Da
Tonara a Samarcanda sulle vie del torrone e della seta
Visita nel
Mandrolisai
Caro amico,
Ti ringrazio di cuore per avermi invitato a
conoscere il tuo paesetto arroccato sulle pendici del Gennargentu. Quanta strada per poterlo raggiungere ma, alla fine,
ne è proprio valsa la pena. Non credevo minimamente che le infinite curve del
fondo stradale potessero distogliermi per un solo attimo dal cogliere le
multicolori sfumature offerte dai mutevoli paesaggi delle tue montagne. Quanto
ho desiderato in quei momenti poter salire lassù sino agli ultimi contrafforti
territoriali per poter abbracciare idealmente gli estremi limiti del tuo Mandrolisai.
Non
penso vi sia in Sardegna un altro distretto montagnoso che, tra i suoi estremi
altimetrici, possa vantare dislivelli superiori ai mille metri. Neanche la Barbagia di Belvì con il suo punto di minimo
nel rio Araxisi, tra i centri di Atzara e Meana, ed il suo massimo sulle pendici del Monte Cresia a quota millecinquecento.
Sarà riservata ad un'altra occasione la
possibilità di fotografare mentalmente dall’alto del Muggianeddu i grandi spazi che portano a precipizio verso le forre
depressionarie dell’agro samughese.
Il tempo a disposizione non mi ha comunque
impedito di mettere a fuoco alcune istantanee sul gradito soggiorno barbaricino.
I rapporti umani. Alla solita curiosità che viene
normalmente riservata ai forestieri, spesso fanno seguito nella tua terra
manifestazioni di simpatia miste di schietta sardità, di voglia di conoscenza e
di sincera apertura al dialogo.
Il lato paesaggistico. Quanti boschi, quanta vegetazione,
quanta pace ma anche quanta difficoltà a distinguere le roverelle dai lecci e
dalle piante da sughero. Né posso dimenticare le caratteristiche casette
addossate le une sulle altre lungo i costoni della montagna, spesso in
posizione assolata ma talvolta ombreggiate da cupolifere di riguardo, quasi un
invito ad una sosta più prolungata e contemplativa.
Il senso dello spazio. Poter riuscire nell’intento di
circoscrivere con il gesto delle braccia protese verso il vuoto immensi spazi è
una opportunità che la pianura campidanese,
pur con i suoi notevoli vantaggi, non ti può dare. L’idea di poter idealmente
far tuo tutto l’insieme non sembra escludere la possibilità riservata allo
spazio circostante di impossessarsi di te. E’ il solito scontro tra due entità
opposte: l’infinitesimo e l’infinito o meglio l’infinitamente piccolo e
l’infinitamente grande.
I piccoli insetti. Mi è stato riferito che ad alta quota
le zanzare non riescano ad organizzare propri habitat. Di ciò mi sono molto rallegrato. Ho anche appreso che
quelle che voi chiamate tzintzulas
non sono altro che le cicale. Cosa ben diversa quindi dalle fastidiose tzintzuas.
Le chiesette campestri. Fanno parte del mio patrimonio
affettivo. Accendono la mia fantasia facendomi riandare a ritroso nei secoli
come insegna la storia. Non posso dimenticare il mio interesse per quella
chiesetta posta sul colle che porta il nome del santo che vi è venerato. Nulla
di particolare dal punto di vista architettonico: facciata priva di lesene e
dalle linee molto sobrie con l’intonaco tinteggiato di recente ed una sola
apertura verso il sagrato.
E’ lì, nelle immediate pertinenze dell’area
di culto, che ho potuto farmi un’idea del tasso di fede e di religiosità dei
tuoi compaesani. All’ora della funzione liturgica i fedeli erano compostamente
ordinati sul piccolo piazzale antistante la chiesa. All’interno di essa, ben
visibile dall’esterno, il sacerdote con ampi gesti della mano comunicava
idealmente con tutti. Accanto al celebrante nessun collaboratore. Lo spazio
ridottissimo della zona riservata al presbiterio non gli impediva di eseguire
al meglio i suoi uffici. A pochi passi da lui i presenti sembravano distribuiti
secondo l’ordine prefissato da un transetto e da navate del tutto immaginari,
con tanto di terra battuta per basamento e con la volta celeste per travatura.
Il perimetro murario, anch’esso immaginario, era costituito da muretti a secco
abbondantemente rivestiti di rovi spontanei e resistenti. Oltre i limiti della
croce latina teste descritta, si sviluppa una zona di rispetto orfana di
presenze umane.
Signore
insegnaci a pregare, disse ad un tratto il ministro del culto in uno dei
passaggi più importanti della sua omelia. Molti di età matura, tra i quali
diverse donne indossanti l’antico costume, e diversi giovani con l’abito di
velluto griffato, mi sembrarono riflettere sull’importante messaggio
evangelico.
Appena dietro la zona di rispetto si
delineavano, approvvigionati di leccornie, bevande e cibarie, i vari stand
della sagra. Quanti sapori, quanti assaggi e quanto appetito!
Il tempo. Cieli azzurri ma talvolta imbronciati di nuvole
mi hanno sorpreso più di una volta con improvvisi acquazzoni estivi. Ma da voi
rientra nella norma.
Sintesi di chiusura e ringraziamenti.
Sfumature di colori ricchi di intensità cromatica, idiomi carichi di antichi
linguaggi, passaggi di squisita ospitalità da segnalare nel taccuino dei
ricordi ed ancora punti di fuga di scenari indimenticabili con casette tinte di
bianco rosso pronte a rincorrersi nel fondovalle, testimoniano del mio
spontaneo e lusinghiero apprezzamento per la tua gente e per il tuo territorio.
Di un mio prossimo viaggio in un’altra
regione ugualmente allettante della nostra diocesi arborense ti renderò edotto
con la solita puntualità. Dei caratteristici paesi di Atzara, Desulo, Ortueri, Samugheo, Sorgono e Tonara serberò a lungo un piacevole
ricordo.
Nel frattempo mi dovrò concedere una pausa
di ferie e per l’occasione mi recherò nell’Ubzekistan, una terra a me
sconosciuta, ma a quanto dicono per chi l’ha visitata, dalle letture molto
interessanti. Forse avrai sentito parlare di Samarcanda, notevole caposaldo di
detta regione asiatica inserito sui percorsi della via della seta. Ti farò comunque
sapere Col mio prossimo reportage cercherò di ragguagliarti sui rapporti umani,
sugli angoli paesaggistici, sulla sua storia e sulla sua economia.
Ti partecipo intanto che il gruppo di cui
faccio parte, quindici persone in tutto, è capitanato dal giovane parroco di San Giuseppe Lavoratore in Oristano. A
presto.
Visita nell’Uzbekistan
Breve
premessa
Per raggiungere Samarcanda
bisogna fare il salto del vecchio Continente. Lo Stato che ospita questa
singolarissima città si trova nell’Asia Centrale ed è denominato Uzbekistan. Sino
al 1924 esisteva il Turkestan, un
grande territorio popolato da kazaki,
uzbeki, tagiki, kirghisi e turkmeni e confinante a nord e ad ovest
con la Russia, a sud con l’Afganistan ed il Pakistan e ad est con la Cina.
