Giovanni Mura
Sognando Cima Fais
I segreti di quota 1496
C’è sempre un
mare che non hai solcato, c’è sempre una montagna che non hai scalato, c’è
sempre un obiettivo che non hai raggiunto.
Tra i desideri che ancora non ho appagato occupa un
posto prioritario l’ascesa alla vetta più elevata delle giogaie tonaresi.
La cima in questione, con 1496 metri di
altitudine, è denominata Sa conca ‘e Giuanni Fais.
Cercare di raggiungere tale cresta puntando
direttamente dalla base del monte, data la sua proibitiva pendenza con tangenti
che in certi punti tendono all’infinito, è praticamente impossibile.
I percorsi che consentono di aggirare
l’ostacolo insistono sulle direzioni a tenaglia che si sviluppano a partire da Arasulè, il rione più a nord
dell’abitato, e da Murturasà, il sito
alberato a monte della fontana di Sa
Talea sulla provinciale Nuoro-Cagliari.
La prima via consente di giungere a
destinazione dopo aver superato Punta
Muggianeddu, di qualche decina di metri sotto quota 1500, ed essersi
lasciati accompagnare per un breve tratto dal crinale di mezzogiorno.
La seconda via comporta un certo dispendio di energie da
distribuire lungo l’erta di un impervio sentiero.
I territori che anticipano la nostra meta
sono qualificati con i toponimi di Osolì
e Su sessene.
Ma perché tanta ostinazione a volermi
portare così in alto ?
Una delle ragioni principali consiste nel
fatto che detto avamposto naturale è deputato ad accogliere da oriente i primi
fasci di luce. E’ da questo punto che il sole fa capolino sulla grande vallata su cui si
adagiano le varie frazioni del mio paese.
Arasulè,
rione posizionato ad un’altezza di circa 1000 metri, pur godendo del privilegio
di essere esposto a mezzogiorno, non ha la possibilità di vedere, fatta
eccezione per le abitazioni rivolte ad oriente, i primi raggi solari. Quando il sole compare
sull’enorme palcoscenico, formato catino-bomboniera, per molti residenti, il
sole è già alto sull’orizzonte.
Ad essere penalizzata dall’infelice posizione verso est era anche la mia
casetta di Toneri, ubicata a circa
900 metri di altitudine, nella quale ho vissuto in gioventù.
Palas a sole è la espressione utilizzata nel mio
dialetto per definire un’abitazione con la facciata principale non espo-sta a
meridione.
Tanto per ricorrere al gergo calcistico
posso affermare che, mentre a quelli di Arasulè
era permesso di assistere, allo spettacolo antistante standosene comodamente
appollaiati nella grande curva nord, fatta eccezione per gli sviluppi di calcio d’angolo alla loro sinistra, a
me, che occupavo una posizione più avanzata ma notevolmente più in basso,, era
impedito di osservare ciò che succedeva di spalle. Per giunta la mia visuale
poteva spaziare solamente sulle azioni attorno alla bandierina.
L’unica nota positiva per me era data
dall’incomparabile scenario offerto dalla parete rocciosa che mi si parava di
fronte ad una distanza in linea d’aria sul piano orizzontale di circa 700
metri.
Era un paesaggio muto ma in continuo cambiamento,
con delle letture molto interessanti sia per i dettagli di contenuto che per
quelli di contorno.
Nella parte inferiore la cornice mi offriva
il tratto di strada provinciale che collega le fonti di Pitzirimasa e Sa talea,
sulla sinistra i territori di Prantannueu
ed Osolì, sulla destra i castagneti
di Murturasà ed in alto, ad alzo
nettamente superiore ai trentacinque gradi, il crinale della montagna ed una
buona fetta di cielo.
All’interno della composizione, a partire dal basso verso l’alto, si
succedevano il fitto e im-praticabile manto dei lecceti, qualche cupolifera e
la nuda terra.
A blindare altre possibilità di veduta tanto a sinistra quanto a destra
della impo-nente mon-tagna davano man forte la facciata sud della vicina casa
parroc-chiale e quella col fronte nord di una costruzione civile.
Il mio sguardo, comunque, andava spesso a
monitorare il crinale dal quale il sole iniziava il suo percorso quotidiano. Ma non sempre le immagini
mi garantivano gli stessi effetti ottici concessi dalle belle giornate di luce.
Era
questa un’altra valida ragione del mio interesse per questo valico dalle tinte
continuamente variabili. Detto passaggio, posto sulla demarcazione tra cielo e
terra, era delegato a rappresentare con molto anticipo i diversi eventi
meteorologici. Banchi di nebbia, nuvoloni carichi di pioggia, intensi
piovaschi, precipitazioni nevose prendevano le mosse da lassù per poi andare a
distribuirsi secondo varie intensità e direzioni sulla grande vallata. Nel
gioco delle correnti ascensionali e discensionali delle sacche nebulose a mala
pena riuscivi a riconoscere attraverso i rari corridoi di visibilità i lineamenti
di qualche fazzoletto del territorio aggrappato sulla parete. Tutto sembrava in
sospensione specie quando la nebbia iniziava le sue danze o quando i fiocchi di
neve cadevano al rallentatore sullo spazio circostante.
