sabato 28 gennaio 2012

Da Tonara a Samarcanda sulle vie del torrone e della seta (di Nino Mura)


Da Tonara a Samarcanda sulle vie del torrone e della seta

Visita nel Mandrolisai
   Caro amico,
   Ti ringrazio di cuore per avermi invitato a conoscere il tuo paesetto arroccato sulle pendici del Gennargentu. Quanta strada per poterlo raggiungere ma, alla fine, ne è proprio valsa la pena. Non credevo minimamente che le infinite curve del fondo stradale potessero distogliermi per un solo attimo dal cogliere le multicolori sfumature offerte dai mutevoli paesaggi delle tue montagne. Quanto ho desiderato in quei momenti poter salire lassù sino agli ultimi contrafforti territoriali per poter abbracciare idealmente gli estremi limiti del tuo Mandrolisai.
   Non penso vi sia in Sardegna un altro distretto montagnoso che, tra i suoi estremi altimetrici, possa vantare dislivelli superiori ai mille metri. Neanche la Barbagia di Belvì con il suo punto di minimo nel rio Araxisi, tra i centri di Atzara e Meana, ed il suo massimo sulle pendici del Monte Cresia a quota millecinquecento.
   Sarà riservata ad un'altra occasione la possibilità di fotografare mentalmente dall’alto del Muggianeddu i grandi spazi che portano a precipizio verso le forre depressionarie dell’agro samughese.
   Il tempo a disposizione non mi ha comunque impedito di mettere a fuoco alcune istantanee sul gradito soggiorno barbaricino.
   I rapporti umani. Alla solita curiosità che viene normalmente riservata ai forestieri, spesso fanno seguito nella tua terra manifestazioni di simpatia miste di schietta sardità, di voglia di conoscenza e di sincera apertura al dialogo.
   Il lato paesaggistico. Quanti boschi, quanta vegetazione, quanta pace ma anche quanta difficoltà a distinguere le roverelle dai lecci e dalle piante da sughero. Né posso dimenticare le caratteristiche casette addossate le une sulle altre lungo i costoni della montagna, spesso in posizione assolata ma talvolta ombreggiate da cupolifere di riguardo, quasi un invito ad una sosta più prolungata e contemplativa.
   Il senso dello spazio. Poter riuscire nell’intento di circoscrivere con il gesto delle braccia protese verso il vuoto immensi spazi è una opportunità che la pianura campidanese, pur con i suoi notevoli vantaggi, non ti può dare. L’idea di poter idealmente far tuo tutto l’insieme non sembra escludere la possibilità riservata allo spazio circostante di impossessarsi di te. E’ il solito scontro tra due entità opposte: l’infinitesimo e l’infinito o meglio l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande.
   I piccoli insetti. Mi è stato riferito che ad alta quota le zanzare non riescano ad organizzare propri habitat. Di ciò mi sono molto rallegrato. Ho anche appreso che quelle che voi chiamate tzintzulas non sono altro che le cicale. Cosa ben diversa quindi dalle fastidiose tzintzuas.
   Le chiesette campestri. Fanno parte del mio patrimonio affettivo. Accendono la mia fantasia facendomi riandare a ritroso nei secoli come insegna la storia. Non posso dimenticare il mio interesse per quella chiesetta posta sul colle che porta il nome del santo che vi è venerato. Nulla di particolare dal punto di vista architettonico: facciata priva di lesene e dalle linee molto sobrie con l’intonaco tinteggiato di recente ed una sola apertura verso il sagrato.
   E’ lì, nelle immediate pertinenze dell’area di culto, che ho potuto farmi un’idea del tasso di fede e di religiosità dei tuoi compaesani. All’ora della funzione liturgica i fedeli erano compostamente ordinati sul piccolo piazzale antistante la chiesa. All’interno di essa, ben visibile dall’esterno, il sacerdote con ampi gesti della mano comunicava idealmente con tutti. Accanto al celebrante nessun collaboratore. Lo spazio ridottissimo della zona riservata al presbiterio non gli impediva di eseguire al meglio i suoi uffici. A pochi passi da lui i presenti sembravano distribuiti secondo l’ordine prefissato da un transetto e da navate del tutto immaginari, con tanto di terra battuta per basamento e con la volta celeste per travatura. Il perimetro murario, anch’esso immaginario, era costituito da muretti a secco abbondantemente rivestiti di rovi spontanei e resistenti. Oltre i limiti della croce latina teste descritta, si sviluppa una zona di rispetto orfana di presenze umane.
   Signore insegnaci a pregare, disse ad un tratto il ministro del culto in uno dei passaggi più importanti della sua omelia. Molti di età matura, tra i quali diverse donne indossanti l’antico costume, e diversi giovani con l’abito di velluto griffato, mi sembrarono riflettere sull’importante messaggio evangelico.
   Appena dietro la zona di rispetto si delineavano, approvvigionati di leccornie, bevande e cibarie, i vari stand della sagra. Quanti sapori, quanti assaggi e quanto appetito!
   Il tempo. Cieli azzurri ma talvolta imbronciati di nuvole mi hanno sorpreso più di una volta con improvvisi acquazzoni estivi. Ma da voi rientra nella norma.
   Sintesi di chiusura e ringraziamenti. Sfumature di colori ricchi di intensità cromatica, idiomi carichi di antichi linguaggi, passaggi di squisita ospitalità da segnalare nel taccuino dei ricordi ed ancora punti di fuga di scenari indimenticabili con casette tinte di bianco rosso pronte a rincorrersi nel fondovalle, testimoniano del mio spontaneo e lusinghiero apprezzamento per la tua gente e per il tuo territorio.
   Di un mio prossimo viaggio in un’altra regione ugualmente allettante della nostra diocesi arborense ti renderò edotto con la solita puntualità. Dei caratteristici paesi di Atzara, Desulo, Ortueri, Samugheo, Sorgono e Tonara serberò a lungo un piacevole ricordo.
   Nel frattempo mi dovrò concedere una pausa di ferie e per l’occasione mi recherò nell’Ubzekistan, una terra a me sconosciuta, ma a quanto dicono per chi l’ha visitata, dalle letture molto interessanti. Forse avrai sentito parlare di Samarcanda, notevole caposaldo di detta regione asiatica inserito sui percorsi della via della seta. Ti farò comunque sapere Col mio prossimo reportage cercherò di ragguagliarti sui rapporti umani, sugli angoli paesaggistici, sulla sua storia e sulla sua economia.
   Ti partecipo intanto che il gruppo di cui faccio parte, quindici persone in tutto, è capitanato dal giovane parroco di San Giuseppe Lavoratore in Oristano. A presto.

