. Più focalizzi la tua attenzione verso di loro e più sembrano elevarsi a dismisura nella tua immagine. Noto anche due ragazze che, avvalendosi di strani bastoni per gli appoggi, bacchettano ad ogni passo l’asfalto. Sembrano delle sciatrici in pieno assetto di gara. Avranno di che sgranchirsi durante il percorso!

L’inusuale comportamento dei più sembra tradire un misto di impazienza e di curiosità. Alcuni, rispettando il loro turno, rigorosamente in fila, attendono di ricevere il benestare degli organizzatori, altri sono addossati alle ringhiere di protezione del muro di cinta che guarda verso Cima Fais mentre numerosi sono coloro, che distribuiti in vari capannelli, animano i loro discorsi con riferimenti circostanziati ad altre marce, altre montagne, altri ricordi.

Al bar gli inservienti fanno una certa fatica ad accontentare 
gli insoliti clienti. I piattini, nell’anticipare il servizio dei vari caffè e cappuccini, sembrano pattinare con molta eleganza sul bancone delle mescite. Vanno a ruba pasticcini, caramelle ed altre ghiottonerie. C’è chi non disdegna di scaldarsi con qualche bicchiere di vernaccia.


Tra i presenti riconosco Lello, il vecchio gestore della caffetteria. Seduto su un sedile della piazzetta, un signore di età matura cerca di fare una seduta elioterapica esibendo al pallido sole la nudità delle estremità dei suoi arti inferiori. Tutti, comunque, avvertono freddo in questa strana giornata primaverile.
Di dove siete? chiedo ad un gruppetto di giovani. Siamo di Alghero, mi rispondono. Goffamente avanzo una frase banale nel loro dialetto che è il catalano. Avui és diumenge. (Oggi è domenica). Tot el dia i la nit. (Tutto il giorno e la notte), confermano. Il discorso in spagnolo termina qui, né sarei in grado di poter reggere il confronto più a lungo. Intanto dalle retrovie sbuca qualche ritardatario. I partenti saranno in tutto una ottantina.

Prima ancora che lo starter abbassi la bandierina a scacchi ripiego sui miei passi verso il quartiere di Sant’Antonio. Alla mia sinistra, diverse persone sono intente a divorare con avidità i panorami dispiegati oltre il parapetto delle terrazze a perpendicolo sul territorio sottostante. Ne approfitto anch’io per una lettura dell’interessante cartolina offerta dal belvedere delMunicipio. Il panorama edilizio mi inquadra singolari punti di fuga che mi erano sfuggiti in altre osservazioni. Il tempo apporta sempre i suoi mutamenti non solo alle persone ma anche alle cose. Le numerose parabole installate sui tetti del rione di Arasulè sembrano rincorrersi nell’allineamento sud, sud-est. Riconosco benissimo quelle sistemate nelle contrade di Funtana Idda, Su Montigu, Santa Maria e Muragheri. Diversi fumaioli lanciano nell’aria densi messaggi di fumo. Qui l’inverno continua sino a maggio. La primavera prenderà il posto dell’estate. E’ un paese che marcia a tre stagioni, come i motori a tre tempi.

Nel mio programma c’è da fare ancora una visita al portico del vicino quartiere. Mi ero sempre ripromesso di misurarlo nella sua lunghezza e di conteggiare le travi che insistono sulla volta. Di passi ne eseguo ben undici e di assi in castagno ne conto una quindicina. Oltre il loggiato c’è l’aula scolastica che mi aveva ospitato in quinta elementare verso la fine degli anni quaranta. Oggi c’è una autorimessa. Prendo nota del tutto nel taccuino della mia memoria ed imbuco di nuovo il tunnel in compagnia di una corrente fredda di maestrale. In uscita Gesuino, uno dei condomini che godono di questa importante servitù di passaggio, mi ricorda del suo vissuto in Maria Prà, la contrada che comunica con Pratza manna.

Più avanti al bar di Cesare, il nome del gestore di una volta, qualcuno mi informa del decesso della consorte di Graziano. Pur avendomi l’interessato messo al corrente della criticità della malattia non avevo messo in conto che il pellegrinaggio terreno della sua congiunta era ormai giunto a conclusione.




In uscita sono pronto a rimettere nella custodia il regolo calcolatore, il pantografo e la vecchia memoria, i soliti strumenti virtuali di cui mi servo ogni volta che torno in paese.


Alle undici sono già ad Oristano. I grandi camminatori ne avranno ancora per qualche ora prima di ultimare la loro fatica. Per trasmettere ad altri le emozioni vissute dall’alto delle cimetonaresi avranno tante opportunità. La Sardegna vista da bordo scala è sempre un’altra cosa.







CASULA STEMMA E BLASONE- DOSSIER ARALDICO

FONTE Antica ed assai nobile famiglia sarda, di chiara ed avita virtù, propagatasi, nel corso dei secoli, in diverse regioni d'Italia...