Dopo tale anno, dalla frammentazione di tale grande area geografica nacquero le
repubbliche russe del Kazahistan,
dell’Uzbekistan, del Tagikistan, del Kirghisistan e del Turkmenistan. E’ da venti anni che la nazione oggetto della nostra
visita ha la sua indipendenza.
Le ore di viaggio necessarie per giungere a destinazione sono sei con
qualche piccolo disguido per quanto riguarda i fusi orari. L’aereo, inseguendo
la rotta del 45° parallelo, andrà a sorvolare, in partenza da Roma, il Gran
Sasso, il Mare Adriatico, la Croazia, la Bosnia, la Serbia, la Romania, il Mar
Nero, il Mar Caspio e tanto deserto. Il nostro itinerario prevede l’arrivo a
Tashkent, la capitale, e la visita alle città di Khiva, Bukhara e Samarcanda.
I fortunati che mi hanno
preceduto in questa avventura non hanno fatto che tesserne degli elogi. Ho
anche cercato di approfondire i contorni delle loro emozioni ma la mia
curiosità non è mai andata oltre i concetti espressi dai migliori aggettivi. Le
percezioni visive purtroppo sono quelle che maggiormente illuminano e
supportano le nostre capacità sensoriali. Paesaggi, arte e contatti umani
formano il menù base messo a nostra disposizione. E la gente, soprattutto la
gente fa la differenza. E non importa la quantità numerica. E’ sufficiente fare
la conoscenza di piccoli campioni di popolazione per avere un’idea chiara di
comportamenti, usanze, religioni, linguaggi e culture.
Sono certo di ritrovarmi di
fronte a qualcosa fuori dal comune, dal concetto di globalità, dai soliti modi
di intendere la vita. Riferiscono ancora i reduci da questi viaggi per certi
versi misteriosi che il fascino che avvolge cose e persone si rapporta al
visitatore in maniera insolita e particolare. L’augurio che faccio a me stesso
è che il mio reportage non pecchi troppo di sbavature personali. Cercherò di
assumere la posizione insolita dell’osservatore attento e meticoloso ma allo
stesso tempo distaccato dall’onda dei sentimenti e dei facili entusiasmi. E’
una promessa che comunque difficilmente riuscirò a mantenere.
Mentre vado assemblando
mentalmente questi concetti da primo incipit non mi avvedo che Tashkent, la
capitale uzbeka, si appresta ad accogliere alle 17,30, le venti e trenta ora
locale, i numerosi passeggeri partiti da Roma prima di mezzogiorno. I
viaggiatori, in vista dell’atterraggio, sembrano animarsi di molto buon umore.
Chissà quali emozioni stanno provando ora alla lettura delle prime inquadrature
dai finestrini e chissà a quanti momenti piacevoli andranno incontro dopo aver
toccato terra. Che sia una settimana bene appagante per tutti. Da parte mia ci
sarebbe tutta l’intenzione di poter raccontare qualcosa di insolito, qualcosa
che sfugga ai canoni della linearità occidentale, della globalità, della
normale teatralità del nostro vivere. Se capiterà l’occasione non mancherò di
tratteggiare e circostanziare fatti, luoghi e personaggi. Io sono qui per
questo, a caccia di emozioni a sangue freddo.
Alle 18, corrispondenti alle
ventuno ora locale, siamo già fuori dell’aerostazione con i nostri trolley
pronti a consegnarci alla guida uzbeka, una giovane di 24 anni. Prima di
arrivare in albergo il pullman compie un lungo percorso che ci permette di
ammirare, alla luce notturna degli infiniti lampioni stradali, alcuni scorci di
questa metropoli che sa tanto di piazze vastissime, lunghi viali alberati e
monumenti della storia recente e del passato.
Per l’indomani è prevista una
levataccia alle quattro del mattino. Bisogna prendere l’aereo per Urgench, una
città nel nord dell’Uzbekistan non molto distante dal lago d’Aral.
Breve sosta ad Urgench
Alle otto in punto, dopo un’ora
e mezza di volo, si arriva ad Urgench. Al ritiro dei bagagli, predisposto in un
minuscolo spazio dell’aeroporto, quasi un oratorio, le operazioni, in barba al
nome che sembra invogliare alla massima urgenza, vanno molto al rallentatore. I
colli ingombranti dei passeggeri uzbeki, avvolti con molto nastro adesivo,
passano sul nastro trasportatore con una lentezza estrema. Devo attendere
parecchio prima che la mia valigia faccia la sua comparsa. Sarà l’ultima ad
essere scaricata. Stavo quasi in apprensione per il suo ripescaggio. Il
boccaporto d’ingresso viene chiuso dall’esterno facendo calare sulla
piattaforma girevole un ripiano di forma rettangolare. Il tutto produce un
effetto sgradevole che termina con un colpo secco.
In uscita alcune guardie
controllano il contenuto di un voluminoso pacco di proprietà di una coppia di
uzbeki. Ci sono delle vivaci discussioni forse sul peso, sulle dimensioni o su
qualcosa sfuggito ai precedenti controlli. Attendo il mio turno con
preoccupazione, ma anche con una certa impazienza, poi vengo fatto passare
senza troppi indugi.
Il pullman della nostra agenzia
attende all’esterno per dirigersi a Khiva, una cittadina distante da Urgench
una quarantina di chilometri. E’ da questa nuova destinazione che inizierà il
vero viaggio culturale.
.
Khiva
Il nostro albergo si trova a
qualche centinaio di metri dalla cinta muraria della città fortezza. Si tratta
di una di una palazzina ad un piano con tanto di bei cortili, di un piazzale
per le macchine e di una solida recinzione. La mia camera disterà dalla reception non più di una decina di
metri. All’interno di essa è ben visibile, ad altezza d’uomo, sulla porta
d’ingresso, il tracciato da percorrere in caso di pericolo. So bene che
nell’eventualità si verifichi tale evenienza non mi resterà che guadagnare
l’uscita facendo un piccolo salto dalla finestra. All’esterno un breve sentiero
conduce alla sala ristorante lasciandosi tanto sulla sinistra quanto sulla
destra delle piccole strisce di terra dove due donne, sedute sui talloni, con
vestiti che richiamano i loro costumi tradizionali, fatti di pantaloni, ampie
bluse, copricapo e calze appena al disopra delle caviglie, cimano il basilico.
