lunedì 23 gennaio 2012

TONARA Sognando Cima Fais. I segreti di quota 1496



Giovanni Mura






Sognando Cima Fais


I segreti di quota 1496



   C’è sempre un mare che non hai solcato, c’è sempre una montagna che non hai scalato, c’è sempre un obiettivo che non hai raggiunto.
   Tra i desideri che ancora non ho appagato occupa un posto prioritario l’ascesa alla vetta più elevata delle giogaie tonaresi.
   La cima in questione, con 1496 metri di altitudine, è denominata Sa conca ‘e Giuanni Fais.
   Cercare di raggiungere tale cresta puntando direttamente dalla base del monte, data la sua proibitiva pendenza con tangenti che in certi punti tendono all’infinito, è praticamente impossibile.
   I percorsi che consentono di aggirare l’ostacolo insistono sulle direzioni a tenaglia che si sviluppano a partire da Arasulè, il rione più a nord dell’abitato, e da Murturasà, il sito alberato a monte della fontana di Sa Talea sulla provinciale Nuoro-Cagliari.
   La prima via consente di giungere a destinazione dopo aver superato Punta Muggianeddu, di qualche decina di metri sotto quota 1500, ed essersi lasciati accompagnare per un breve tratto dal crinale di mezzogiorno.
   La  seconda  via comporta un certo dispendio di energie da distribuire lungo l’erta di un impervio sentiero.
    I territori che anticipano la nostra meta sono qualificati con i toponimi di Osolì e Su sessene.
    Ma perché tanta ostinazione a volermi portare così in alto ?
    Una delle ragioni principali consiste nel fatto che detto avamposto naturale è deputato ad accogliere da oriente i primi fasci di luce. E’ da questo punto che il sole fa capolino sulla grande vallata su cui si adagiano le varie frazioni del mio paese.
   Arasulè, rione posizionato ad un’altezza di circa 1000 metri, pur godendo del privilegio di essere esposto a mezzogiorno, non ha la possibilità di vedere, fatta eccezione per le abitazioni rivolte ad oriente, i primi raggi solari. Quando il sole compare sull’enorme palcoscenico, formato catino-bomboniera, per molti residenti, il sole è già alto sull’orizzonte.
   Ad essere penalizzata dall’infelice posizione verso est era anche la mia casetta di Toneri, ubicata a circa 900 metri di altitudine, nella quale ho vissuto in gioventù.
Palas a sole è la espressione utilizzata nel mio dialetto per definire un’abitazione con la facciata principale non espo-sta a meridione.
   Tanto per ricorrere al gergo calcistico posso affermare che, mentre a quelli di Arasulè era permesso di assistere, allo spettacolo antistante standosene comodamente appollaiati nella grande curva nord, fatta eccezione per gli sviluppi di calcio d’angolo alla loro sinistra, a me, che occupavo una posizione più avanzata ma notevolmente più in basso,, era impedito di osservare ciò che succedeva di spalle. Per giunta la mia visuale poteva spaziare solamente sulle azioni attorno alla bandierina.
   L’unica nota positiva per me era data dall’incomparabile scenario offerto dalla parete rocciosa che mi si parava di fronte ad una distanza in linea d’aria sul piano orizzontale di circa 700 metri.
   Era un paesaggio muto ma in continuo cambiamento, con delle letture molto interessanti sia per i dettagli di contenuto che per quelli di contorno.
   Nella parte inferiore la cornice mi offriva il tratto di strada provinciale che collega le fonti di Pitzirimasa e Sa talea, sulla sinistra i territori di Prantannueu ed Osolì, sulla destra i castagneti di Murturasà ed in alto, ad alzo nettamente superiore ai trentacinque gradi, il crinale della montagna ed una buona fetta di cielo.
   All’interno della composizione, a partire dal basso verso l’alto, si succedevano il fitto e im-praticabile manto dei lecceti, qualche cupolifera e la nuda terra.

