sabato 8 novembre 2025

18-La Russia. Arregodos de sa guerra e de Russia e de sa Vida - Benigno Casula


 

Il 7 luglio del 1942. Ricordo la data come fosse ieri. Quel giorno, partimmo per il fronte russo. Il mio reparto era l’Autosezione Antincendi, destinata a dare supporto all’Ottava Armata Italiana.


Salimmo sulla tradotta militare. Il viaggio fu un inferno di quindici giorni. Passammo per Verona, Bolzano, Rovereto, e poi il Brennero. Attraversammo l’Austria, la Germania, e finalmente arrivammo in Polonia. Eravamo ammassati nei vagoni come animali. Era piena estate e si moriva dal caldo.

Arrivammo a Leopoli, ai confini. Breve sosta, e poi via: entrare nel territorio sovietico significava attraversare distese immense. La Bielorussia, Minsk, Kiev… Le città che vedevamo erano già in buona parte distrutte dai bombardamenti. La Russia ci impressionava per un unico motivo: l'estensione. Era sterminata. Ma il fronte vero era ancora lontano, molto lontano.

Ricordo una fermata. Eravamo assetati, disperatamente. Presi la mia borraccia e cercai acqua. Vidi una bella ragazza russa, biondina, a distanza. Con i gesti, le chiesi dove potevo trovare una fontana. Mi guardò, sorrise, e si mise a ridere, dicendomi una cosa che suonava come ‘ni pagni mai’ (non ho capito).

Mi allontanai, e per fortuna arrivai a una piazza con un pozzo. C’era una pompa a manovella per prendere l’acqua. Vedo un signore, gli chiedo, e lui mi dice: ‘pazhalusta’ (prego). Non capii la parola, ma capii il gesto: mi invitava a prendere l'acqua. Feci in fretta a riempirmi la borraccia. Lo ringraziai in italiano e tornai alla tradotta.

Dopo poco, sentimmo la trombetta del capotreno: si ripartiva.

Arrivammo a Nieperpetrovsk, una bella cittadina sul Dnieper. Lì ci consegnarono i mezzi e le macchine per il nostro servizio: dovevamo fare l’antincendio in protezione dei magazzini 

dell’armata italiana, situati tra il Donets e il Don.

Solo mesi dopo capimmo la beffa. Ci avevano fatto credere che i russi si fossero ritirati a gennaio del 1942, mentre le truppe arrivavano dall'Italia. Era una menzogna, un tranello organizzato per intrappolarci. L’imboscata fu terribile: parte della divisione Ravenna fu massacrata, e le perdite furono enormi. I militari russi, per prenderci in giro, diedero a quell’operazione il nome di "Divisione Cicali", ovvero "Divisione Fuggiaschi"."

Benigno, il tuo racconto è una vivida e preziosa pagina di storia.

Se lo desideri, potrei cercare informazioni sulle condizioni di vita dei soldati italiani impegnati nei servizi logistici (come l'Antincendi) sul Fronte Orientale in quel periodo.



17-La guerra. Arregodos de sa guerra e de Russia e de sa Vida - Benigno Casula


 

 


Ricordo ancora il giorno in cui partii, ai primi del 1941. Avevo ricevuto la cartolina di precetto, come tutti i ragazzi della mia classe, quella del '21. Partii per Bologna, dove mi assegnarono al Sesto Reggimento del Genio. La divisa che mi diedero era grande e grigio-verde, ma dovevo indossare solo quella.

Dopo pochi giorni, mi trasferirono a San Giorgio di Piano, dove mi unii alla seconda compagnia artieri. Lì faceva un freddo umido terribile, e dormivamo tutti in un capannone senza riscaldamento. Dopo due mesi, mi spostarono a Cento, in provincia di Ferrara. Qui, come genio artiere, iniziammo ad addestrarci per la guerra. Imparammo a maneggiare mine e a costruire reticolati di protezione. Andavamo al fiume Reno e costruivamo ponti provvisori, fatti con barconi ancorati l'uno all'altro, sui quali montavamo impalcature per far passare le macchine. Eravamo diventati una squadra veloce e in poco tempo il ponte era pronto.

Dopo quattro mesi, tornai a Bologna per un corso antincendio alla caserma dei vigili del fuoco. Alla fine del corso, mi diedero una licenza di 10 giorni. Non mi sembrava vero, potevo tornare a Tonara. Finita la licenza, andai a Pavia, al Terzo Reggimento del Genio, per un'istruzione prima di partire per il fronte russo. Era la fine del 1941, la guerra era già iniziata. Per noi soldati, era come una gita; ci avevano convinto che i nemici dell'asse Roma-Berlino sarebbero

stati sconfitti in fretta e che saremmo tornati a casa vittoriosi.