Visita nell’Uzbekistan

   Breve premessa
   Per raggiungere Samarcanda bisogna fare il salto del vecchio Continente. Lo Stato che ospita questa singolarissima città si trova nell’Asia Centrale ed è denominato Uzbekistan. Sino al 1924 esisteva il Turkestan, un grande territorio popolato da kazaki, uzbeki, tagiki, kirghisi e turkmeni e confinante a nord e ad ovest con la Russia, a sud con l’Afganistan ed il Pakistan e ad est con la Cina. Dopo tale anno, dalla frammentazione di tale grande area geografica nacquero le repubbliche russe del Kazahistan, dell’Uzbekistan, del Tagikistan, del Kirghisistan e del Turkmenistan. E’ da venti anni che la nazione oggetto della nostra visita ha la sua indipendenza.
   Le ore di viaggio necessarie per giungere a destinazione sono sei con qualche piccolo disguido per quanto riguarda i fusi orari. L’aereo, inseguendo la rotta del 45° parallelo, andrà a sorvolare, in partenza da Roma, il Gran Sasso, il Mare Adriatico, la Croazia, la Bosnia, la Serbia, la Romania, il Mar Nero, il Mar Caspio e tanto deserto. Il nostro itinerario prevede l’arrivo a Tashkent, la capitale, e la visita alle città di Khiva, Bukhara e Samarcanda.
   I fortunati che mi hanno preceduto in questa avventura non hanno fatto che tesserne degli elogi. Ho anche cercato di approfondire i contorni delle loro emozioni ma la mia curiosità non è mai andata oltre i concetti espressi dai migliori aggettivi. Le percezioni visive purtroppo sono quelle che maggiormente illuminano e supportano le nostre capacità sensoriali. Paesaggi, arte e contatti umani formano il menù base messo a nostra disposizione. E la gente, soprattutto la gente fa la differenza. E non importa la quantità numerica. E’ sufficiente fare la conoscenza di piccoli campioni di popolazione per avere un’idea chiara di comportamenti, usanze, religioni, linguaggi e culture.
   Sono certo di ritrovarmi di fronte a qualcosa fuori dal comune, dal concetto di globalità, dai soliti modi di intendere la vita. Riferiscono ancora i reduci da questi viaggi per certi versi misteriosi che il fascino che avvolge cose e persone si rapporta al visitatore in maniera insolita e particolare. L’augurio che faccio a me stesso è che il mio reportage non pecchi troppo di sbavature personali. Cercherò di assumere la posizione insolita dell’osservatore attento e meticoloso ma allo stesso tempo distaccato dall’onda dei sentimenti e dei facili entusiasmi. E’ una promessa che comunque difficilmente riuscirò a mantenere.
   Mentre vado assemblando mentalmente questi concetti da primo incipit non mi avvedo che Tashkent, la capitale uzbeka, si appresta ad accogliere alle 17,30, le venti e trenta ora locale, i numerosi passeggeri partiti da Roma prima di mezzogiorno. I viaggiatori, in vista dell’atterraggio, sembrano animarsi di molto buon umore. Chissà quali emozioni stanno provando ora alla lettura delle prime inquadrature dai finestrini e chissà a quanti momenti piacevoli andranno incontro dopo aver toccato terra. Che sia una settimana bene appagante per tutti. Da parte mia ci sarebbe tutta l’intenzione di poter raccontare qualcosa di insolito, qualcosa che sfugga ai canoni della linearità occidentale, della globalità, della normale teatralità del nostro vivere. Se capiterà l’occasione non mancherò di tratteggiare e circostanziare fatti, luoghi e personaggi. Io sono qui per questo, a caccia di emozioni a sangue freddo.
   Alle 18, corrispondenti alle ventuno ora locale, siamo già fuori dell’aerostazione con i nostri trolley pronti a consegnarci alla guida uzbeka, una giovane di 24 anni. Prima di arrivare in albergo il pullman compie un lungo percorso che ci permette di ammirare, alla luce notturna degli infiniti lampioni stradali, alcuni scorci di questa metropoli che sa tanto di piazze vastissime, lunghi viali alberati e monumenti della storia recente e del passato.
   Per l’indomani è prevista una levataccia alle quattro del mattino. Bisogna prendere l’aereo per Urgench, una città nel nord dell’Uzbekistan non molto distante dal lago d’Aral.
   Breve sosta ad Urgench
   Alle otto in punto, dopo un’ora e mezza di volo, si arriva ad Urgench. Al ritiro dei bagagli, predisposto in un minuscolo spazio dell’aeroporto, quasi un oratorio, le operazioni, in barba al nome che sembra invogliare alla massima urgenza, vanno molto al rallentatore. I colli ingombranti dei passeggeri uzbeki, avvolti con molto nastro adesivo, passano sul nastro trasportatore con una lentezza estrema. Devo attendere parecchio prima che la mia valigia faccia la sua comparsa. Sarà l’ultima ad essere scaricata. Stavo quasi in apprensione per il suo ripescaggio. Il boccaporto d’ingresso viene chiuso dall’esterno facendo calare sulla piattaforma girevole un ripiano di forma rettangolare. Il tutto produce un effetto sgradevole che termina con un colpo secco.
   In uscita alcune guardie controllano il contenuto di un voluminoso pacco di proprietà di una coppia di uzbeki. Ci sono delle vivaci discussioni forse sul peso, sulle dimensioni o su qualcosa sfuggito ai precedenti controlli. Attendo il mio turno con preoccupazione, ma anche con una certa impazienza, poi vengo fatto passare senza troppi indugi.
   Il pullman della nostra agenzia attende all’esterno per dirigersi a Khiva, una cittadina distante da Urgench una quarantina di chilometri. E’ da questa nuova destinazione che inizierà il vero viaggio culturale.
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   Khiva

   Il nostro albergo si trova a qualche centinaio di metri dalla cinta muraria della città fortezza. Si tratta di una di una palazzina ad un piano con tanto di bei cortili, di un piazzale per le macchine e di una solida recinzione. La mia camera disterà dalla reception non più di una decina di metri. All’interno di essa è ben visibile, ad altezza d’uomo, sulla porta d’ingresso, il tracciato da percorrere in caso di pericolo. So bene che nell’eventualità si verifichi tale evenienza non mi resterà che guadagnare l’uscita facendo un piccolo salto dalla finestra. All’esterno un breve sentiero conduce alla sala ristorante lasciandosi tanto sulla sinistra quanto sulla destra delle piccole strisce di terra dove due donne, sedute sui talloni, con vestiti che richiamano i loro costumi tradizionali, fatti di pantaloni, ampie bluse, copricapo e calze appena al disopra delle caviglie, cimano il basilico.