   Nessuna casetta all’interno del quadro natu-ralistico. L’unico segno della mano dell’uomo era dato dalla recinzione di un deposito dell’acqua con definizione geometrica a più lati disuguali.
   A causa della conformazione allungata del piazzale antistante la mia abitazione, mi era impedito di vedere altre cose interessanti del paesaggio quali l’abitato di Teliseri, frazione ubicata più in basso, e sullo sfondo, appena al disotto della arteria provinciale, la linea del corso d’acqua che una volta andava ad alimentare diversi mulini. Di dette macchine idrauliche, ospitate all’interno di modeste strutture, fa menzione Giuseppe Luigi De Villa in La Barbagia e i barbaracini (sic) in Sardegna nel paragrafo dedicato a Tonara. A pagina 95 di detto lavoro, edito dalla Tipografia  dell’Avvenire di Sardegna nel 1889 e riproposto all’attenzione dei lettori nella ristampa anastatica di Arnoldo Forni Editore del 1984, si precisa: Al disotto della strada in un punto molto vicino al paese vi ha una cascata naturale dell’acqua d’una copiosa sorgente “la fontana di monsignore” di bellissimo effetto, un’acqua che fa girare le macine di vari mulini, entro piccole casette piantate sulle roccie come eremitaggi.
   A blindare altre possibilità di veduta tanto a sinistra quanto a destra della impo-nente mon-tagna davano man forte la facciata sud della vicina casa parroc-chiale e quella col fronte nord di una costruzione civile.
   Il mio sguardo, comunque, andava spesso a monitorare il crinale dal quale il sole iniziava il suo percorso quotidiano. Ma non sempre le immagini mi garantivano gli stessi effetti ottici concessi dalle belle giornate di luce. Era questa un’altra valida ragione del mio interesse per questo valico dalle tinte continuamente variabili. Detto passaggio, posto sulla demarcazione tra cielo e terra, era delegato a rappresentare con molto anticipo i diversi eventi meteorologici. Banchi di nebbia, nuvoloni carichi di pioggia, intensi piovaschi, precipitazioni nevose prendevano le mosse da lassù per poi andare a distribuirsi secondo varie intensità e direzioni sulla grande vallata. Nel gioco delle correnti ascensionali e discensionali delle sacche nebulose a mala pena riuscivi a riconoscere attraverso i rari corridoi di visibilità i lineamenti di qualche fazzoletto del territorio aggrappato sulla parete. Tutto sembrava in sospensione specie quando la nebbia iniziava le sue danze o quando i fiocchi di neve cadevano al rallentatore sullo spazio circostante.
   Ma nella rappresentazione di questi fenomeni atmosferici Qualcuno da dietro il crinale doveva pur bilanciare a dovere i vari cambiamenti di stato tra masse liquide e gassose e tra solide e liquide. Almeno una tavolozza per le diverse tonalità cromatiche ed un quadro di regia per le operazioni di comando non potevano non sussistere di lassù. Ed il supremo Regista sembrava volesse servirsi di quel breve tratto di sinusoide descritto dalla nostra cima per incanalare e convogliare a più riprese lungo il prossimo vallone i suoi mirabili servizi utilizzando pochi elementi chimici, calore e pressione. E, attraverso quel ridotto avallamento, dovevano passare tutte le  correnti di freddo e di gelo con i punti di liquefazione, di fusione, di evaporazione e di solidificazione costantemente sotto controllo.
   Quando l’alta pressione prendeva il sopravvento su quella bassa, e ciò succedeva col passaggio dalla brutta alla buona stagione, gradatamente sparivano le nebbie, le nuvole e gli accumuli di neve depositati nelle forre più impervie ed il paesaggio, finalmente, si ripresentava con i suoi colori naturali.
   Ossidi, anidridi, ossidrili e varie composizioni acide perdevano di consistenza e, dissociandosi, andavano a disperdersi nell’atmosfera, consentendo così all’aria di fungere da lente di ingrandimento su un territorio finalmente disponibile anche per gli osservatori più disinteressati.