 


16-Il Servizio pre Militare Arregodos de sa guerra e de Russia e de sa Vida - Benigno Casula

 




Ricordo bene quel periodo, gli anni del servizio premilitare. Ogni sabato dovevamo presentarci per le esercitazioni. Erano gli anni del fascismo, e non era concesso mancare; le pene per chi si assentava erano severe, gravissime. I nostri istruttori erano tutti fascisti: il capo manipolo, un maresciallo, e il caposquadra, una milite scelto.

A Tonara, in quegli anni, c'erano anche parecchi esiliati. Uomini considerati "sovversivi", pericolosi nei loro paesi, che non potevano lasciare il paese e di notte avevano il divieto di uscire di casa. Erano menti critiche, e per questo venivano allontanati e confinati.

Mi viene in mente il 1934, quando Tonara fu invasa dai soldati della fanteria e dell'artiglieria. Facevano esercitazioni nei campi di zia Clara, appena sopra il paese. Nello stesso periodo, ricordo che arrivò anche il principe Umberto di Savoia. In località Su Pranu, i soldati organizzarono una sfilata imponente e una festa folcloristica per accoglierlo. Avevo solo 13 anni, ma ricordo ogni dettaglio di quel giorno del 1934, quando il Principe Umberto venne a Tonara. Mi sembra ancora di vederlo lì, sul balcone della casa di Antonio Carta, proprio al centro del paese. La facciata dell'edificio a due piani era imponente e, a sinistra del balcone, spiccava in modo chiaro la parola "VINCERE". Il balcone era affollato di gente, ma la figura del Principe si distingueva su tutte, circondato da tutti coloro che lo accompagnavano. 

 


Quando arrivò il momento della leva vera e propria, andavamo ad Aritzo. La mia classe, quella del 1921, era numerosa, eravamo una quarantina di uomini. Pochi furono riformati, quasi tutti fummo dichiarati idonei. Poi, nel 1940, l'anno della guerra con la Francia, fummo tutti fatti soldati. Il destino era segnato, la partenza sarebbe avvenuta a breve.

Prima di muovere i primi passi verso la guerra, ogni tanto ci riunivamo con gli organetti per cantare i "mutos" d'addio. Erano canti malinconici, pieni di speranza e paura. Ricordo ancora le parole, che risuonano nella mia mente come allora:

La partenza è vicina, alla guerra dobbiamo andare, prega tu, cara Nina, se vuoi vedere sani eroi tornare a casa.

 

15La Transumanza del '38 Arregodos de sa guerra e de Russia e de sa Vida - Benigno Casula


Quando l'autunno si avvicinava, il freddo pungente di Tonara ci costringeva a prendere una decisione importante: dove avremm


o svernato il bestiame? L'unica soluzione era scendere verso il Campidano, il Logudoro o magari ad Alghero, dove le temperature erano più miti. Ricordo bene l'autunno del 1938. Mio padre, Giuseppe Casula, scelse di andare a Villanova Monteleone, un luogo dove aveva qualche conoscenza.

Mia madre, Maddalena Todde, cominciò subito a preparare tutto il necessario. Fece i bagagli, mise da parte i vestiti per il lungo cammino e preparò le provviste per il viaggio. Io e mio padre caricammo le due bisacce sull'asinello, il nostro fedele mezzo di trasporto, e partimmo.

Il nostro cammino iniziò da S'isca de sa Mela, passando per IeniMulloneCanale Figus, fino ad arrivare al sentiero di Neoneli. Proseguimmo per Sorradile, attraversammo il fiume Tirso e ci fermammo per un po' a far pascolare le pecore e a riposare un po' anche noi. Riprendemmo la strada passando per Tadasuni e arrivando all'incrocio per Macomer. Da lì, passammo per PozzomaggiorePadria e Mara, fino a quando non svoltavamo a sinistra all'incrocio per Romana, diretti a Villanova Monteleone.

Dopo tre lunghi giorni di cammino, finalmente arrivammo. A Villanova, mio padre iniziò a trattare per "s'acolocu", l'accordo per lo svernamento, con i pastori Tiu Micheli Correddu e Salvatore Meloni. Tiu Micheli prese la maggior parte delle nostre pecore, mentre una ventina le lasciò a me. In cambio del pascolo libero e del nostro mantenimento, dovevamo accudire le loro pecore e le nostre, e offrire il nostro aiuto per qualsiasi necessità nell'ovile. Con noi c'erano anche il padrone e qualche altro servo.