   Nell’attesa che i componenti del gruppo prendano confidenza con la nuova sistemazione e provvedano al deposito dei bagagli ed alla consegna dei passaporti, io e pochi altri decidiamo di andare ad occupare le panchine poste di traverso all’inizio del viale. Alla nostra sinistra stazionano sempre le donne che asportano gli strati apicali dalle piantine dal verde intenso, di fronte a noi un tratto di terra battuta che conduce all’esterno ed alla nostra destra l’ingresso al ristorante di poco anticipato da una ampia stanza dove una piattaforma rialzata a tre fiancate con i rispettivi braccioli accoglie sopra un largo tappeto un tavolo dell’altezza non superiore ai trenta centimetri. A prima vista si ha l’impressione di avere di fronte due suppellettili ammassate in sosta temporanea ma in definitiva si tratta di due mobili sovrapposti messi lì non per caso ma, come spiega la guida, di un apparato pronto a soddisfare il bisogno di ristorazione da parte di chiunque intenda favorire il posto a tavola a patto di accomodarsi senza le scarpe e con gli arti inferiori bene allungati sopra il pianale. La posizione dei commensali a tavola è dunque a novanta gradi. Dubito che qualcuno di noi aderisca a richieste di questo tipo. Penso che per i turisti occidentali, specie per coloro che sono di qualche chilo di troppo, diventi alquanto difficoltoso, sottoporsi ad esercizi ginnici fuori dal comune.
   La città fortezza, oggetto della nostra visita, è rappresentata, sulla cartina messa a nostra disposizione, da un rettangolo con quattro ingressi, ciascuno posto sul punto medio di ogni lato. E’ una città nella città. Il diaframma che divide i due contesti urbani è costituito da un muro di terracotta dell’altezza di una ventina di metri sulla cui linea mediana si intravvedono dei caratteristici cippi funerari terminanti a carena come nelle imbarcazioni mentre nella parte superiore la merlatura ripropone in successione lungo la cinta il disegno delle tombe citate. E’ la cultura islamica che imponeva in passato questo tipo di sepolture. Oltre la alta recinzione, nei pressi della porta Sud, si intravvede un minareto che svetta altissimo verso il cielo.
   Seguendo le direttive della guida, ci portiamo verso la porta ad occidente dove, in un ampio spazio esterno alla città, ci vengono fornite delle indicazioni sui camminamenti, sui mausolei, sui minareti e sulle moschee che incontreremo una volta all’interno. L’intero complesso urbano vanta in tutto una cinquantina di monumenti e circa duecentocinquanta abitazioni private.
   Appena varcato l’uscio che immette nella cittadella, un festoso gruppo di giovanissimi, saranno una trentina in tutto, si fa avanti verso l’uscita mimando l’andatura di un bambino dell’età non superiore agli otto anni che procede con essi con molta compostezza e con la consapevolezza di godere dell’attenzione dei più grandicelli di lui. Ha tra le mani, all’altezza del petto, un biglietto della zecca uzbecca, forse duecento sum. L’abito che indossa rispetta il cerimoniale delle grandi occasioni ma non è di colore bianco. Forse avrà superato qualche esame previsto dalla sua religione alla stregua di quanto succedeva nell’Azione Cattolica nel passaggio da fiamma verde a fiamma gialla. Quel che sorprende è che il nostro personaggio, una volta guadagnata l’uscita, sguscia dalle sue ali di protezione per raggiungere di corsa una bancarella di dolciumi. La guida precisa che con quell’importo potrà comprarsi qualche gomma da masticare. Nulla di più.
   Appena più avanti ci viene incontro un corteo nuziale. La sposa, a nostra richiesta, si sofferma compiaciuta e con molta grazia ci fa degli inchini. Le auguriamo attraverso il nostro cicerone ogni bene. Nel corso del nostro itinerario avremo modo di salutare altri due sfilate di giovani sposi.
   Tra gli invitati non figurano mai gli anziani. Solo giovani. Mi sembra di rivivere certi passaggi di Pratza manna o meglio della Tonara degli anni quaranta. Mi riferiscono che nell’Uzbekistan circa la metà della popolazione ha un’età compresa tra gli zero ed i venti anni. Per ritrovare in Sardegna una distribuzione demografica identica a quella di questo stato asiatico devo tornare indietro nel tempo di quasi due secoli. Ad Ilalà, un rione di Tonara ora scomparso, erano 46 le persone al disotto dei venti anni. Dei 103 censiti nell’anno 1829 la percentuale raggiungeva il 44%. A Belvì, su una popolazione di 710 anime, si contavano, sempre in detto anno, 327 residenti con età compresa tra le fasce indicate. La percentuale si aggirava su una quota appena superiore al 46%. (Per approfondimenti si rimanda ai lavori Memorie tonaresi-Censimenti parrocchiali e Belvì-Donazioni, decime e censimenti nei secoli scorsi)
   All’interno di un vasto cortile, che in passato dava spazio ad una mandrasa con le caratteristiche celle per gli studenti di lezioni coraniche, una banda suona motivi di fattura orientale. Gli orchestrali, in numero di sei ed in abiti occidentali, accompagnano con le note dei loro strumenti fatti di fisarmoniche, tamburi, chitarre dalla forma molto allungata il canto dell’unico rappresentante femminile che, contrariamente ai suoi colleghi, veste abiti decisamente orientali ed indossa un copricapo dal quale sembra involarsi un caratteristico pennacchio di colore bianco.
   Appena distante da loro di qualche metro un esperto alla tastiera modula e governa con perizia la sonorità del complesso. In uscita dal cortile le componenti del nostro gruppo fanno le prime conoscenze con gli articoli d’artigianato, quali stoffe, ceramiche, borsette, federe per cuscini, scialli, colbacchi, copricapo vari ed orecchini. Hanno inizio le trattative che al solito si concludono sempre tardi. Sono questi i momenti che dedico alla pausa. Panchine, sedili e le stesse sedie dei commercianti fanno al mio caso.
   Al ristorante situato all’interno della fortezza gli antipasti sono presentati in piattini che spesso fungono da vassoi di portata. Ci ritrovi creme di formaggio, fette di melanzana, cetrioli, pomodori di piccole dimensioni, foglie di lattuga ridotte quasi in filamenti, patatine, semi tostati di albicocche, pistacchi e perfino caramelle. Il primo ed il secondo sono rappresentati da un consommé servito in una ciotola e da un piatto con della carne in umido a base di pollo, pecora e manzo. Il pane è ottimo. Per frutta vengono presentate delle fette di anguria e melone. Si chiude con il tè, servito con teiera e tante scodelle per quanti sono i commensali. Di zucchero neanche una zolletta. Bisogna sempre richiederlo.
   Di notte si cena in albergo. Il menù presenta i soliti rituali dei piattini, ne conto 24 per sei persone, delle scodelle e delle tazze.
   Fuori fa freddo, come a Tonara agli inizi d’autunno. Occorre avere sempre a portata di mano una maglietta a maniche lunghe o un giubbotto.
   Da Khiva a Bukhara nel deserto
   Prima di lasciare l’albergo avverto gli addetti della reception che in bagno c’è una piccola perdita d’acqua. Si tratta di una goccia continua che nasce a pochi centimetri dal punto luce della volta.
