Bisogna fare ulteriore opera di ricerca per appurare come il dolce di Alicante, di confermata derivazione araba, abbia raggiunto, nel periodo della dominazione spagnola in Sardegna, il palato dei buongustai sardi.
Sembra infatti, seguendo le indicazioni di Francesco Gemelli e di Antonio Dell’Arca, che nell’isola la produzione ed il commercio del torrone nel settecento fossero sconosciuti. Secondo il primo autore, nel paragrafo dedicato alle api, al miele ed alla cera di Rifiorimento in Sardegna, opera edita a Torino nel 1776 e riproposta all’attenzione dei lettori con i tipi della Editrice sarda Fossataro di Cagliari, l’isola di Sardegna in generale dà ottimo miele, e così eccellente, che il migliore può gareggiare col più reputato di Spagna. La sua copia par che soverchi il consumo dell’isola. Del soprappiù parte ne va a Roma in dono, e parte forma l’oggetto di un tenue commercio.
Stando alle testimonianze espresse dal secondo referente in Agricoltura in Sardegna, un trattato portato a termine nel 1749 ma edito nel 1780, apprendiamo dalla nuova edizione dell’anno 2000 curata da Giuseppe Marci per conto della Cuec, a proposito dell’utilità del miele, nel capitolo Della natura, e modo di governar l’api, che
L’esser purgante è una delle principali virtù del miele, onde si mischia nelli cristieri: con assenzio giova al ventricolo, con issopo riscalda, con rosa rinfresca e scioglie il corpo.
Il miele altresì è contra i veleni antidoto: ammazza i pidocchi e fa crescere i peli, applicato nella parte del capo da dove fossero caduti.
Per fine l’uso del miele nelli cibi e conserve, è più sano del zucchero
Null’altro che un purgante, una lozione o un additivo in gastronomia.
Nel capitolo Degli alberi di frutto con osso o nocciolo, il Dell’Arca, trattando dell’utilità delle nocciole riferisce, che questo frutto, secondo la tesi di vari autori, cagioni dolor di testa, e che seccato nel forno giova molto per la tosse e catarro grosso perché è calido (caldo per l’interpretazione del Marci) come la noce.
Nel capitolo Della noce, mandorlo e olivo si precisa, a proposito del primo frutto citato, che
- la prima scorza verde ha virtù stringente e serve per tinta dello stesso colore del legno della noce, e il sugo di essa scorza bollito con un poco di miele guarisce l’infiammazioni della gola e bocca, gargarizzando con un liquore,
- l’acqua stillata delle noci immature raccolte in fine del mese di giugno, giova contro le febbri terzane,
- dalle noci secche si spreme olio per dipingere, e per altre meccaniche composizioni, e per ardere
- i garigli delle noci pesti entrano in diversi cibi.
Molte le segnalazioni sulle virtù delle noci ma nulla che deponga a favore del torrone.
Trattando delle mandorle il Manca Dell’Arca precisa che
Son di buon gusto e di gran nutrimento fresche e secche, entrano in composizioni di moltissimi cibi, nelle salze per condire in luogo di latte ogni menestra, (…)
Le mandorle dolci sono mollificative (emollienti per il commentatore) e purgano il corpo dalli umori grossi (…) il suo olio scioglie il corpo mirabilmente (…)
Le mandorle amare mangiate avanti pasto, ammazzano i vermi (…), ammaccate (sminuzzate), e mischiate con aceto, applicandole alle tempie, sanano il dolor di testa: mischiate con vino, giovano alle corrosive piaghe, e mangiate a digiuno, guariscono i dolori di stomaco e intestini. Più farmacopea che gastronomia!
Il torrone nei sagrati delle chiese nell’Ottocento
Alquanto scarne le notizie sul torrone nell’Ottocento. Segnalazioni degne di rilevo possono aversi dalla attenta lettura del Dizionario del Casalis, a cura del padre gesuita Vittorio Angius.
Riferisce l’autorevole religioso alla voce Gallura che, nelle feste pastorali attorno ai sagrati delle chiese sotto all’ombra di qualche albero, o sotto una tenda, sono alcuni botteghini di liquori e dolcerie, e i padri e gli sposi, e gli innamorati, presentano a’ loro piccoli, e alle loro belle, ciò che stiman loro più desiderato e caro. Si vuotan le ampolline, e spariscono le grandi masse di torroni.
