La mia campagna di Russia. Grafica del Parteolla - Riccardo Monni. Il volumetto - appena 83 pagine - rievoca la partecipazione degli italiani alla guerra contro l'Unione Sovietica, durante la seconda guerra mondiale. Lo scenario è sempre osservato dall'angolo visuale dell'autore, che svela al lettore le sue personali esperienze. Tuttavia, il racconto ricostruisce anche il quadro generale delle ostilità: combattimenti di estrema durezza, disagi a nonjìnire e temperature bassissime. Toccanti gli episodi che dimostrano il sacrificio e il valore dei nostri soldati in quel lontanissimo fronte. Ma le pagine più drammatiche sono quelle che illustrano, anche con l'apporto di fotografie, la ritirata dei sopravvissuti |
Il grande tema di questo diario è annunciato dal titolo, che suona "La mia campagna di Russia (1941-1943) - Ricordi e verità" (Edizioni Grafica del Parteol-la). Ed è anche documentato dalle molte fotografie in bianco e nero, che visualizzano scenari e personaggi di cui si parla.
Ma chi è l'autore? Si chiama Riccardo Monni ed è nato a Ilbono nel 1920. Frequentato il liceo classico, ha lavorato come costruttore edile in Sardegna e soprattutto a Cagliari. Solo in tarda età ha rievocato in prima persona l'evento più drammatico della sua vita: la partecipazione alla seconda guerra mondiale. Su uno dei fronti, che ha registrato il maggior numero di caduti tra i soldati italiani.
Prima di lui altri reduci da quel versante del conflitto hanno raccontato in prosa o in versi la loro esperienza. Tra gli autori sardi che hanno testimoniato, al loro rientro nell'isola, la catastrofica disfatta del corpo di spedizione italiana
in Russia, vanno citati gli scrittori Francesco Masala e Michele Columbu. Monni non è un letterato di professione e, pertanto, il suo racconto vale principalmente come testimonianza. Ma non mancano elementi di originalità dovuti ai fatti che l'autore ha visto con i propri occhi.
«Gl'esperienza sia comunque utile.»
Quando gli arrivò la cartolina di pregno, Monni era convinto di partire per i servizio militare in una bella città del • aieto come Verona. Un modo per usci-r dal suo piccolo paese e allargare gli «izzonti culturali e geografici. La guerra jer l'Italia era iniziata da qualche mese. *-on immaginava minimamente di esse-ostinato a un fronte così lontano. Sperava di restare nel reparto cui era «uro assegnato. Vi si respirava un'atmo-sera festosa («Spesso con amici e com-rilitoni feci delle belle gite in tutte le cit-vicine, in Veneto, Lombardia, Pie-•onte e anche in Emilia, con qualche puntatma a Genova, dove avevo amici di simiglia. Cercavamo inoltre emigrati o anche residenti di origine sarda, con i quali si facevano delle riunioni in allegria per parlare e cantare nella nostra lingua»).
Questa vita spensierata non dura molto. Nel giugno del 1941, dopo l'incontro al Brennero tra Hitler e Mussolini, a decise l'invio in Russia del 187° autoreparto pesante di cui faceva parte anche Monni. La partenza avvenne il 27 agosto, da Verona; poi, attraverso l'Austria e l'Ungheria, su una tradotta scomoda e stracarica, che si fermò in numerose stazioni intermedie. Alla frontiera tra Ungheria e Romania dalla tradotta vennero scaricate le auto e si proseguì con questi mezzi pesanti, senza l'aiuto e la collaborazione degli alleati tedeschi. Il 2 settembre arrivo a Burdueni, una piccola località della Romania, che non sembrava risentire gli effetti della guerra («Uscivamo in compagnia di belle donne che gentilmente si premuravano di farci visitare le bellezze della zona e accompagnarci nei negozi dove si poteva acquistare a prezzi vantaggiosi»). L'avanzata prosegue alla volta della Mol-davia e dell'Ucraina, senza combattimenti con le truppe russe. Iniziano a farsi sentire (siamo a ottobre) il freddo e le difficoltà dei rifornimenti. Il mese successivo comincia lentamente a profilarsi l'inferno. Il maltempo era il maggiore alleato delle armate sovietiche.