   Alle sette in punto il pullman lascia Khiva. Nella prima periferia  ci vengono incontro ai lati della sede stradale basse case coloniche ricoperte di materiale ondulato molto leggero. Le stalle hanno invece per tetto degli spessi strati di fango misto con paglia che i contadini sono soliti confezionare in loco. Le abitazioni sono costruite con mattoni. E’ questo il materiale più utilizzato in edilizia. Ecco i campi di cotone con le raccoglitrici chine a cogliere i preziosi fiocchi bianchi. La guida preferisce parlarci compiutamente di questa fibra tessile fra qualche giorno nelle vicinanze di Tashkent.
   Per brevi tratti ci fa compagnia alla nostra destra uno dei due grandi fiumi che da sud a nord attraversano l’Uzbekistan. Poi inizia il deserto, anzi la steppa desertica. Ne avremo per tutta la giornata con paesaggi che non offrono nulla di interessante. L’andatura del mezzo è lenta a causa delle pessime condizioni stradali.
   Dall’altra parte della carreggiata, alla nostra sinistra, si succedono con molta frequenza dei poderosi mezzi che provvedono con l’aiuto di pochi operai allo sterramento della direttrice di corsa che affianca la nostra sede viaria. Ad opera ultimata questi assi di scorrimento saranno percorsi in un tempo molto ridotto. In certi punti le macchine operatrici stanno posando anche il bitume. A partire dal ciglio della strada e per una larghezza di una cinquantina di metri sono evidenti ad ogni passo i segni della nostra inciviltà ben evidenziati da bottiglie e buste di plastica. Il curioso carosello di rifiuti si ripete all’infinito. Unica variante a questa meschina distrazione è data dalle piante pioniere che, disposte in triplice fila formano un tratto continuo di molti chilometri. Dopo qualche breve interruzione riprendono la loro corsa verso Bukhara. Servono per impedire che la sabbia invada la sede stradale.
   Per la pausa del pranzo ci ritroviamo in una postazione desertica costituita da un ampio locale per la ristorazione e da diversi disimpegni per gli addetti ai lavori. All’esterno della struttura ricettiva il desco con il tavolo poggiato sul pianale rialzato attende gli avventori di turno mentre all’interno, a ridosso di una parete, fa la sua discreta figura un ramo di cotone con i suoi vaporosi batuffoli in bella evidenza.
   A servirci sono due giovani ragazze uzbeke che con molta disinvoltura sembrano trovarsi a loro agio con i costumi della loro terra che sanno sempre di abiti svasati che ricadono sui pantaloni, di calzini che si stringono non molto al disopra delle caviglie, di calzari arricchiti di lana e di stoffa e di un caratteristico copricapo a più colori ed a più disegni.
   Sulle nostre mense compariranno in breve tempo del pane, del pesce, della carne, della frutta e del tè. Non faccio la conta dei piattini interessati alla frutta secca ed agli antipasti.
   I clienti di questa singolare trattoria che si affaccia sul tracciato di questi 490 chilometri non mancano mai. E’un continuo andirivieni. I prezzi delle bibite sono espressi in moneta uzbeka ed in euro. Appena chiedo di una coca fredda con la espressione: Coca brr  sono subito accontentato.
   Verso l’ora del tramonto, nella nostra corsa verso Bukhara, il sole ci sorprende di spalle. Non possiamo sfruttare la possibilità di consacrare il magico momento nelle nostre pellicole celebrali ed in quelle fotografiche in quanto siamo impegnati in un passo liturgico con il nostro direttore spirituale. Non ho voluto disturbarvi mentre eravate intenti nelle vostre meditazioni. Vi assicuro, riferisce il giovane parroco, che è stato bellissimo. Avrebbe potuto fare a meno di parteciparcelo. Quasi una beffa in terra asiatica! Ci rifaremo comunque alla prossima occasione!
   Bukhara
   Di primo mattino, oggi è il 25 di settembre, la messa viene celebrata in un locale messo disposizione dalla direzione dell’albergo che ci ospita. I paramenti sacri, il piccolo messale, il calice, il vino, le particole ed i pochi altri elementi che servono per onorare la festa domenicale ci sono tutti.
   Ed eccoci alla conquista della città. Al cambio di 2950 sum per ogni euro, la guida è disposta, nelle vesti di cambiavalute, a favorirci modeste quantità di moneta locale. I biglietti di stato che mi offre per venti euro sono quarantanove. Un bel malloppo che rigonfia abbondantemente uno dei tanti taschini del giubbotto. Questi soldi mi serviranno per modiche spese quali bibite, regalie e mance. Preciso che nelle contrattazioni sono bene accetti anche gli euro.
   La prima visita ricade su di un mausoleo fatto costruire per onorare la memoria di un rabdomante che in questo sito, con un colpo di bastone, era riuscito a far zampillare l’acqua. Negli interni alcuni fedeli di religione islamica attingono il liquido dai vari ugelli di un serbatoio, si dissetano e, con ampi gesti delle mani, pregano e cantano sommessamente.
   I turisti, accompagnati dalle loro guide, si accalcano un po’ dovunque. Alle pareti diverse fotografie del passato presentano momenti di vita agricola regolati da cammelli che con la loro forza permettono l’adduzione del prezioso liquido dalle falde acquifere. Sono ben visibili l’albero maestro, fatto girare dall’animale con particolari tiranti che lo legano al collo ed alla coda, ed il pignone i quali, con i loro movimenti rotatori, permettono ai contenitori dell’acqua di essere travasati in una ampia vasca. E’ la noria, il mulino d’acqua di invenzione araba. Oristano, la città dove risiedo, era dotata, sino all’avvento delle pompe idrauliche, di numerosi pozzi-noria. Peccato! Si sarebbe potuto favorire la riabilitazione di almeno uno di essi per scopi didattici e turistici ma le amministrazioni pubbliche ed i privati sono sempre stati sordi a questo richiamo.
   Per norie, gualchiere e mulini è sempre troppo tardi in Sardegna. Uno dei pochi manufatti ancora degni di un certo interesse si trova a Figu nei pressi di Ales. Al servizio curato col titolo Figu: un pugno di case, una guarnizione tedesca ed una noria e visitato nel portale di Tiscali in un solo giorno da più di tremila utenti, non ha fatto seguito neppure un commento!
   In uscita dal mausoleo si continua per altri siti che sanno di mandrase, moschee e minareti. Le fogge di questi ultimi ricalcano per certi versi quelle dei macinapepe. Sono di forma cilindrica ma con tendenza a ridurre il loro diametro mano a mano che si elevano in altezza. Superiormente sono sormontati da un tronco di cono rovesciato o da una semisfera. In entrambi i casi ricordano le toppe delle serrature delle porte interne delle nostre abitazioni. Sono tutti differenti per il diametro di base, per l’altezza, per la pendenza, per i disegni, per gli ornamenti, per le scritte islamiche e per i colori espressi sulle piastrelle di maiolica che avvolgono la struttura. L’azzurro comunque è la tinta prevalente. Alcuni presentano le lesioni del tempo, altri addirittura sono diroccati mentre un buon numero svetta superbamente verso il cielo. Base e altezza di questo minareto sono rispettivamente di 13 e 32 metri. Fu fatto costruire da … nel … Dall’alto della torretta fu fatto precipitare … E così via con i racconti della guida che navigano sempre tra verità storiche e leggenda. Di uno di essi, in precarie condizioni di stabilità, mi diverto a stimarne il suo baricentro la cui verticale, a occhio e croce, ricade ancora, e non so per quanto tempo, all’interno della sua base d’appoggio. Di torri di Pisa qui ce ne sono parecchie.
