domenica 6 maggio 2012

La mia campagna di Russia di Riccardo Monni






La mia campagna di Russia. Grafica del Parteolla - Riccardo Monni.


Il volumetto - appena 83 pagine - rievoca la partecipazione degli italiani alla guerra contro l'Unione Sovietica, durante la seconda guerra mondiale. Lo scenario è sempre osservato dall'angolo visuale dell'autore, che svela al lettore le sue personali esperienze. Tuttavia, il racconto ricostruisce anche il quadro generale delle ostilità: combattimenti di estrema durezza, disagi a nonjìnire e temperature bassissime. Toccanti gli episodi che dimostrano il sacrificio e il valore dei nostri soldati in quel lontanissimo fronte. Ma le pagine più drammatiche sono quelle che illustrano, anche con l'apporto di fotografie, la ritirata dei sopravvissuti 

Alla vigilia del novantesimo compleanno, ha pubblicato il suo pri­mo libro. Un'opera largamente auto­biografica, che merita di essere letta per svariate ragioni. 
Il grande tema di questo diario è an­nunciato dal titolo, che suona "La mia campagna di Russia (1941-1943) - Ricor­di e verità" (Edizioni Grafica del Parteol-la). Ed è anche documentato dalle molte fotografie in bianco e nero, che visualiz­zano scenari e personaggi di cui si parla. 

Ma chi è l'autore? Si chiama Riccardo Monni ed è nato a Ilbono nel 1920. Fre­quentato il liceo classico, ha lavorato come costruttore edile in Sardegna e so­prattutto a Cagliari. Solo in tarda età ha rievocato in prima persona l'evento più drammatico della sua vita: la partecipa­zione alla seconda guerra mondiale. Su uno dei fronti, che ha registrato il mag­gior numero di caduti tra i soldati ita­liani. 


Prima di lui altri reduci da quel ver­sante del conflitto hanno raccontato in prosa o in versi la loro esperienza. Tra gli autori sardi che hanno testimoniato, al loro rientro nell'isola, la catastrofica disfatta del corpo di spedizione italiana 

in Russia, vanno citati gli scrittori Fran­cesco Masala e Michele Columbu. Mon­ni non è un letterato di professione e, pertanto, il suo racconto vale principal­mente come testimonianza. Ma non mancano elementi di originalità dovuti ai fatti che l'autore ha visto con i propri occhi. 

«Gl'esperienza sia comunque utile.» 

Quando gli arrivò la cartolina di pre­gno, Monni era convinto di partire per i servizio militare in una bella città del • aieto come Verona. Un modo per usci-r dal suo piccolo paese e allargare gli «izzonti culturali e geografici. La guerra jer l'Italia era iniziata da qualche mese. *-on immaginava minimamente di esse-ostinato a un fronte così lontano. Sperava di restare nel reparto cui era «uro assegnato. Vi si respirava un'atmo-sera festosa («Spesso con amici e com-rilitoni feci delle belle gite in tutte le cit-vicine, in Veneto, Lombardia, Pie-•onte e anche in Emilia, con qualche puntatma a Genova, dove avevo amici di simiglia. Cercavamo inoltre emigrati o anche residenti di origine sarda, con i quali si facevano delle riunioni in alle­gria per parlare e cantare nella nostra lingua»). 

Questa vita spensierata non dura molto. Nel giugno del 1941, dopo l'incon­tro al Brennero tra Hitler e Mussolini, a decise l'invio in Russia del 187° auto­reparto pesante di cui faceva parte an­che Monni. La partenza avvenne il 27 agosto, da Verona; poi, attraverso l'Au­stria e l'Ungheria, su una tradotta sco­moda e stracarica, che si fermò in nume­rose stazioni intermedie. Alla frontiera tra Ungheria e Romania dalla tradotta vennero scaricate le auto e si proseguì con questi mezzi pesanti, senza l'aiuto e la collaborazione degli alleati tedeschi. Il 2 settembre arrivo a Burdueni, una piccola località della Romania, che non sembrava risentire gli effetti della guer­ra («Uscivamo in compagnia di belle donne che gentilmente si premuravano di farci visitare le bellezze della zona e accompagnarci nei negozi dove si pote­va acquistare a prezzi vantaggiosi»). L'avanzata prosegue alla volta della Mol-davia e dell'Ucraina, senza combatti­menti con le truppe russe. Iniziano a farsi sentire (siamo a ottobre) il freddo e le difficoltà dei rifornimenti. Il mese successivo comincia lentamente a profi­larsi l'inferno. Il maltempo era il mag­giore alleato delle armate sovietiche. 