Nell’attesa che i componenti del
gruppo prendano confidenza con la nuova sistemazione e provvedano al deposito
dei bagagli ed alla consegna dei passaporti, io e pochi altri decidiamo di
andare ad occupare le panchine poste di traverso all’inizio del viale. Alla
nostra sinistra stazionano sempre le donne che asportano gli strati apicali dalle
piantine dal verde intenso, di fronte a noi un tratto di terra battuta che
conduce all’esterno ed alla nostra destra l’ingresso al ristorante di poco anticipato
da una ampia stanza dove una piattaforma rialzata a tre fiancate con i rispettivi
braccioli accoglie sopra un largo tappeto un tavolo dell’altezza non superiore
ai trenta centimetri. A prima vista si ha l’impressione di avere di fronte due
suppellettili ammassate in sosta temporanea ma in definitiva si tratta di due
mobili sovrapposti messi lì non per caso ma, come spiega la guida, di un
apparato pronto a soddisfare il bisogno di ristorazione da parte di chiunque intenda
favorire il posto a tavola a patto di accomodarsi senza le scarpe e con gli
arti inferiori bene allungati sopra il pianale. La posizione dei commensali a
tavola è dunque a novanta gradi. Dubito che qualcuno di noi aderisca a
richieste di questo tipo. Penso che per i turisti occidentali, specie per
coloro che sono di qualche chilo di troppo, diventi alquanto difficoltoso,
sottoporsi ad esercizi ginnici fuori dal comune.
La città fortezza, oggetto della
nostra visita, è rappresentata, sulla cartina messa a nostra disposizione, da
un rettangolo con quattro ingressi, ciascuno posto sul punto medio di ogni
lato. E’ una città nella città. Il diaframma che divide i due contesti urbani è
costituito da un muro di terracotta dell’altezza di una ventina di metri sulla
cui linea mediana si intravvedono dei caratteristici cippi funerari terminanti
a carena come nelle imbarcazioni mentre nella parte superiore la merlatura
ripropone in successione lungo la cinta il disegno delle tombe citate. E’ la
cultura islamica che imponeva in passato questo tipo di sepolture. Oltre la
alta recinzione, nei pressi della porta Sud, si intravvede un minareto che
svetta altissimo verso il cielo.
Seguendo le direttive della
guida, ci portiamo verso la porta ad occidente dove, in un ampio spazio esterno
alla città, ci vengono fornite delle indicazioni sui camminamenti, sui mausolei,
sui minareti e sulle moschee che incontreremo una volta all’interno. L’intero
complesso urbano vanta in tutto una cinquantina di monumenti e circa
duecentocinquanta abitazioni private.
Appena varcato l’uscio che
immette nella cittadella, un festoso gruppo di giovanissimi, saranno una
trentina in tutto, si fa avanti verso l’uscita mimando l’andatura di un bambino
dell’età non superiore agli otto anni che procede con essi con molta compostezza
e con la consapevolezza di godere dell’attenzione dei più grandicelli di lui.
Ha tra le mani, all’altezza del petto, un biglietto della zecca uzbecca, forse
duecento sum. L’abito che indossa
rispetta il cerimoniale delle grandi occasioni ma non è di colore bianco. Forse
avrà superato qualche esame previsto dalla sua religione alla stregua di quanto
succedeva nell’Azione Cattolica nel passaggio da fiamma verde a fiamma gialla.
Quel che sorprende è che il nostro personaggio, una volta guadagnata l’uscita,
sguscia dalle sue ali di protezione per raggiungere di corsa una bancarella di
dolciumi. La guida precisa che con quell’importo potrà comprarsi qualche gomma
da masticare. Nulla di più.
Appena più avanti ci viene
incontro un corteo nuziale. La sposa, a nostra richiesta, si sofferma
compiaciuta e con molta grazia ci fa degli inchini. Le auguriamo attraverso il
nostro cicerone ogni bene. Nel corso del nostro itinerario avremo modo di
salutare altri due sfilate di giovani sposi.
Tra gli invitati non figurano
mai gli anziani. Solo giovani. Mi sembra di rivivere certi passaggi di Pratza manna o meglio della Tonara degli
anni quaranta. Mi riferiscono che nell’Uzbekistan circa la metà della
popolazione ha un’età compresa tra gli zero ed i venti anni. Per ritrovare in
Sardegna una distribuzione demografica identica a quella di questo stato
asiatico devo tornare indietro nel tempo di quasi due secoli. Ad Ilalà, un rione di Tonara ora scomparso,
erano 46 le persone al disotto dei venti anni. Dei 103 censiti nell’anno 1829
la percentuale raggiungeva il 44%. A Belvì, su una popolazione di 710 anime, si
contavano, sempre in detto anno, 327 residenti con età compresa tra le fasce
indicate. La percentuale si aggirava su una quota appena superiore al 46%. (Per approfondimenti si rimanda ai
lavori Memorie tonaresi-Censimenti
parrocchiali e Belvì-Donazioni, decime e censimenti nei
secoli scorsi)
All’interno di un vasto cortile,
che in passato dava spazio ad una mandrasa
con le caratteristiche celle per gli studenti di lezioni coraniche, una banda
suona motivi di fattura orientale. Gli orchestrali, in numero di sei ed in
abiti occidentali, accompagnano con le note dei loro strumenti fatti di
fisarmoniche, tamburi, chitarre dalla forma molto allungata il canto dell’unico
rappresentante femminile che, contrariamente ai suoi colleghi, veste abiti
decisamente orientali ed indossa un copricapo dal quale sembra involarsi un
caratteristico pennacchio di colore bianco.
Appena distante da loro di
qualche metro un esperto alla tastiera modula e governa con perizia la sonorità
del complesso. In uscita dal cortile le componenti del nostro gruppo fanno le
prime conoscenze con gli articoli d’artigianato, quali stoffe, ceramiche,
borsette, federe per cuscini, scialli, colbacchi, copricapo vari ed orecchini.
Hanno inizio le trattative che al solito si concludono sempre tardi. Sono
questi i momenti che dedico alla pausa. Panchine, sedili e le stesse sedie dei
commercianti fanno al mio caso.
Al ristorante situato
all’interno della fortezza gli antipasti sono presentati in piattini che spesso
fungono da vassoi di portata. Ci ritrovi creme di formaggio, fette di
melanzana, cetrioli, pomodori di piccole dimensioni, foglie di lattuga ridotte
quasi in filamenti, patatine, semi tostati di albicocche, pistacchi e perfino
caramelle. Il primo ed il secondo sono rappresentati da un consommé servito in
una ciotola e da un piatto con della carne in umido a base di pollo, pecora e
manzo. Il pane è ottimo. Per frutta vengono presentate delle fette di anguria e
melone. Si chiude con il tè, servito con teiera e tante scodelle per quanti
sono i commensali. Di zucchero neanche una zolletta. Bisogna sempre
richiederlo.
Di notte si cena in albergo. Il
menù presenta i soliti rituali dei piattini, ne conto 24 per sei persone, delle
scodelle e delle tazze.
Fuori fa freddo, come a Tonara
agli inizi d’autunno. Occorre avere sempre a portata di mano una maglietta a
maniche lunghe o un giubbotto.
Da Khiva a Bukhara nel deserto
Prima di lasciare l’albergo avverto gli
addetti della reception che in bagno c’è una piccola perdita d’acqua. Si tratta
di una goccia continua che nasce a pochi centimetri dal punto luce della volta.