   Fra poco faremo visita alla città fortezza dove è d’obbligo, per quanti sono dotati di macchine fotografiche, il versamento agli addetti di una piccola somma. E da vedere e fotografare ce n’è veramente tanto. Archeologia, storia, folclore, artigianato sono a nostra disposizione.
   In ogni dove comunque i venditori ambulanti presentano la loro merce fatta di seta e di stoffe pregiate. Siamo nella cittadella-fortezza di Bukhara. In un piccolo sottano, ben visibile da una stradina sulla quale si affacciano i laboratori di diversi cesellatori intenti alla rifinitura dei loro oggetti in legno e i metallo, sono rappresentate delle figure umane lavorate su legno o su gesso che danno una chiara testimonianza delle torture subite dai condannati del passato. Sono scene veramente agghiaccianti, non dissimili da quelle presentate in una prigione di Khiva dove i carcerati, incatenati e costretti a convivere in poco spazio, erano lasciati morire di fame e di stenti. Alle donne, riferisce la guida, era riservato un trattamento speciale che consisteva nel coabitare all’interno di un sacco in compagnia di un gatto.
   Le bancarelle hanno comunque il sopravvento in ogni dove. Scialli, fazzoletti, cuscini, borse, foulard, capi di vestiario, cappelli, monete antiche, strani portavasi di legno che assumono diverse fogge a seconda della pressione delle mani sono sotto gli occhi attenti delle nostre compagne di viaggio che non si lasciano sfuggire l’opportunità di fare le loro contrattazioni. Di una pezza di stoffa lunga diversi metri e trattenuta dalle mani della negoziante e di una nostra componente ho visto strattonate così energiche tanto da una parte che dall’altra che ho temuto che la trattativa non andasse più a buon fine. Solo i prezzi, nella continua rincorsa verso il basso, riuscivano a stemperare l’animosità dei contraenti. Sembrava proprio il gioco del tiro alla fune. In queste occasioni il riposo nelle panchine di fortuna per me è proprio edificante.
   Una volta all’esterno ci ritroviamo in una grande piazza dove un bambino vestito di tutto punto caracolla avanti e indietro con molta disinvoltura. Sembra il padrone della grande area. Richiesto di posare per una foto ricordo, si volta di scatto e, dichiarando la sua indisponibilità, va a guadagnare altri spazi. Sembra proprio un paggetto che fa le bizze, orgoglioso comunque di aver snobbato le nostre attenzioni.
   Al ristorante ci attendono i soliti antipasti, primi, secondi e dessert serviti con il solito carosello di piattini, ciotole e scodelle. Il tè, verde o nero, è sempre presente ma il dolcificante non rientra mai nel protocollo di questa sostanza nervina.
   Di fronte a me un’ampia vetrata mi permette di osservare l’insolito scenario che si sviluppa lungo la strada adiacente al punto di ristoro. E’ il rientro alle proprie abitazioni di gruppi di persone di età matura. Conversano del più e del meno e poi scompaiono dal mio punto di osservazione. Oltre questa corrente di traffico molto contenuta ma continua vi è la sede stradale più importante della città. I mezzi pesanti e gli autobus sfrecciano a velocità sostenuta e nelle strisce pedonali occorre prestare molta attenzione. Alla mia sinistra tra i diversi tavolini occupati da turisti italiani, dei quali riconosco le parlate lombarde e toscane, i camerieri provvedono di gran lena a soddisfare le richieste della clientela.
   Alla mia destra, non più distante di una decina di metri, una donna di età matura, ma molto piccola di statura, staziona in continuazione sulla soglia dell’ingresso principale. Ha in testa un fazzoletto annodato sulla nuca, indossa un vestito svasato con una geometria semplice di colori e di disegni e calza scarpette all’occidentale con calzini neri secondo le abitudini uzbeke. Di suo ha due occhietti neri che fulminano ogni tua mossa appena le passi vicino. E’ la padrona ? chiedo alla guida. No è la donna delle pulizie .Questa la risposta. Dopo aver chiesto alla donna minuta il consenso per una foto ricordo ricevo in cambio un bel sorriso.
   Durante la serata c’è da rendere visita ai bazar coperti della città. Di gente, forse per l’ora insolita, ce n’è pochissima. Avremmo dovuto approfittare delle ore della mattinata. Più avanti si trova un negozio di tappeti, i tappeti di Bukhara. La commessa, in un italiano molto accomodante, inizia a stendere i suoi prodotti sul pavimento facendoli roteare di centottanta gradi con maestria e professionalità. E’ questo l’unico modo per smascherare le false lavorazioni e per far evidenziare al meglio i colori cangianti della seta.
   Fate voi il vostro prezzo. Io parto da mille euro, avverte la negoziante. Il prezzo scende sino a trecento euro. Oltre non si va. E’ una somma notevole per tutti. Io in tasca ho sempre l’importo necessario per pagarmi le spese di viaggio per il ritorno in Italia. Non si sa mai quel che può accadere all’estero. E’ l’equivalente del prezzo del tappeto. Tutti ringraziano e salutano. E’ un articolo che difficilmente saluterà i nostri salotti barbaricini o campidanesi.
   La serata si consuma girando per percorsi illuminati da tante storie da raccontare ma anche appesantiti da tanta stanchezza da smaltire. A cena una sfilata di alta moda ed uno spettacolo folcloristico, rappresentati con toni molto morigerati, chiudono una giornata votata all’insegna della cultura del passato e del presente di un paese dalle tante sorprese.
   Da Bukhara a Samarcanda.
   Si parte per Samarcanda. E’ un lungo viaggio attraverso un percorso di quattrocento chilometri.
   So che avrei dovuto di primo mattino segnalare alla reception che le mensole su cui sono conservati gli accappatoi si tengono su quasi per miracolo. Gli espander sono quasi fuori della loro sede e le viti sono posizionate a mezz’aria. Penso che provvederanno in merito!
   Verso le tredici ci si ferma in una trattoria fuori dell’abitato  di Shakrisabz, la città che aveva dato i natali a Tamerlano nel 1336. A tavola vengono presentati i soliti antipasti accompagnati dalla zuppa e dalla carne. Mica male! Peccato che i servizi igienici siano a dir poco ributtanti. Una milanese in uscita dal bagno riservato alle signore ride. Forse sta ridendo ancora. Ma questo succede non solo in trasferta.