   Quel versante tappezzato di varie tonalità cromatiche mi suggeriva da bambino i vari pastelli da utilizzare nei miei album scolastici: color giallo per il sole e i suoi raggi, azzurro per le nuvole di passaggio, marrone per le zone aride e brulle, verde per il manto vegetativo delle latifoglie e bianco per l’importante via di comunicazione che tutti noi chiamavano in gergo stradone. Non mi dimenticavo di inserire nella parte sinistra in alto la figura a lati disuguali della recinzione del deposito dell’acqua come non mancavo di animare il paesaggio con qualche capretta e la solita casetta. Sembrava che senza la presenza degli animali e della costruzione con le finestre spalancate il disegno perdesse i requisiti della sufficienza.
   Talvolta d’inverno, la montagna, libera dai contrasti plumbei delle basse nuvole, cenerei dei banchi di nebbia in sospensione e bianco accecanti degli strati nevosi, ti appariva in tutta la sua crudezza con i rami delle cupolifere tesi a risparmiarsi per la prossima stagione.
   Era l’insolito scenario offerto dagli intensi freddi di maestrale e di tramontana. In tali occasioni mi assaliva un senso di colpa come se fossi stato io a determinare tale stato di cose. Poi a mezza mattinata il sole si congedava da dietro il tetto della mia abitazione lasciandomi in preda ad un comprensibile stato di disagio, quasi di frustrazione. Era una mazzata pesante che non andava ad interessare minimamente i residenti del vicinato ubicato in alto i quali potevano beneficiare della luce solare a tutto campo per l’intera giornata sino al tramonto.
   Ripescando i lati positivi offerti dalla mia fetta di montagna  posso affermare ancora oggi che mi consolava la lettura di quella demarcazione tratteggiata tra terra e cielo, tra reale ed irreale, tra finito ed infinito, tra spettacolo e magia e tra magia e mistero.
   Il quadro mutevole fatto di nuvole (nues), nebbie (bueras), nevi (nies), piogge (abbas), venti (entos), creste montagnose (serras), piante stilizzate verso l’alto (matas a pentini in susu) e tracce di tratturi difficili da addomesticare (camminos malos mai omaos) era pronto ad ammaliare chiunque, grazie al continuo gioco di luci ed ombre, come nelle rappresentazioni pittoriche del Chiaravaggio. E quando i contorni, per le varie cause legate al clima, perdevano lo smalto della nitidezza e della buona presentabilità, era sufficiente appellarmi alla fantasia e il tutto si ricomponeva alla perfezione come in un mosaico.
   Comunque riuscire a portarmi un domani in alto sulla vetta, ad un punto che dalla mia cameretta di Toneri distava e dista tuttora in linea d’aria non più di mille metri, costituirà per me una delle più grandi aspirazioni. (1)
   Poter verificare inoltre che il sole, oltre che sull’Anatolia, come testimoniavano gli antichi abitatori del pianeta, ha una sua culla particolare anche dietro Sa Conca ‘e Giuanni Fais sarà molto stimolante ed interessante.
   Che poi Cima Fais sia una res nullius (terra di nessuno) oppure una res totius (terra di tutti) questo ha poca importanza. Certamente sarà stata una res unius domini (terra di uno solo) se riferita al singolare proprietario di una volta. Se poi si pensa al Padrone indiscusso di sempre possiamo affermare che la vetta è una res unius Domini. Su queste note mi auguro concordino anche gli abitanti di Arasulè.

   Nota (1) Considerando con molta approssimazione che la distanza in orizzontale dal mio punto di osservazione verso il cuore della montagna, dove si incontra la verticale abbassata dalla vetta, è di circa 800 metri e che l’altezza citata è di 600 metri, ne consegue che lo spazio che mi separa da Cima Fais è di un chilometro e che l’apertura angolare è di trentasei gradi, cinquantadue primi e dodici secondi. I risultati espressi da un teodolite, strumento topografico che non sarei oltretutto in grado di maneggiare, sarebbero certamente diversi. Pazienza!