Alle sette in punto il pullman
lascia Khiva. Nella prima periferia ci
vengono incontro ai lati della sede stradale basse case coloniche ricoperte di
materiale ondulato molto leggero. Le stalle hanno invece per tetto degli spessi
strati di fango misto con paglia che i contadini sono soliti confezionare in
loco. Le abitazioni sono costruite con mattoni. E’ questo il materiale più
utilizzato in edilizia. Ecco i campi di cotone con le raccoglitrici chine a
cogliere i preziosi fiocchi bianchi. La guida preferisce parlarci compiutamente
di questa fibra tessile fra qualche giorno nelle vicinanze di Tashkent.
Per brevi tratti ci fa compagnia
alla nostra destra uno dei due grandi fiumi che da sud a nord attraversano
l’Uzbekistan. Poi inizia il deserto, anzi la steppa desertica. Ne avremo per
tutta la giornata con paesaggi che non offrono nulla di interessante. L’andatura
del mezzo è lenta a causa delle pessime condizioni stradali.
Dall’altra parte della
carreggiata, alla nostra sinistra, si succedono con molta frequenza dei
poderosi mezzi che provvedono con l’aiuto di pochi operai allo sterramento
della direttrice di corsa che affianca la nostra sede viaria. Ad opera ultimata
questi assi di scorrimento saranno percorsi in un tempo molto ridotto. In certi
punti le macchine operatrici stanno posando anche il bitume. A partire dal
ciglio della strada e per una larghezza di una cinquantina di metri sono
evidenti ad ogni passo i segni della nostra inciviltà ben evidenziati da
bottiglie e buste di plastica. Il curioso carosello di rifiuti si ripete
all’infinito. Unica variante a questa meschina distrazione è data dalle piante
pioniere che, disposte in triplice fila formano un tratto continuo di molti
chilometri. Dopo qualche breve interruzione riprendono la loro corsa verso
Bukhara. Servono per impedire che la sabbia invada la sede stradale.
Per la pausa del pranzo ci
ritroviamo in una postazione desertica costituita da un ampio locale per la
ristorazione e da diversi disimpegni per gli addetti ai lavori. All’esterno
della struttura ricettiva il desco con il tavolo poggiato sul pianale rialzato
attende gli avventori di turno mentre all’interno, a ridosso di una parete, fa
la sua discreta figura un ramo di cotone con i suoi vaporosi batuffoli in bella
evidenza.
A servirci sono due giovani
ragazze uzbeke che con molta disinvoltura sembrano trovarsi a loro agio con i
costumi della loro terra che sanno sempre di abiti svasati che ricadono sui
pantaloni, di calzini che si stringono non molto al disopra delle caviglie, di
calzari arricchiti di lana e di stoffa e di un caratteristico copricapo a più
colori ed a più disegni.
Sulle nostre mense compariranno
in breve tempo del pane, del pesce, della carne, della frutta e del tè. Non
faccio la conta dei piattini interessati alla frutta secca ed agli antipasti.
I clienti di questa singolare
trattoria che si affaccia sul tracciato di questi 490 chilometri non mancano
mai. E’un continuo andirivieni. I prezzi delle bibite sono espressi in moneta
uzbeka ed in euro. Appena chiedo di una coca fredda con la espressione: Coca brr sono subito accontentato.
Verso l’ora del tramonto, nella
nostra corsa verso Bukhara, il sole ci sorprende di spalle. Non possiamo
sfruttare la possibilità di consacrare il magico momento nelle nostre pellicole
celebrali ed in quelle fotografiche in quanto siamo impegnati in un passo
liturgico con il nostro direttore spirituale. Non ho voluto disturbarvi mentre eravate intenti nelle vostre
meditazioni. Vi assicuro, riferisce il giovane parroco, che è stato bellissimo. Avrebbe potuto fare a meno di
parteciparcelo. Quasi una beffa in terra asiatica! Ci rifaremo comunque alla
prossima occasione!
Bukhara
Di primo mattino, oggi è il 25
di settembre, la messa viene celebrata in un locale messo disposizione dalla
direzione dell’albergo che ci ospita. I paramenti sacri, il piccolo messale, il
calice, il vino, le particole ed i pochi altri elementi che servono per onorare
la festa domenicale ci sono tutti.
Ed eccoci alla conquista della
città. Al cambio di 2950 sum per ogni
euro, la guida è disposta, nelle vesti di cambiavalute, a favorirci modeste
quantità di moneta locale. I biglietti di stato che mi offre per venti euro sono
quarantanove. Un bel malloppo che rigonfia abbondantemente uno dei tanti
taschini del giubbotto. Questi soldi mi serviranno per modiche spese quali
bibite, regalie e mance. Preciso che nelle contrattazioni sono bene accetti
anche gli euro.
La prima visita ricade su di un
mausoleo fatto costruire per onorare la memoria di un rabdomante che in questo
sito, con un colpo di bastone, era riuscito a far zampillare l’acqua. Negli
interni alcuni fedeli di religione islamica attingono il liquido dai vari
ugelli di un serbatoio, si dissetano e, con ampi gesti delle mani, pregano e cantano
sommessamente.
I turisti, accompagnati dalle
loro guide, si accalcano un po’ dovunque. Alle pareti diverse fotografie del
passato presentano momenti di vita agricola regolati da cammelli che con la
loro forza permettono l’adduzione del prezioso liquido dalle falde acquifere.
Sono ben visibili l’albero maestro, fatto girare dall’animale con particolari
tiranti che lo legano al collo ed alla coda, ed il pignone i quali, con i loro
movimenti rotatori, permettono ai contenitori dell’acqua di essere travasati in
una ampia vasca. E’ la noria, il mulino d’acqua di invenzione araba. Oristano,
la città dove risiedo, era dotata, sino all’avvento delle pompe idrauliche, di
numerosi pozzi-noria. Peccato! Si sarebbe potuto favorire la riabilitazione di
almeno uno di essi per scopi didattici e turistici ma le amministrazioni
pubbliche ed i privati sono sempre stati sordi a questo richiamo.
Per norie, gualchiere e mulini è
sempre troppo tardi in Sardegna. Uno dei pochi manufatti ancora degni di un
certo interesse si trova a Figu nei
pressi di Ales. Al servizio curato
col titolo Figu: un pugno di case,
una guarnizione tedesca ed una noria e visitato nel portale di
Tiscali in un solo giorno da più di tremila utenti, non ha fatto seguito
neppure un commento!
In uscita dal mausoleo si
continua per altri siti che sanno di mandrase,
moschee e minareti. Le fogge di questi ultimi ricalcano per certi versi quelle
dei macinapepe. Sono di forma cilindrica ma con tendenza a ridurre il loro
diametro mano a mano che si elevano in altezza. Superiormente sono sormontati
da un tronco di cono rovesciato o da una semisfera. In entrambi i casi
ricordano le toppe delle serrature delle porte interne delle nostre abitazioni.
Sono tutti differenti per il diametro di base, per l’altezza, per la pendenza,
per i disegni, per gli ornamenti, per le scritte islamiche e per i colori
espressi sulle piastrelle di maiolica che avvolgono la struttura. L’azzurro
comunque è la tinta prevalente. Alcuni presentano le lesioni del tempo, altri
addirittura sono diroccati mentre un buon numero svetta superbamente verso il
cielo. Base e altezza di questo minareto
sono rispettivamente di 13 e 32 metri. Fu
fatto costruire da … nel … Dall’alto della torretta fu fatto precipitare … E
così via con i racconti della guida che navigano sempre tra verità storiche e
leggenda. Di uno di essi, in precarie condizioni di stabilità, mi diverto a
stimarne il suo baricentro la cui verticale, a occhio e croce, ricade ancora, e
non so per quanto tempo, all’interno della sua base d’appoggio. Di torri di
Pisa qui ce ne sono parecchie.