   A pomeriggio avanzato, dopo aver reso visita alla città verde, quasi logu delitziosu e de incantu per le bellezze naturali e per tutto ciò che riguarda i meravigliosi palazzi fatti costruire dal suo illustre cittadino o eretti post mortem in suo onore, si riparte per Samarcanda. Ad una ventina di chilometri dall’arrivo in città il paesaggio cambia d’improvviso per assumere dei connotati desertici, quasi lunari, dove gli animali, in particolare ovini, bovini ed asini brucano non so che cosa. Mi sembra di essere in Medio Oriente e non in Asia centrale. Ho la strana sensazione in certi momenti di inseguire un’altra direzione di viaggio.
   La guida riferisce che tra qualche mese, con le grandi piogge, la natura si presenterà con un manto del tutto diverso.
   Stiamo procedendo nella direzione ovest-est, infatti il mezzo ci presenta il tramonto di spalle alla nostra corsa. Nessuno dei passeggeri è disposto a lasciarsi sfuggire le immagini del sole in caduta libera nel vuoto dietro la collina. Molti guardano ad occhio nudo un astro non più in grado di dardeggiare. In poco tempo la terra accoglie la sfera celeste fungendo prima da tangente, quindi da secante e infine da contraltare alla sua scia ancora luminosa. Le macchine fotografiche testimonieranno dei meravigliosi effetti controluce rilevati dal fondo della corriera. Tutti si sono ripresi una giusta rivincita sul nostro accompagnatore spirituale per lo smacco subito il giorno prima al momento delle meditazioni.
   Il traffico comincia a farsi apprezzare su una strada che adesso si presenta con la doppia carreggiata. Le luci fievoli ma continue che animano le prime abitazioni della periferia anticipano gradatamente l’arrivo a Samarcanda. L’arteria principale, lunga più di un chilometro, attraversa tutta la città.
   Al termine della sua corsa il pullman si ferma su di un poggio quasi di fronte ad una statua di Tamerlano. Tutt’intorno si intravedono, distribuiti su grandi piazze, mausolei, madrase, moschee e minareti. Il nostro albergo gode del privilegio di essere posizionato al centro di un anfiteatro di mistero e di magia.
   Il tutto è rimandato a domani.
   Samarcanda
   E’ una delle città più antiche del mondo.
   Rasa al suolo dalle orde di Gengis Khan fu ricostruita da Tamerlano che la rese splendente di monumenti e d’arte. Imponente il mausoleo dove il grande conquistatore è  sepolto assieme ai suoi stretti parenti.
   Del nostro giro culturale fanno parte le visite alle moschee, alle scuole coraniche ed ai minareti, monumenti questi ben inseriti nel contesto di vaste piazze dove l’elemento acqua, nelle sue espressioni a zampillo su ampie piscine, gioca un ruolo determinante.
   Questa, avverte la guida, è la moschea con la cupola più grande, quest’altra con la cupola più bella. I termini di riferimento, ben s’intende, valgono per tutta l’Asia centrale. E via con le solite indicazioni che riguardano l’anno di costruzione, la durata dei lavori, il colore della ceramica, la decifrazione delle scritte che ogni tanto compaiono tanto all’esterno quanto all’interno, lo studio dei disegni e degli ornamenti e così via. Di queste strutture se ne incontrano per strada così tante che risulta difficile a fine mattinata rendicontarle tutte. E’ come andare in Sardegna per spiagge e per nuraghi. Anche il più attento e scrupoloso osservatore finirebbe con l’arrendersi.
   A mitigare tanta voglia di conoscenza vengono incontro gli spazi dedicati alle contrattazioni. Come ho già riferito altrove, questi sono i momenti in cui riesco a ricaricare le mie energie standomene accucciato sulle panchine. I negozietti alloggiati all’interno di piccole celle, una volta utilizzate dagli studenti delle madrase, magnetizzano, con gli articoli d’artigianato bene esposti all’esterno, l’attenzione delle nostre compagne di viaggio. Veramente non si fanno pregare due volte per soddisfare la loro voglia di trattativa ed in tempi brevissimi scompaiono dalla vista delle porte dai bassi architravi.
   Spesso le contrattazioni avvengono all’aperto e della conclusione dell’affare te ne accorgi quando il sorriso della negoziante s’illumina d’immenso. Comunque il tira e molla è perfino esasperante.
   Le vendite dei libri e dei supporti audio e video che illustrano il vissuto di questa nazione sono affidate ai maschi adulti i quali non mancano mai di formare i loro capannelli all’ingresso delle varie attività museali.
   I bambini difficilmente partecipano al gioco delle trattative. Ne avevo visto qualcuno a Khiva barattare per qualche euro cartoline e stampe varie. In questa città, come anche a Bukhara li vedi impegnati nei loro giochi. Talvolta sfrecciano con le loro biciclette, in lungo e in largo, per le piazze di Samarcanda. Potrebbero diventare tutti degli ottimi pistard in quanto i loro mezzi hanno il pignone fisso, l’accessorio che garantisce la frenata con il semplice movimento rotatorio all’indietro dei pedali. Di fari manco a parlarne. Dall’imbrunire in poi questi imberbi cicloturisti scompaiono dalla circolazione.
   I maschietti li vedi a frotte quasi dappertutto. Non so dove, se qui a Samarcanda oppure a Bukhara, la guida aveva indicato in lontananza il monumento dedicato alla gioventù. Su monumentu a su fedu, direbbero in Pratza manna. Richiesti di posare per qualche foto ricordo, nella maggior parte dei casi acconsentono, ma dopo ti chiedono caramelle o carta moneta. Con molta dignità e compostezza, ma senza insistere. Le femminucce, elegantissime, come d’altronde lo sono i loro partner, richiedono subito le inquadrature fotografiche e, sorridendo, si compiacciono divertite.
   Da riprendere con le cineprese sono gli scolaretti che a gruppi di tre o quattro, con le loro divise inappuntabili e zainetto a tracolla, sciamano chiassosamente per la via che li riporta a casa.
   Di pomeriggio è in programma la visita al mercato principale della città.
   Appena varcato l’ingresso, una scalinata fatta di lunghe rampe e di brevi piani di riposo porta verso l’uscita lasciandosi sulla sinistra lunghe bancate dove i rivenditori espongono i loro articoli con molta cura, capacità e maestria. Ogni ben di Dio è inquadrato secondo composizioni che ricordano la geometria solida. Questo vale per i settori merceologici che riguardano in particolar modo i cereali, i legumi, la frutta secca e le spezie aromatiche. Neanche nei mercati di Marrakech, Istambul, Damasco e di Città del Cairo mi era capitato di osservare tanta meticolosità espositiva. Noci prive del loro guscio, mandorle e pistacchi pronti ad essere estratti dal loro involucro con una leggera pressione delle dita, ceci, semi di albicocca ed altre leccornie sono rappresentati nei vari cesti a cascata  in posizione così  precaria che basterebbe un piccolo urto casuale per provocare l’azzeramento delle piccole opere d’arte.