Il ricordo della campagna napoleoni­ca in Russia tornava alla mente dei sol­dati e degli ufficiali. Si stava preparan­do una disfatta analoga, man mano che ìi avanzava su strade coperte di neve con temperature molto rigide (anche venti e più gradi sotto zero). Per fare una qua­rantina di chilometri, tra avarie ai mo­tori e tamponamenti, si impiegavano anche due giorni. I rapporti con le po­polazioni dei villaggi erano sempre buo- 


ni, improntati a simpatia reciproca e ad una solidarietà insolita tra un esercito invasore e la gente comune. 

Malgrado questo clima disteso (non privo di festicciole e approcci con le ra­gazze), nel dicembre del 1942 le armate russe sferrano un attacco contro le divi­sioni italiane. È l'inizio della fine. I sovie­tici sono meglio equipaggiati e dispon­gono di armi più potenti (tra cui i canno­ni anti-carro e i lancia razzi katiuscia). 

Al riguardo Monni aggiunge, sfatan­do un luogo comune: «Anche il generale Guderian aveva avvertito che i soldati tedeschi erano malvestiti e malnutriti contro le truppe sibcriane ben equipag­giate e meglio armate. Ma Hitler, imbe- 

vuto dal mito della superiorità del sol­dato tedesco, restava sordo al giudizio dei suoi generali. Così si andava incon­tro all'immane tragica sconfitta.» 

Non va dimenticato però che a forni­re molte armi ai russi furono gli inglesi e gli americani. Secondo le dichiarazio­ni di Churchill il Regno Unito concesse ai sovietici 5031 carri armati, 6678 aerei e un quantitativo di armi e munizioni per un importo di 39 milioni di sterline. Gli Stati Uniti, invece, sino al gennaio 1944, fornirono 3700 carri armati, 7400 aerei, 160000 automezzi, 20000 autovei­coli speciali, oltre un ingente quantitati­vo di materiale. 

La ritirata delle truppe italiane iniziò nel gennaio 1943. E fu una vera e propria tragedia. Panico e disperazione si impa­dronirono dei soldati e degli ufficiali. Monni ce ne da una testimonianza di­retta, quando scrive: «I feriti e i conge­lati imploravano di non essere abbando­nati. Chi piangeva invocando la mamma 
e Dio, chi urlava e strepitava, chi piega­va o bestemmiava, altri se la prendeva­no con Hitler e Mussolini e addirittura con Dio che permetteva simili tragedie.» 

Mancavano ordini, c'era una disorga­nizzazione completa. Le radio erano mute, per via delle batterie scariche a causa del gelo. Il tutto accompagnato dal rombo dei cannoni nemici. 

Alcune foto, nel libro, documentano questi momenti, con i soldati che avan­zano in fila sul terreno coperto dalla neve e i cadaveri dei caduti stremati per l'im­mane fatica. Sono immagini drammati­che che si commentano da sole. 

Col passare dei giorni la situazione peggiorava. Agli italiani si aggiunsero migliaia di soldati di altre nazionalità. 

Nel terribile scenario si vedevano slit­te con feriti a bordo, macchine distrut­te, armi pesanti fuori uso, ma soprattut­to morti e tracce di recenti scontri. Cir­colavano le voci più disparate. 

Per sopravvivere bisognava resistere alla fame, alla sete, al sonno che intorpi­diva le membra, alla paura e al pessimi­smo. Per non parlare dei pidocchi. Qual­che volta si veniva accolti nelle case dei contadini, dove si trovava da mangiare e persine un po' di vodka. 

Oltre la paura e la stanchezza, tra i soldati era diffusa la dissenteria, che co­stringeva a camminare con i calzoni im­bottiti di foglie: per il gelo non si pote­vano fare i bisogni all'aperto. 

C'era anche chi andava fuori di testa sparando all'impazzata per entrare in un'isbà o avere una slitta. Altri uscivano di senno o si suicidavano. Quelli che resistevano procedevano inebetiti come automi, con la speranza di farcela. 

Di sé l'autore del libro racconta: «A Rossosh per Natale pesavo 70 kg, qui a Gomel invece 59, quindi ero dimagrito di 11 kg. Da più di una settimana non riuscivo a lavarmi. Feci fatica a toglier­mi di dosso i vestiti tanto le croste, il sudore e la sporcizia me li avevano in­collati sulla pelle.» 

Finalmente, 20 marzo 1943, il ritorno in Italia. Prima a Tarvisio e poi a Gori-zia, dove si presentarono madri, padri e figli per sapere dei loro parenti. I po­chi superstiti davano notizie consolato­rie, informazioni vaghe. Infine, Monni potè tornare in Sardegna, nel suo paese. Per l'emozione il padre, dopo averlo abbracciato, rimase bloccato per un quarto d'ora, senza riuscire a parlare. Era la fine di un incubo, la conclusione di un'esperienza che nemmeno uno scrit­tore dell'orrore avrebbe immaginato.