Fra poco faremo visita alla
città fortezza dove è d’obbligo, per quanti sono dotati di macchine
fotografiche, il versamento agli addetti di una piccola somma. E da vedere e
fotografare ce n’è veramente tanto. Archeologia, storia, folclore, artigianato
sono a nostra disposizione.
In ogni dove comunque i
venditori ambulanti presentano la loro merce fatta di seta e di stoffe
pregiate. Siamo nella cittadella-fortezza di Bukhara. In un piccolo sottano,
ben visibile da una stradina sulla quale si affacciano i laboratori di diversi cesellatori
intenti alla rifinitura dei loro oggetti in legno e i metallo, sono
rappresentate delle figure umane lavorate su legno o su gesso che danno una
chiara testimonianza delle torture subite dai condannati del passato. Sono
scene veramente agghiaccianti, non dissimili da quelle presentate in una
prigione di Khiva dove i carcerati, incatenati e costretti a convivere in poco
spazio, erano lasciati morire di fame e di stenti. Alle donne, riferisce la
guida, era riservato un trattamento speciale che consisteva nel coabitare
all’interno di un sacco in compagnia di un gatto.
Le bancarelle hanno comunque il sopravvento in
ogni dove. Scialli, fazzoletti, cuscini, borse, foulard, capi di vestiario,
cappelli, monete antiche, strani portavasi di legno che assumono diverse fogge
a seconda della pressione delle mani sono sotto gli occhi attenti delle nostre
compagne di viaggio che non si lasciano sfuggire l’opportunità di fare le loro
contrattazioni. Di una pezza di stoffa lunga diversi metri e trattenuta dalle
mani della negoziante e di una nostra componente ho visto strattonate così energiche
tanto da una parte che dall’altra che ho temuto che la trattativa non andasse
più a buon fine. Solo i prezzi, nella continua rincorsa verso il basso,
riuscivano a stemperare l’animosità dei contraenti. Sembrava proprio il gioco
del tiro alla fune. In queste occasioni il riposo nelle panchine di fortuna per
me è proprio edificante.
Una volta all’esterno ci
ritroviamo in una grande piazza dove un bambino vestito di tutto punto
caracolla avanti e indietro con molta disinvoltura. Sembra il padrone della
grande area. Richiesto di posare per una foto ricordo, si volta di scatto e, dichiarando
la sua indisponibilità, va a guadagnare altri spazi. Sembra proprio un paggetto
che fa le bizze, orgoglioso comunque di aver snobbato le nostre attenzioni.
Al ristorante ci attendono i
soliti antipasti, primi, secondi e dessert serviti con il solito carosello di
piattini, ciotole e scodelle. Il tè, verde o nero, è sempre presente ma il
dolcificante non rientra mai nel protocollo di questa sostanza nervina.
Di fronte a me un’ampia vetrata
mi permette di osservare l’insolito scenario che si sviluppa lungo la strada
adiacente al punto di ristoro. E’ il rientro alle proprie abitazioni di gruppi
di persone di età matura. Conversano del più e del meno e poi scompaiono dal
mio punto di osservazione. Oltre questa corrente di traffico molto contenuta ma
continua vi è la sede stradale più importante della città. I mezzi pesanti e
gli autobus sfrecciano a velocità sostenuta e nelle strisce pedonali occorre
prestare molta attenzione. Alla mia sinistra tra i diversi tavolini occupati da
turisti italiani, dei quali riconosco le parlate lombarde e toscane, i
camerieri provvedono di gran lena a soddisfare le richieste della clientela.
Alla mia destra, non più
distante di una decina di metri, una donna di età matura, ma molto piccola di
statura, staziona in continuazione sulla soglia dell’ingresso principale. Ha in
testa un fazzoletto annodato sulla nuca, indossa un vestito svasato con una
geometria semplice di colori e di disegni e calza scarpette all’occidentale con
calzini neri secondo le abitudini uzbeke. Di suo ha due occhietti neri che
fulminano ogni tua mossa appena le passi vicino. E’ la padrona ? chiedo
alla guida. No è la donna delle pulizie .Questa
la risposta. Dopo aver chiesto alla donna minuta il consenso per una foto
ricordo ricevo in cambio un bel sorriso.
Durante la serata c’è da rendere
visita ai bazar coperti della città. Di gente, forse per l’ora insolita, ce n’è
pochissima. Avremmo dovuto approfittare delle ore della mattinata. Più avanti
si trova un negozio di tappeti, i tappeti di Bukhara. La commessa, in un
italiano molto accomodante, inizia a stendere i suoi prodotti sul pavimento
facendoli roteare di centottanta gradi con maestria e professionalità. E’
questo l’unico modo per smascherare le false lavorazioni e per far evidenziare
al meglio i colori cangianti della seta.
Fate voi il vostro prezzo. Io parto da mille euro, avverte la
negoziante. Il prezzo scende sino a trecento euro. Oltre non si va. E’ una
somma notevole per tutti. Io in tasca ho sempre l’importo necessario per
pagarmi le spese di viaggio per il ritorno in Italia. Non si sa mai quel che può
accadere all’estero. E’ l’equivalente del prezzo del tappeto. Tutti ringraziano
e salutano. E’ un articolo che difficilmente saluterà i nostri salotti barbaricini
o campidanesi.
La serata si consuma girando per
percorsi illuminati da tante storie da raccontare ma anche appesantiti da tanta
stanchezza da smaltire. A cena una sfilata di alta moda ed uno spettacolo
folcloristico, rappresentati con toni molto morigerati, chiudono una giornata
votata all’insegna della cultura del passato e del presente di un paese dalle
tante sorprese.
Da Bukhara a Samarcanda.
Si parte per Samarcanda. E’ un
lungo viaggio attraverso un percorso di quattrocento chilometri.
So che avrei dovuto di primo
mattino segnalare alla reception che le mensole su cui sono conservati gli
accappatoi si tengono su quasi per miracolo. Gli espander sono quasi fuori
della loro sede e le viti sono posizionate a mezz’aria. Penso che provvederanno
in merito!
Verso le tredici ci si ferma in
una trattoria fuori dell’abitato di Shakrisabz, la città che aveva dato i
natali a Tamerlano nel 1336. A tavola vengono presentati i soliti antipasti
accompagnati dalla zuppa e dalla carne. Mica male! Peccato che i servizi
igienici siano a dir poco ributtanti. Una milanese in uscita dal bagno
riservato alle signore ride. Forse sta ridendo ancora. Ma questo succede non
solo in trasferta.