   Per le modalità di pagamento non c’è alcun problema. Con una calcolatrice sotto mano il conteggio delle tue piccole spese è subito trasformato in euro o in dollari. Ma puoi pagare anche in sum, la moneta locale.
   Dell’ora di tempo a disposizione buona parte viene spesa sul primo banco dove viene fatta incetta di un po’ di tutto. Finalmente il gruppo, formato da tre componenti della Barbagia centrale e da dodici del Campidano, fa qualche passo in avanti verso il settore dolciario.
   Ecco il torrone. Gli espositori ce ne offrono qualche piccola scaglia per l’assaggio. Tra gli ingredienti, come conferma anche Mukadas, la nostra guida, mandorle, pistacchi, ceci, zucchero e bianchi d’uovo. In Uzbekistan il caratteristico dolce, che fa parte del cerimoniale nuziale, viene offerto in dono alla sposa. Il formato in esposizione sa di un grosso ciambellone. Nulla so dei metodi di lavorazione. So comunque come si confeziona a Tonara. Artigianalmente viene usato un lungo mestolo che lavora, a fuoco lento, il miele contenuto all’interno di una ampia caldaia di rame. Industrialmente esistono i frullatori. Una volta mi ero divertito a produrne una piccola quantità con l’azione di una frusta inserita nel mandrino di un trapano semi professionale manovrato a velocità ridotta. L’intervento della frutta secca avviene a cottura ultimata. Dello sforzo che viene profuso dalle operatrici manuali te ne accorgi quando la massa pastosa tende a diventare più compatta. Le operaie tendono ad impugnare sa moriga, ossia la centrifuga a mano, sempre più in basso tanto che ad un certo punto sono in posizione china verso la caldaia. Ricordo che la distanza che intercorre tra il punto in cui è ancorato il mestolo e il punto d’appoggio delle braccia femminili è sempre inferiore della distanza tra il fulcro citato e la pasta in cottura che funge da resistenza. Si ha a che fare con una leva svantaggiosa!
   I tonaresi affermano che il prodotto da loro confezionato è il migliore del mondo. Non li ho mai contraddetti. Pochi, per la verità pochissimi, ritengono che il torrone sia nato nel loro paese. Mi permetto al riguardo di presentare in coda al presente reportage le mie ricerche sulle origini sul torrone.
   In uscita dal mercato, nei pressi di un giardino alberato mi segnalano la presenza di una gazza ladra e dei merli in divisa bianconera. Il volatile che mi incuriosisce di più è il corvide per la sua lunga coda e la sua prestanza in costante assetto predatorio. E’ appena più grande delle gazze sarde. Nel piumaggio queste ultime si presentano con colori prevalentemente nerazzurri.
   Coglie bene l’occasione la nostra guida, durante la visita ad una madrasa, per illustrarci l’importanza avuta da Samarcanda nel commercio della seta durante i secoli passati. Il sussidio didattico più efficace è offerto da una mappa issata su di una parete che raffigura i punti nevralgici facenti capo a questo importante crocevia serico. Con la bacchetta va ad inseguire in un percorso che abbraccia oriente ed occidente città come Istambul, Damasco, Alessandria d’Egitto, Nuova Delhi e Pechino, entità così vicine nella carta geografica ma lontanissime e quasi irraggiungibili con i mezzi di allora. Era la sola voglia insaziabile imposta dal commercio che induceva le carovane a spingersi avanti con i loro carichi preziosi nel deserto per molti mesi all’anno.
   La giornata si conclude con la visita al cimitero dei timuridi, gli stretti parenti di Amir Timur (il Tamerlano). Ce n’è abbastanza per rincorrere un passato ricco di storia, di arte e di mistero.
   Da Samarcanda a Tashkent
   Lasciata Samarcanda il paesaggio si ripresenta con il solito carosello di case coloniche ricoperte di materiale leggero, campi di cotone dal bianco fiabesco, frutteti con le mele e le melagrane ancora appese sui rami, mandrie di bovini al pascolo ma anche greggi di ovini con il loro manto villoso color carbone. I docili asinelli sono sempre presenti un po’ dovunque pronti ad assecondare con umiltà e sacrificio i compiti imposti dalle aziende agricole e di trasporto. Spesso questi pazienti animali allo stato di riposo si ritrovano in prossimità delle stalle  Quando vedi una copertura con lo spesso strato di paglia in quei pressi immancabilmente c’è un asino.
   Gli alberi che ci vengono incontro nella nostra dirittura di marcia sono tutti imbiancati di calce dalla base sino all’altezza di un metro. La probabilità che solo una di queste piante sfugga al trattamento chimico è molto ridotta. Questo vale per le prime tre o quattro file che accompagnano i bordi della sede stradale.
   Dopo un centinaio di chilometri le montagne sembrano prendere il sopravvento sulla pianura. Si tratta comunque di rilievi di fattura tozza e ben sedimentata. Mano a mano che ci avviciniamo ad essi ci accorgiamo di avere di fronte dei dossi collinari a strana forma di pagnotta dell’altezza non superiore ai due o trecento metri. Sulla roccia, che è di tipo schistoso, compaiono delle scritte in carattere cirillico le quali diventano più numerose nei pressi di una grotta di piccola apertura ma di una certa profondità.
   Alla nostra sinistra, alla distanza di circa duecento metri corre il doppio binario di una ferrovia elettrificata. Di cisterne cariche di combustibile, trainate da due potenti locomotori in movimento opposto al nostro senso di marcia, riesco a conteggiarne una cinquantina ma di certo alcune decine del lungo convoglio sono sfuggite alla mia attenzione.
   Intanto anche i contorni orografici accennano a cedere gradatamente il posto ad una immensa pianura. E’ questa una zona molto fertile dai connotati agricoli molto appariscenti. Le colture del cotone, del granturco e del riso si succedono armonicamente alle vaste distese dei frutteti dai pomi color granata mentre il paesaggio, specie nelle aree riservate al pascolo, è ricreato dal lento procedere dei bovini e degli ovini.
   Sarebbe utile che la guida ci fornisse delle indicazioni sull’economia, sulla storia, sui costumi che riguardano la regione che stiamo attraversando, ma il nostro cicerone dorme saporitamente sin dalla partenza.
   A circa 150 chilometri dalla capitale compare alla nostra sinistra un curatissimo centro urbano, segnalato sulla cartina con il nome di Djizzak. Abbiamo il tempo di notare una stazione di pullman con tantissime macchine parcheggiate ordinatamente nei luoghi di sosta e con il solito via vai di persone indaffarate a guadagnare i propri mezzi o le imboccature d’uscita dal piazzale centrale. Superata questa cittadina, forse la più grande fra quelle incontrate in questa lunga tappa, la periferia ci consola con inquadrature di begli edifici e di visioni bucoliche di pastori e contadini intenti al loro lavoro. Completano lo scenario le raccoglitrici di cotone intente a riempire le loro ceste con i vaporosi fiocchi color bianco. La terra è ben asservita dall’acqua del grande fiume che dà il nome a questo dipartimento e da quella dei numerosi laghi che insistono sul territorio.