Ma nella rappresentazione di questi fenomeni
atmosferici Qualcuno da dietro il crinale doveva pur bilanciare a dovere i vari
cambiamenti di stato tra masse liquide e gassose e tra solide e liquide. Almeno
una tavolozza per le diverse tonalità cromatiche ed un quadro di regia per le
operazioni di comando non potevano non sussistere di lassù. Ed il supremo
Regista sembrava volesse servirsi di quel breve tratto di sinusoide descritto dalla
nostra cima per incanalare e convogliare a più riprese lungo il prossimo
vallone i suoi mirabili servizi utilizzando pochi elementi chimici, calore e pressione.
E, attraverso quel ridotto avallamento, dovevano passare tutte le correnti di freddo e di gelo con i punti di
liquefazione, di fusione, di evaporazione e di solidificazione costantemente
sotto controllo.
Quando
l’alta pressione prendeva il sopravvento su quella bassa, e ciò succedeva col
passaggio dalla brutta alla buona stagione, gradatamente sparivano le nebbie,
le nuvole e gli accumuli di neve depositati nelle forre più impervie ed il paesaggio,
finalmente, si ripresentava con i suoi colori naturali.
Ossidi, anidridi, ossidrili e varie composizioni
acide perdevano di consistenza e, dissociandosi, andavano a disperdersi
nell’atmosfera, consentendo così all’aria di fungere da lente di ingrandimento su
un territorio finalmente disponibile anche per gli osservatori più
disinteressati.
Quel versante tappezzato di varie tonalità
cromatiche mi suggeriva da bambino i vari pastelli da utilizzare nei miei album
scolastici: color giallo per il sole e i suoi raggi, azzurro per le nuvole di
passaggio, marrone per le zone aride e brulle, verde per il manto vegetativo
delle latifoglie e bianco per l’importante via di comunicazione che tutti noi
chiamavano in gergo stradone. Non mi dimenticavo
di inserire nella parte sinistra in alto la figura a lati disuguali della
recinzione del deposito dell’acqua come non mancavo di animare il paesaggio con
qualche capretta e la solita casetta. Sembrava che senza la presenza degli animali e della
costruzione con le finestre spalancate il disegno perdesse i requisiti della
sufficienza.
Talvolta d’inverno, la montagna, libera dai
contrasti plumbei delle basse nuvole, cenerei dei banchi di nebbia in
sospensione e bianco accecanti degli strati nevosi, ti appariva in tutta la sua
crudezza con i rami delle cupolifere tesi a risparmiarsi per la prossima
stagione.
Era l’insolito scenario offerto dagli intensi freddi
di maestrale e di tramontana. In tali occasioni mi assaliva un senso di colpa
come se fossi stato io a determinare tale stato di cose. Poi a mezza mattinata
il sole si congedava da dietro il tetto della mia abitazione lasciandomi in
preda ad un comprensibile stato di disagio, quasi di frustrazione. Era una
mazzata pesante che non andava ad interessare minimamente i residenti del
vicinato ubicato in alto i quali potevano beneficiare della luce solare a tutto
campo per l’intera giornata sino al tramonto.
Ripescando i lati positivi offerti dalla mia
fetta di montagna posso affermare ancora
oggi che mi consolava la lettura di quella demarcazione tratteggiata tra terra
e cielo, tra reale ed irreale, tra finito ed infinito, tra spettacolo e magia e
tra magia e mistero.
Il quadro mutevole fatto di nuvole (nues), nebbie (bueras), nevi (nies),
piogge (abbas), venti (entos), creste montagnose (serras), piante stilizzate verso l’alto
(matas a pentini in susu) e tracce di
tratturi difficili da addomesticare (camminos
malos mai omaos) era pronto ad ammaliare chiunque, grazie al continuo gioco
di luci ed ombre, come nelle rappresentazioni pittoriche del Chiaravaggio. E
quando i contorni, per le varie cause legate al clima, perdevano lo smalto
della nitidezza e della buona presentabilità, era sufficiente appellarmi alla
fantasia e il tutto si ricomponeva alla perfezione come in un mosaico.
Comunque riuscire a portarmi un domani in
alto sulla vetta, ad un punto che dalla mia cameretta di Toneri distava e dista tuttora in linea d’aria non più di mille metri,
costituirà per me una delle più grandi aspirazioni. (1)
Poter verificare inoltre che il sole, oltre
che sull’Anatolia, come
testimoniavano gli antichi abitatori del pianeta, ha una sua culla particolare
anche dietro Sa Conca ‘e Giuanni Fais
sarà molto stimolante ed interessante.
Che poi Cima Fais sia una res nullius (terra di nessuno) oppure
una res totius (terra di tutti) questo
ha poca importanza. Certamente sarà stata una res unius domini (terra
di uno solo) se riferita al singolare proprietario di una volta. Se poi si
pensa al Padrone indiscusso di sempre possiamo affermare che la vetta è una res unius Domini. Su queste note mi
auguro concordino anche gli abitanti di Arasulè.
Nota
(1) Considerando con molta approssimazione che la distanza in orizzontale
dal mio punto di osservazione verso il cuore della montagna, dove si incontra
la verticale abbassata dalla vetta, è di circa 800 metri e che l’altezza citata
è di 600 metri, ne consegue che lo spazio che mi separa da Cima Fais è di un
chilometro e che l’apertura angolare è di trentasei gradi, cinquantadue primi e
dodici secondi. I risultati espressi da un teodolite, strumento topografico che
non sarei oltretutto in grado di maneggiare, sarebbero certamente diversi.
Pazienza!