A pomeriggio avanzato, dopo aver
reso visita alla città verde, quasi logu delitziosu e de incantu per le
bellezze naturali e per tutto ciò che riguarda i meravigliosi palazzi fatti
costruire dal suo illustre cittadino o eretti post mortem in suo onore, si riparte per Samarcanda. Ad una ventina
di chilometri dall’arrivo in città il paesaggio cambia d’improvviso per
assumere dei connotati desertici, quasi lunari, dove gli animali, in
particolare ovini, bovini ed asini brucano non so che cosa. Mi sembra di essere
in Medio Oriente e non in Asia centrale. Ho la strana sensazione in certi
momenti di inseguire un’altra direzione di viaggio.
La guida riferisce che tra
qualche mese, con le grandi piogge, la natura si presenterà con un manto del
tutto diverso.
Stiamo procedendo nella
direzione ovest-est, infatti il mezzo ci presenta il tramonto di spalle alla
nostra corsa. Nessuno dei passeggeri è disposto a lasciarsi sfuggire le
immagini del sole in caduta libera nel vuoto dietro la collina. Molti guardano
ad occhio nudo un astro non più in grado di dardeggiare. In poco tempo la terra
accoglie la sfera celeste fungendo prima da tangente, quindi da secante e
infine da contraltare alla sua scia ancora luminosa. Le macchine fotografiche
testimonieranno dei meravigliosi effetti controluce rilevati dal fondo della
corriera. Tutti si sono ripresi una giusta rivincita sul nostro accompagnatore
spirituale per lo smacco subito il giorno prima al momento delle meditazioni.
Il traffico comincia a farsi apprezzare
su una strada che adesso si presenta con la doppia carreggiata. Le luci fievoli
ma continue che animano le prime abitazioni della periferia anticipano
gradatamente l’arrivo a Samarcanda. L’arteria principale, lunga più di un
chilometro, attraversa tutta la città.
Al termine della sua corsa il
pullman si ferma su di un poggio quasi di fronte ad una statua di Tamerlano.
Tutt’intorno si intravedono, distribuiti su grandi piazze, mausolei, madrase, moschee e minareti. Il nostro
albergo gode del privilegio di essere posizionato al centro di un anfiteatro di
mistero e di magia.
Il tutto è rimandato a domani.
Samarcanda
E’ una delle città più antiche
del mondo.
Rasa al suolo dalle orde di
Gengis Khan fu ricostruita da Tamerlano che la rese splendente di monumenti e
d’arte. Imponente il mausoleo dove il grande conquistatore è sepolto assieme ai suoi stretti parenti.
Del nostro giro culturale fanno
parte le visite alle moschee, alle scuole coraniche ed ai minareti, monumenti
questi ben inseriti nel contesto di vaste piazze dove l’elemento acqua, nelle
sue espressioni a zampillo su ampie piscine, gioca un ruolo determinante.
Questa, avverte la guida, è
la moschea con la cupola più grande, quest’altra con la cupola più bella. I
termini di riferimento, ben s’intende, valgono per tutta l’Asia centrale. E via
con le solite indicazioni che riguardano l’anno di costruzione, la durata dei
lavori, il colore della ceramica, la decifrazione delle scritte che ogni tanto
compaiono tanto all’esterno quanto all’interno, lo studio dei disegni e degli
ornamenti e così via. Di queste strutture se ne incontrano per strada così
tante che risulta difficile a fine mattinata rendicontarle tutte. E’ come
andare in Sardegna per spiagge e per nuraghi. Anche il più attento e scrupoloso
osservatore finirebbe con l’arrendersi.
A mitigare tanta voglia di
conoscenza vengono incontro gli spazi dedicati alle contrattazioni. Come ho già
riferito altrove, questi sono i momenti in cui riesco a ricaricare le mie
energie standomene accucciato sulle panchine. I negozietti alloggiati
all’interno di piccole celle, una volta utilizzate dagli studenti delle madrase, magnetizzano, con gli articoli d’artigianato
bene esposti all’esterno, l’attenzione delle nostre compagne di viaggio.
Veramente non si fanno pregare due volte per soddisfare la loro voglia di
trattativa ed in tempi brevissimi scompaiono dalla vista delle porte dai bassi
architravi.
Spesso le contrattazioni
avvengono all’aperto e della conclusione dell’affare te ne accorgi quando il
sorriso della negoziante s’illumina
d’immenso. Comunque il tira e molla è perfino esasperante.
Le vendite dei libri e dei
supporti audio e video che illustrano il vissuto di questa nazione sono
affidate ai maschi adulti i quali non mancano mai di formare i loro capannelli
all’ingresso delle varie attività museali.
I bambini difficilmente
partecipano al gioco delle trattative. Ne avevo visto qualcuno a Khiva
barattare per qualche euro cartoline e stampe varie. In questa città, come
anche a Bukhara li vedi impegnati nei loro giochi. Talvolta sfrecciano con le
loro biciclette, in lungo e in largo, per le piazze di Samarcanda. Potrebbero
diventare tutti degli ottimi pistard in quanto i loro mezzi hanno il pignone
fisso, l’accessorio che garantisce la frenata con il semplice movimento
rotatorio all’indietro dei pedali. Di fari manco a parlarne. Dall’imbrunire in
poi questi imberbi cicloturisti scompaiono dalla circolazione.
I maschietti li vedi a frotte quasi
dappertutto. Non so dove, se qui a Samarcanda oppure a Bukhara, la guida aveva
indicato in lontananza il monumento dedicato alla gioventù. Su monumentu a su fedu, direbbero in Pratza manna. Richiesti di posare per
qualche foto ricordo, nella maggior parte dei casi acconsentono, ma dopo ti
chiedono caramelle o carta moneta. Con molta dignità e compostezza, ma senza
insistere. Le femminucce, elegantissime, come d’altronde lo sono i loro partner,
richiedono subito le inquadrature fotografiche e, sorridendo, si compiacciono
divertite.
Da riprendere con le cineprese
sono gli scolaretti che a gruppi di tre o quattro, con le loro divise inappuntabili
e zainetto a tracolla, sciamano chiassosamente per la via che li riporta a casa.
Di pomeriggio è in programma la
visita al mercato principale della città.
Appena varcato l’ingresso, una
scalinata fatta di lunghe rampe e di brevi piani di riposo porta verso l’uscita
lasciandosi sulla sinistra lunghe bancate dove i rivenditori espongono i loro
articoli con molta cura, capacità e maestria. Ogni ben di Dio è inquadrato
secondo composizioni che ricordano la geometria solida. Questo vale per i
settori merceologici che riguardano in particolar modo i cereali, i legumi, la
frutta secca e le spezie aromatiche. Neanche nei mercati di Marrakech,
Istambul, Damasco e di Città del Cairo mi era capitato di osservare tanta
meticolosità espositiva. Noci prive del loro guscio, mandorle e pistacchi
pronti ad essere estratti dal loro involucro con una leggera pressione delle
dita, ceci, semi di albicocca ed altre leccornie sono rappresentati nei vari
cesti a cascata in posizione così precaria che basterebbe un piccolo urto
casuale per provocare l’azzeramento delle piccole opere d’arte.