Il ricordo della campagna napoleonica in Russia tornava alla mente dei soldati e degli ufficiali. Si stava preparando una disfatta analoga, man mano che ìi avanzava su strade coperte di neve con temperature molto rigide (anche venti e più gradi sotto zero). Per fare una quarantina di chilometri, tra avarie ai motori e tamponamenti, si impiegavano anche due giorni. I rapporti con le popolazioni dei villaggi erano sempre buo-
ni, improntati a simpatia reciproca e ad una solidarietà insolita tra un esercito invasore e la gente comune.
Malgrado questo clima disteso (non privo di festicciole e approcci con le ragazze), nel dicembre del 1942 le armate russe sferrano un attacco contro le divisioni italiane. È l'inizio della fine. I sovietici sono meglio equipaggiati e dispongono di armi più potenti (tra cui i cannoni anti-carro e i lancia razzi katiuscia).
Al riguardo Monni aggiunge, sfatando un luogo comune: «Anche il generale Guderian aveva avvertito che i soldati tedeschi erano malvestiti e malnutriti contro le truppe sibcriane ben equipaggiate e meglio armate. Ma Hitler, imbe-
vuto dal mito della superiorità del soldato tedesco, restava sordo al giudizio dei suoi generali. Così si andava incontro all'immane tragica sconfitta.»
Non va dimenticato però che a fornire molte armi ai russi furono gli inglesi e gli americani. Secondo le dichiarazioni di Churchill il Regno Unito concesse ai sovietici 5031 carri armati, 6678 aerei e un quantitativo di armi e munizioni per un importo di 39 milioni di sterline. Gli Stati Uniti, invece, sino al gennaio 1944, fornirono 3700 carri armati, 7400 aerei, 160000 automezzi, 20000 autoveicoli speciali, oltre un ingente quantitativo di materiale.
La ritirata delle truppe italiane iniziò nel gennaio 1943. E fu una vera e propria tragedia. Panico e disperazione si impadronirono dei soldati e degli ufficiali. Monni ce ne da una testimonianza diretta, quando scrive: «I feriti e i congelati imploravano di non essere abbandonati. Chi piangeva invocando la mamma
e Dio, chi urlava e strepitava, chi piegava o bestemmiava, altri se la prendevano con Hitler e Mussolini e addirittura con Dio che permetteva simili tragedie.»
Mancavano ordini, c'era una disorganizzazione completa. Le radio erano mute, per via delle batterie scariche a causa del gelo. Il tutto accompagnato dal rombo dei cannoni nemici.
Alcune foto, nel libro, documentano questi momenti, con i soldati che avanzano in fila sul terreno coperto dalla neve e i cadaveri dei caduti stremati per l'immane fatica. Sono immagini drammatiche che si commentano da sole.
Col passare dei giorni la situazione peggiorava. Agli italiani si aggiunsero migliaia di soldati di altre nazionalità.
Nel terribile scenario si vedevano slitte con feriti a bordo, macchine distrutte, armi pesanti fuori uso, ma soprattutto morti e tracce di recenti scontri. Circolavano le voci più disparate.
Per sopravvivere bisognava resistere alla fame, alla sete, al sonno che intorpidiva le membra, alla paura e al pessimismo. Per non parlare dei pidocchi. Qualche volta si veniva accolti nelle case dei contadini, dove si trovava da mangiare e persine un po' di vodka.
Oltre la paura e la stanchezza, tra i soldati era diffusa la dissenteria, che costringeva a camminare con i calzoni imbottiti di foglie: per il gelo non si potevano fare i bisogni all'aperto.
C'era anche chi andava fuori di testa sparando all'impazzata per entrare in un'isbà o avere una slitta. Altri uscivano di senno o si suicidavano. Quelli che resistevano procedevano inebetiti come automi, con la speranza di farcela.
Di sé l'autore del libro racconta: «A Rossosh per Natale pesavo 70 kg, qui a Gomel invece 59, quindi ero dimagrito di 11 kg. Da più di una settimana non riuscivo a lavarmi. Feci fatica a togliermi di dosso i vestiti tanto le croste, il sudore e la sporcizia me li avevano incollati sulla pelle.»
Finalmente, 20 marzo 1943, il ritorno in Italia. Prima a Tarvisio e poi a Gori-zia, dove si presentarono madri, padri e figli per sapere dei loro parenti. I pochi superstiti davano notizie consolatorie, informazioni vaghe. Infine, Monni potè tornare in Sardegna, nel suo paese. Per l'emozione il padre, dopo averlo abbracciato, rimase bloccato per un quarto d'ora, senza riuscire a parlare. Era la fine di un incubo, la conclusione di un'esperienza che nemmeno uno scrittore dell'orrore avrebbe immaginato.