Queste invece le segnalazioni sui torronari di Tempio nell’anno 1846: Chiamansi cposì i fabbricanti di torroni che sono una composizione di mandorle, o noci o nociuole, ammassate col miele e le uova.
Del centro di Pattada, nell’articolo riservato al commercio si riporta: I pattadesi vendono gli articoli agrari a’ paesi vicini, i pastorali a’ negozianti di Sassari, di Ozieri, di Terranova, del Marghine, di Gallura, l’acquavite e i torroni a’ paesi già sopra notati ed altri.
Alla voce Sassari, nel paragrafo Dolceria e caffè l’Angius riferisce: Generalmente nelle botteghe di caffè si vendono dolci di tutte le maniere, e dolci fini a somiglianza di quelli che si fanno a Genova. La pasticceria non è però così varia, come in altre parti. In Sassari e altrove sono molto lodati i biscottini delle monache di s.Elisabetta. Tra questi sono di maggior uso i torroni, de’ quali comprano tutti e fanno regali in certe feste, come per s.Nicola, il Natale, ecc. Ve n’ha gran delicatezza. E’ l’anno 1848.
Ed ora vediamo quel che succede in Barbagia.
Al paragrafo Arti si legge: Avvi (…) dei fabbricanti di torroni, che è un mandorlato sodo di pasta melata, di cui si fa grande spaccio nelle feste.
Nel paragrafo riguardante il commercio si apprende che la produzione immessa nel mercato e di circa un migliaio di cantara (il cantaro corrisponde ad una quarantina di chili).
Nel paragrafo Viandanti, o viaggianti, o cavallanti del citato articolo Barbagia, l’Angius fa espresso riferimento agli operatori della Barbagia Centrale (Mandrolisai e Barbagia di Belvì) con la seguente notazione: un’altra classe di mercantucci girovaghi, o vetturali, dei quali gran numero sortono principalmente dalla Barbagia Centrale per trasportare le nevi, il legname in tavole, o travicelli, e quello ancora che si è lavorato in arnesi e mobili. I cavalli sono il solo mezzo e maniera di vettura, che possa aversi nel presente stato delle strade.
Alla voce Gavoi l’illustre storico, trattando delle feste principali di Sant’Antioco, San Giovanni, Sant’Antonio e della Vergine d’Itria, annota gran concorso da’ paesi limitrofi, e i mamoiadini vi preparano le loro batteguccie di confetti, liquori e torroni.
Di espositori tonaresi nessun cenno.
Vediamo quel che succede a Mamoiada. Nel paragrafo relativo alle professioni vengono segnalati quindici torronai mentre, in quello riguardante il commercio è detto che quelli che sono detti torronari lucrano da torroni, che sono un impasto di dolce che unisce mandorle, noci e nocciole, aprendo bottega nelle feste.
Ulteriori notizie sul torrone le apprendiamo dai resoconti dell’Angius alla voce Sellori (l’odierna Sanluri). E’ l’anno 1838. I vari mestieri comprendono i vettureggiatori e negozianti che insieme forse non sono più di cento. Tra questi ulimi sono molti pizzicagnoli e torronari, cioè fabbricatori di torroni, che vendono nelle feste e portano anche a Cagliari.
Da questo quadro d’insieme nulla che possa deporre a favore dei tonaresi della prima metà dell’Ottocento, d’altronde l’Angius, trattando dei loro affari, riferisce nell’anno 1846 quanto segue nel paragrafo dedicato al commercio: Abbiamo notato tutti gli articoli che i tonaresi mettono in commercio, castagne, noci ed altre frutta, tavole e travicelli, tessuti, prodotti pastorali, formaggi, capi vivi, pelli, cuoi e lame, miele e cera.
Da ciò appare molto improbabile che i tonaresi abbiano mai aperto bottega nelle sagre isolane prima della metà del secolo interessato alle nostre attenzioni. Alcune segnalazioni sull’attività lavorativa attorno al dolce tipico sono documentate nei registri consiliari e in quelli scolastici di fine Ottocento. Il meritorio salto di qualità e di quantità e documentato dalla presenza di numerosi operatori nell’ambito delle maggiori sagre isolane. Ma di ciò tratteremo più avanti.
Una precisazione in versi del 189(?) di Peppino Mereu nella decima ottava della composizione A Tonara riferisce quanto segue:
Pro turrones famada,
de sa Sardign’in sas primas fieras
faghet front’a Pattada.