   Eppure questo strano mondo, presentato dagli intenditori sempre più infagottato, sempre più incerottato e sempre più invivibile, non finisce mai di sorprenderci e di stupirci con i suoi segnali di vita. E’ quel che si avverte in queste plaghe lontanissime dal mondo ma allo stesso tempo al centro di molteplici interessi di carattere economico, culturale e comportamentale.
   Ci siamo immessi da poco in una superstrada molto carente della segnaletica stradale. La cartellonistica è nulla. Lungo i bordi della sede stradale i pali elettrici sono così distanti tra di loro che le campate cadenzano delle linee paraboliche con il punto di minimo che rade l’aria ad un altezza approssimativa di due o tre metri da terra. Il traffico è di poco inferiore a quello espresso dalla nostra maggiore arteria isolana. Il fondo stradale non consente al nostro mezzo di procedere a velocità più  sostenuta. Prendo appunti nel mio taccuino a fatica. Assente ripeto la segnaletica della mezzeria di corsia mentre la mediana dell’intero asse stradale è rappresentata da una struttura in cemento armato con base e altezza rispettivamente di una ventina e di una ottantina di centimetri.
   Alla destra della carreggiata i pazienti asinelli procedono con il loro carico di prodotti della terra stivati accuratamente nei carretto e con i conduttori a cavalcioni sulla loro groppa. Sempre sulla destra vediamo un lungo carosello di carretti fermi sul limite della carreggiata con le spranghe sollevate e con le melagrane in bella esposizione sul piano inclinato. I meloni e le angurie sono disseminati sul terreno a piccoli rettangoli. E’ questa una scena che si ripete ogni due o trecento metri per svariati chilometri.
   Il grande fiume, ora con poca acqua, ci immette nella provincia di Tashkent (torre di pietra). Per arrivare in città ci vorrà ancora un’ora. La guida è ora pronta a centellinare le sue notizie facendoci notare che nello stemma dell’Uzbekistan sono rappresentati il cotone, il grano ed i due grandi fiumi che lo attraversano. Per la raccolta dell’importante fibra vegetale partecipano tutti. In questo periodo le scuole sono chiuse.
   Ecco le cicogne, avverte Muhadas, indicandoci dei nidi costruiti sulle parti più elevate dei tralicci elettrici. Ne intravvedo una decina in tutto ma solamente in uno di essi riesco a riconoscere in maniera esaustiva la presenza dello strano trampoliere in bianco e nero. La cicogna a Tashkent rappresenta il simbolo della città. Diverse sculture di questi volatili, con le ali spiegate verso il cielo, conquistano quasi sempre le parti più elevate dei più importanti edifici pubblici.
   Tashkent
   Ed eccoci di nuovo a Tashkent. Anche qui altra abbuffata di minareti, mandrase, moschee, mausolei, musei e bancarelle di oggettistica locale. Dei quattro minareti situati agli angoli di una vasta area di forma quadrata due sono stati costruiti in quest’ultimo decennio proprio per il completamento architettonico della piazza. In una scuola coranica facente parte dell’intero complesso è possibile vedere una copia originale del Corano redatta nel 650 A.D. (Anno Domini). Per poter accedere bisogna lasciare le scarpe all’esterno.
   Fa da cornice  a questa grande città il verde degli alberi disseminati lungo i viali. Le piante, contrassegnate sulla parte bassa del tronco dal bianco della calce omaggiata abbondantemente dagli addetti ai lavori, si inseguono con ordine per lunghissimi tratti dei quartieri. Strano, ma anche i pali elettrici sono favoriti di queste pennellate agli stinchi.
   Di pomeriggio si continua per altri percorsi che finiscono col presentare poche varianti al concelebrato menù. La fatica comincia a farsi sentire. L’occasione per riposarmi si presenta alla vista di alcune panche disposte all’ombra di alcuni ippocastani secolari. Approfittano della sosta anche alcuni componenti del gruppo di cui faccio parte. Di fronte a noi una moschea ed un minareto. Un signore vestito di bianco da capo a piedi, di età indefinita, di corporatura molto robusta e di altezza intorno al metro e mezzo, si avvicina verso di noi, occupa un posto libero e con molta disinvoltura cerca di porci delle domande che ai più sono del tutto incomprensibili. Tiene ad informarci che è il muezzin e, tanto per suffragare la sua fede religiosa, intona a voce bassa una preghiera canonica. Di altre notizie sul suo operato ci rende edotti una nostra connazionale la quale tiene a precisare di non conoscere alcuna lingua ma di essere in grado di capire anche l’uzbeko. E’ questione di intuito, dichiara la nostra brava rappresentante.
   Della figura di Tamerlano, il grande conquistatore che era riuscito ad annullare le idee espansionistiche del sultano, il sovrano dell’Impero ottomano, rimangono nelle più grandi piazze di questa città non solo i segni del suo operato ma anche quelli riservati in ogni tempo alla sua memoria. E sono passati più di settecento anni!
   All’imbrunire c’è tempo per un giro con la metropolitana. E’ sufficiente percorrere un breve tratto con i locomotori per accorgersi della imponente struttura che governa mezzi ed impianti della linea sotterranea. Nella pausa tra due stazioni ci si ritrova sulla piattaforma che abilita agli ingressi dei convogli nei due sensi di corsa. Nell’attesa c’è modo di ammirare sulle volte delle tre navate composizioni di arte islamica di rara fattura. E’ questione di pochi attimi in quanto siamo letteralmente risucchiati e schiumati all’interno dalle carrozze in partenza. Al prezioso carico dei passeggeri uzbeki si aggiunge quello dei sardi. Ci sentiamo tutti come sardine con le mani che controllano nelle tasche passaporto, permesso di soggiorno e portafogli, le cose più importanti quando si è all’estero. Fra tanta gente sconosciuta si avverte anche un senso di solitudine e di prostrazione.
   Di notte il redde rationem viene dato in un ristorante di periferia dove ad ognuno dei partecipanti viene rilasciato un attestato di prova superata.
   E sulle note della buona musica eseguita da un solo orchestrale che asseconda e promuove i passi di danza di alcune ballerine si chiude questa nostra piacevole parentesi asiatica.
   All’aeroporto un boeing comodo e capiente ci riporta a Roma dopo aver infilato il corridoio aereo del deserto, del Mar Caspio, del Mar Nero, delle città di Bucarest, Belgrado, Saraievo, del Mar Adriatico e del Gran Sasso.
   Sotto di me non ho visto null’altro che nuvole ma le letture sui computer di bordo mi hanno facilitato la comprensione della rotta istante per istante.
   La tratta Roma - Cagliari rappresenta l’ultima tappa.
   Per smaltire la fatica di questa settimana occorrerà un po’ di tempo ma per dimenticare i passaggi ed i paesaggi da favola incontrati ad ogni passo in Uzbekistan sarà molto, ma molto difficile.