Per le modalità di pagamento non
c’è alcun problema. Con una calcolatrice sotto mano il conteggio delle tue
piccole spese è subito trasformato in euro o in dollari. Ma puoi pagare anche
in sum, la moneta locale.
Dell’ora di tempo a disposizione
buona parte viene spesa sul primo banco dove viene fatta incetta di un po’ di
tutto. Finalmente il gruppo, formato da tre componenti della Barbagia centrale
e da dodici del Campidano, fa qualche passo in avanti verso il settore
dolciario.
Ecco il torrone. Gli espositori
ce ne offrono qualche piccola scaglia per l’assaggio. Tra gli ingredienti, come
conferma anche Mukadas, la nostra guida, mandorle, pistacchi, ceci, zucchero e
bianchi d’uovo. In Uzbekistan il caratteristico dolce, che fa parte del
cerimoniale nuziale, viene offerto in dono alla sposa. Il formato in esposizione
sa di un grosso ciambellone. Nulla so dei metodi di lavorazione. So comunque come
si confeziona a Tonara. Artigianalmente viene usato un lungo mestolo che
lavora, a fuoco lento, il miele contenuto all’interno di una ampia caldaia di
rame. Industrialmente esistono i frullatori. Una volta mi ero divertito a
produrne una piccola quantità con l’azione di una frusta inserita nel mandrino
di un trapano semi professionale manovrato a velocità ridotta. L’intervento
della frutta secca avviene a cottura ultimata. Dello sforzo che viene profuso
dalle operatrici manuali te ne accorgi quando la massa pastosa tende a
diventare più compatta. Le operaie tendono ad impugnare sa moriga, ossia la centrifuga a mano, sempre più in basso tanto
che ad un certo punto sono in posizione china verso la caldaia. Ricordo che la
distanza che intercorre tra il punto in cui è ancorato il mestolo e il punto
d’appoggio delle braccia femminili è sempre inferiore della distanza tra il
fulcro citato e la pasta in cottura che funge da resistenza. Si ha a che fare
con una leva svantaggiosa!
I tonaresi affermano che il
prodotto da loro confezionato è il migliore del mondo. Non li ho mai
contraddetti. Pochi, per la verità pochissimi, ritengono che il torrone sia
nato nel loro paese. Mi permetto al riguardo di presentare in coda al presente
reportage le mie ricerche sulle origini sul torrone.
In uscita dal mercato, nei
pressi di un giardino alberato mi segnalano la presenza di una gazza ladra e
dei merli in divisa bianconera. Il volatile che mi incuriosisce di più è il
corvide per la sua lunga coda e la sua prestanza in costante assetto
predatorio. E’ appena più grande delle gazze sarde. Nel piumaggio queste ultime
si presentano con colori prevalentemente nerazzurri.
Coglie bene l’occasione la
nostra guida, durante la visita ad una madrasa,
per illustrarci l’importanza avuta da Samarcanda nel commercio della seta
durante i secoli passati. Il sussidio didattico più efficace è offerto da una
mappa issata su di una parete che raffigura i punti nevralgici facenti capo a
questo importante crocevia serico. Con la bacchetta va ad inseguire in un
percorso che abbraccia oriente ed occidente città come Istambul, Damasco, Alessandria
d’Egitto, Nuova Delhi e Pechino, entità così vicine nella carta geografica ma
lontanissime e quasi irraggiungibili con i mezzi di allora. Era la sola voglia
insaziabile imposta dal commercio che induceva le carovane a spingersi avanti con
i loro carichi preziosi nel deserto per molti mesi all’anno.
La giornata si conclude con la
visita al cimitero dei timuridi, gli
stretti parenti di Amir Timur (il
Tamerlano). Ce n’è abbastanza per rincorrere un passato ricco di storia, di
arte e di mistero.
Da Samarcanda a Tashkent
Lasciata Samarcanda il paesaggio
si ripresenta con il solito carosello di case coloniche ricoperte di materiale
leggero, campi di cotone dal bianco fiabesco, frutteti con le mele e le
melagrane ancora appese sui rami, mandrie di bovini al pascolo ma anche greggi
di ovini con il loro manto villoso color carbone. I docili asinelli sono sempre
presenti un po’ dovunque pronti ad assecondare con umiltà e sacrificio i
compiti imposti dalle aziende agricole e di trasporto. Spesso questi pazienti
animali allo stato di riposo si ritrovano in prossimità delle stalle Quando vedi una copertura con lo spesso
strato di paglia in quei pressi immancabilmente c’è un asino.
Gli alberi che ci vengono
incontro nella nostra dirittura di marcia sono tutti imbiancati di calce dalla
base sino all’altezza di un metro. La probabilità che solo una di queste piante
sfugga al trattamento chimico è molto ridotta. Questo vale per le prime tre o
quattro file che accompagnano i bordi della sede stradale.
Dopo un centinaio di chilometri le
montagne sembrano prendere il sopravvento sulla pianura. Si tratta comunque di
rilievi di fattura tozza e ben sedimentata. Mano a mano che ci avviciniamo ad
essi ci accorgiamo di avere di fronte dei dossi collinari a strana forma di
pagnotta dell’altezza non superiore ai due o trecento metri. Sulla roccia, che
è di tipo schistoso, compaiono delle scritte in carattere cirillico le quali
diventano più numerose nei pressi di una grotta di piccola apertura ma di una
certa profondità.
Alla nostra sinistra, alla
distanza di circa duecento metri corre il doppio binario di una ferrovia
elettrificata. Di cisterne cariche di combustibile, trainate da due potenti
locomotori in movimento opposto al nostro senso di marcia, riesco a
conteggiarne una cinquantina ma di certo alcune decine del lungo convoglio sono
sfuggite alla mia attenzione.
Intanto anche i contorni
orografici accennano a cedere gradatamente il posto ad una immensa pianura. E’
questa una zona molto fertile dai connotati agricoli molto appariscenti. Le
colture del cotone, del granturco e del riso si succedono armonicamente alle
vaste distese dei frutteti dai pomi color granata mentre il paesaggio, specie
nelle aree riservate al pascolo, è ricreato dal lento procedere dei bovini e
degli ovini.
Sarebbe utile che la guida ci
fornisse delle indicazioni sull’economia, sulla storia, sui costumi che
riguardano la regione che stiamo attraversando, ma il nostro cicerone dorme
saporitamente sin dalla partenza.
A circa 150 chilometri dalla
capitale compare alla nostra sinistra un curatissimo centro urbano, segnalato
sulla cartina con il nome di Djizzak.
Abbiamo il tempo di notare una stazione di pullman con tantissime macchine
parcheggiate ordinatamente nei luoghi di sosta e con il solito via vai di
persone indaffarate a guadagnare i propri mezzi o le imboccature d’uscita dal
piazzale centrale. Superata questa cittadina, forse la più grande fra quelle
incontrate in questa lunga tappa, la periferia ci consola con inquadrature di
begli edifici e di visioni bucoliche di pastori e contadini intenti al loro
lavoro. Completano lo scenario le raccoglitrici di cotone intente a riempire le
loro ceste con i vaporosi fiocchi color bianco. La terra è ben asservita
dall’acqua del grande fiume che dà il nome a questo dipartimento e da quella
dei numerosi laghi che insistono sul territorio.