Cando moves a festas furisteras
Andas accumpagnada
Dae sas fentomadas caffetteras,
chi totta nott’in pè
dispensant a sos festantes su caffè.
Ancora a fine secolo è Francesco Corona a segnalare nella sua Guida dell’Isola di Sardegna del 1896, che i torroni tonaresi rappresentano una vera specialità.
Luigi de Villa, nel presentare le verdi e ospitali montagne in La Barbagia e i Barbaracini (sic), un lavoro edito dalla Tipografia Avvenire di Sardegna nel 1889, non manca di fare riferimento alle materie prime necessarie per la preparazione del torrone. Sono in discussione i noccioleti ed i noceti che insistono nella valle de S’Isca, la zona cuscinetto che definisce geograficamente i confini virtuali della Barbagia di Belvì e del Mandrolisai. I nocciuoli, avverte l’autore, sono una specialità di questo luogo, ma non vengono meno i noci che sono secolari e giganteschi. Meritevoli di menzione alcuni esemplari in grado di fruttificare sino a venti ettolitri di noci cadauno. Di una pianta colossale, riferisce che nella cavità del suo tronco, vuoto per vetustà, fosse in grado di ospitare, quando era ancora vivo e vegeto, ben dodici persone intorno ad un bel fuoco.
Per quanto riguarda i prezzi medi praticati nel mercato di Cagliari, nel decennio che corre dal 1814 al 1824, potranno tornare utili i rilievi effettuati da William Henry Smith.
Le sue segnalazioni sono riportate nella Relazione sull’Isola di Sardegna, un lavoro edito dalla Casa editrice Ilisso, a cura di Manlio Brigaglia.
Le nocciole, riferisce il capitano Smith, valido misuratore di coste e di distanze marine, costano sei soldi e sei denari ogni cinque libbre, le mandorle cinque soldi e sei denari e le noci quattro soldi ogni quattordici libbre.
Nessuna testimonianza sul torrone ci perviene da altri autorevoli esponenti del mondo culturale dell’Ottocento quali il Del Marmora, lo Spano ed il Manno.
Non priva di un certo interesse può rivelarsi la presentazione di un quadro pittorico eseguito dall’acquerellista Simone Manca di Sassari. Sarebbe interessante, data la rara testimonianza del soggetto rappresentato sulla tela, un torronaio vestito in costume che espone la sua bancarella sul sagrato di una chiesa di Sassari, uno studio più approfondito su certi particolari. La didascalia dell’autore e le interpretazioni degli esperti lasciano intendere che la merce esposta sia del torrone e che il venditore sia della Barbagia Centrale, forse un mamoiadino. Uno studio più accurato del tema proposto nel disegno non mancherà di favorire ed indirizzare al meglio le ricerche sulla letteratura del torrone in Sardegna. Un’ultima segnalazione per ricordare che il dipinto, realizzato nel periodo che corre dal 1869 al 1876, fa parte della collana di sedici acquerelli conservati presso la Biblioteca Reale di Torino.
Ed ora due chicche da Guspini e San Gavino, due grossi centri della provincia di Cagliari, a merito del ricercatore Francesco Marras, assessore alle attività produttive del primo comune citato.
La prima fa riferimento ad alcuni verbali di contravvenzione elevati a carico di tre ambulanti di torrone della prima località, (Giacomo Muru, Raimondo Racis ed Antioco Atzori), colpevoli di non aver presentato i pesi, misure e stromenti da pesare alla verificazione. Le ingiunzioni, ai sensi della legge del 26 marzo 1850 ed in conformità dell’Editto dell’11 settembre del 1845, furono recapitate agli interessati nel mese di aprile del 1852.
La seconda rimanda ad una lettera vergata in spagnolo ed indirizzata dalle autorità cagliaritane Al Sindico, y Consejeros de San Gavino in data 12 dicembre 1791 per significare che nessuna innovazione doveva essere apportata, rispetto al passato, sui diritti da richiedere a los arizeses que llevan para vender nuezes, avellanas, y castañas en la feria de Santa Lussia. Apprendiamo quindi che gli articoli trattati alla fine del Settecento dai cavallanti aritzesi erano rappresentati, nel mercato di Santa Lucia, unicamente da noci, nocciole e castagne.