Eppure questo strano mondo,
presentato dagli intenditori sempre più infagottato, sempre più incerottato e
sempre più invivibile, non finisce mai di sorprenderci e di stupirci con i suoi
segnali di vita. E’ quel che si avverte in queste plaghe lontanissime dal mondo
ma allo stesso tempo al centro di molteplici interessi di carattere economico,
culturale e comportamentale.
Ci siamo immessi da poco in una
superstrada molto carente della segnaletica stradale. La cartellonistica è
nulla. Lungo i bordi della sede stradale i pali elettrici sono così distanti
tra di loro che le campate cadenzano delle linee paraboliche con il punto di
minimo che rade l’aria ad un altezza approssimativa di due o tre metri da
terra. Il traffico è di poco inferiore a quello espresso dalla nostra maggiore
arteria isolana. Il fondo stradale non consente al nostro mezzo di procedere a
velocità più sostenuta. Prendo appunti
nel mio taccuino a fatica. Assente ripeto la segnaletica della mezzeria di
corsia mentre la mediana dell’intero asse stradale è rappresentata da una
struttura in cemento armato con base e altezza rispettivamente di una ventina e
di una ottantina di centimetri.
Alla destra della carreggiata i
pazienti asinelli procedono con il loro carico di prodotti della terra stivati
accuratamente nei carretto e con i conduttori a cavalcioni sulla loro groppa.
Sempre sulla destra vediamo un lungo carosello di carretti fermi sul limite
della carreggiata con le spranghe sollevate e con le melagrane in bella
esposizione sul piano inclinato. I meloni e le angurie sono disseminati sul
terreno a piccoli rettangoli. E’ questa una scena che si ripete ogni due o
trecento metri per svariati chilometri.
Il grande fiume, ora con poca
acqua, ci immette nella provincia di Tashkent (torre di pietra). Per arrivare
in città ci vorrà ancora un’ora. La guida è ora pronta a centellinare le sue
notizie facendoci notare che nello stemma dell’Uzbekistan sono rappresentati il
cotone, il grano ed i due grandi fiumi che lo attraversano. Per la raccolta
dell’importante fibra vegetale partecipano tutti. In questo periodo le scuole
sono chiuse.
Ecco le cicogne, avverte Muhadas, indicandoci dei nidi costruiti
sulle parti più elevate dei tralicci elettrici. Ne intravvedo una decina in
tutto ma solamente in uno di essi riesco a riconoscere in maniera esaustiva la
presenza dello strano trampoliere in bianco e nero. La cicogna a Tashkent
rappresenta il simbolo della città. Diverse sculture di questi volatili, con le
ali spiegate verso il cielo, conquistano quasi sempre le parti più elevate dei più
importanti edifici pubblici.
Tashkent
Ed eccoci di nuovo a Tashkent. Anche qui altra
abbuffata di minareti, mandrase,
moschee, mausolei, musei e bancarelle di oggettistica locale. Dei quattro
minareti situati agli angoli di una vasta area di forma quadrata due sono stati
costruiti in quest’ultimo decennio proprio per il completamento architettonico
della piazza. In una scuola coranica facente parte dell’intero complesso è
possibile vedere una copia originale del Corano redatta nel 650 A.D. (Anno
Domini). Per poter accedere bisogna lasciare le scarpe all’esterno.
Fa da cornice a questa grande città il verde degli alberi disseminati
lungo i viali. Le piante, contrassegnate sulla parte bassa del tronco dal
bianco della calce omaggiata abbondantemente dagli addetti ai lavori, si
inseguono con ordine per lunghissimi tratti dei quartieri. Strano, ma anche i
pali elettrici sono favoriti di queste pennellate agli stinchi.
Di pomeriggio si continua per
altri percorsi che finiscono col presentare poche varianti al concelebrato menù.
La fatica comincia a farsi sentire. L’occasione per riposarmi si presenta alla
vista di alcune panche disposte all’ombra di alcuni ippocastani secolari. Approfittano
della sosta anche alcuni componenti del gruppo di cui faccio parte. Di fronte a
noi una moschea ed un minareto. Un signore vestito di bianco da capo a piedi,
di età indefinita, di corporatura molto robusta e di altezza intorno al metro e
mezzo, si avvicina verso di noi, occupa un posto libero e con molta
disinvoltura cerca di porci delle domande che ai più sono del tutto
incomprensibili. Tiene ad informarci che è il muezzin e, tanto per suffragare
la sua fede religiosa, intona a voce bassa una preghiera canonica. Di altre
notizie sul suo operato ci rende edotti una nostra connazionale la quale tiene
a precisare di non conoscere alcuna lingua ma di essere in grado di capire
anche l’uzbeko. E’ questione di intuito, dichiara la nostra brava
rappresentante.
Della figura di Tamerlano, il
grande conquistatore che era riuscito ad annullare le idee espansionistiche del
sultano, il sovrano dell’Impero ottomano, rimangono nelle più grandi piazze di
questa città non solo i segni del suo operato ma anche quelli riservati in ogni
tempo alla sua memoria. E sono passati più di settecento anni!
All’imbrunire c’è tempo per un
giro con la metropolitana. E’ sufficiente percorrere un breve tratto con i
locomotori per accorgersi della imponente struttura che governa mezzi ed
impianti della linea sotterranea. Nella pausa tra due stazioni ci si ritrova
sulla piattaforma che abilita agli ingressi dei convogli nei due sensi di
corsa. Nell’attesa c’è modo di ammirare sulle volte delle tre navate
composizioni di arte islamica di rara fattura. E’ questione di pochi attimi in
quanto siamo letteralmente risucchiati e schiumati all’interno dalle carrozze
in partenza. Al prezioso carico dei passeggeri uzbeki si aggiunge quello dei
sardi. Ci sentiamo tutti come sardine con le mani che controllano nelle tasche
passaporto, permesso di soggiorno e portafogli, le cose più importanti quando
si è all’estero. Fra tanta gente sconosciuta si avverte anche un senso di
solitudine e di prostrazione.
Di notte il redde rationem viene dato in un ristorante di periferia dove ad
ognuno dei partecipanti viene rilasciato un attestato di prova superata.
E sulle note della buona musica
eseguita da un solo orchestrale che asseconda e promuove i passi di danza di
alcune ballerine si chiude questa nostra piacevole parentesi asiatica.
All’aeroporto un boeing comodo e
capiente ci riporta a Roma dopo aver infilato il corridoio aereo del deserto,
del Mar Caspio, del Mar Nero, delle città di Bucarest, Belgrado, Saraievo, del
Mar Adriatico e del Gran Sasso.
Sotto di me non ho visto
null’altro che nuvole ma le letture sui computer di bordo mi hanno facilitato
la comprensione della rotta istante per istante.
La tratta Roma - Cagliari
rappresenta l’ultima tappa.
Per smaltire la fatica di questa
settimana occorrerà un po’ di tempo ma per dimenticare i passaggi ed i paesaggi
da favola incontrati ad ogni passo in Uzbekistan sarà molto, ma molto
difficile.