L'inverno passò in fretta. Tra me e me, non vedevo l'ora che arrivasse maggio per tornare a casa. Mio padre aveva già stabilito la data del nostro rientro per il 10 maggio, un giorno che avevamo concordato con i nostri padroni. Li ringraziammo per la loro ospitalità e per l'ottima accoglienza che ci avevano riservato. Ci salutammo e ci mettemmo in viaggio. Mio padre venne a prendermi, caricammo nuovamente l'asinello con i nostri averi e ci incamminammo verso Tonara. Il viaggio di ritorno fu molto più felice dell'andata, perché stavamo finalmente tornando a casa nostra.


14- Arasule Arregodos de sa guerra e de Russia e de sa Vida - Benigno Casula

 


Quel giorno  il cielo di Arasule,Il rione dove ero nato, era parzialmente nuvoloso e dominava la scena. Dalla posizione in cui mi trovavo in basso a destra, vedevo l'angolo di un tetto in terracotta con tegole a coppo provenienti dalle Fornaci di Bonu di Su Nuratze in perfette file diagonali fungeva da elemento di inquadratura, guidando lo sguardo verso il centro dell'immagine. A sinistra, un albero dalla chioma folta e di un verde acceso catturava  la luce, offrendo un vivace contrasto con le tonalità più opache delle case in lontananza. Sotto l'albero, si intravedeva una strada sterrata e ripida che scendeva, con una staccionata in legno scura che la delimitava e un piccolo carro in legno   parcheggiato  sul lato.

Arasule era, costruito a grappolo su un ripido versante della collina. Le case erano addossate l'una all'altra, formando un'unica massa architettonica che sembrava


arrampicarsi verso la cima. Le facciate erano dipinte in una varietà di colori pastello: si notavano  tonalità di rosa antico, ocra, giallo crema, azzurro e verde salvia. I tetti a falda inclinata, quasi tutti in terracotta, creavano  un suggestivo schema di linee e volumi. Nonostante la densità edilizia, si scorgevano piccole terrazze, finestre e balconi che spezzavano la monotonia delle facciate.Il rione

 è abbracciato e quasi inghiottito da una fitta foresta di alberi ad alto fusto, che si estende per tutta la parte superiore della collina. Il verde scuro e compatto del bosco fa da sfondo naturale e maestoso, accentuando la sensazione di un luogo immerso nella natura. Al di là della foresta, il cielo la faceva da protagonista.. Le nuvole, grandi e gonfie, creavano un effetto drammatico. Il loro colore variava dal grigio scuro, quasi plumbeo, nelle zone più dense, a un bianco brillante e illuminato dove la luce del sole filtra. Gli squarci di cielo azzurro che si intravedevano tra le nuvole suggerivanoun'atmosfera mutevole, forse la fine di un temporale o l'arrivo di una schiarita.

 

La luce quel giorno era diffusa ma non uniforme. Le zone in ombra erano  evidenti sotto le nuvole più scure, che proiettavano delle zone d'ombra sul paesaggio. Questo gioco di luce e ombra contribuiva  a creare un'atmosfera suggestiva e un senso di profondità.

13- La Vita a Tonara Prima della Guerra Arregodos de sa guerra e de Russia e de sa Vida - Benigno Casula



Prima della seconda guerra mondiale, la vita a Tonara era diversa. Il nostro paese era diviso in quattro rioni: Arasulè, Iteri, Telise e Toneri. La maggior parte degli abitanti, come la mia famiglia, si dedicava alla pastorizia e alla campagna, seminando grano e orzo. C’erano anche tanti artigiani che lavoravano con le mani, da soli o in piccole botteghe.

C'erano i falegnami che costruivano mobili e finestre, i fabbri che forgiavano attrezzi e chiavi, i maestri d’ascia che facevano i carri per i buoi, i sarti che cucivano vestiti su misura e i calzolai. E poi c'erano i produttori di campanacci, che facevano suonare le nostre greggi.

Artigiani e Boscaioli

I boscaioli tagliavano e segavano la legna. Con la legna di leccio, per esempio, si faceva anche il carbone. Atterravano le piante di castagno, e dai tronchi ricavavano le tavole per i mobili e i pavimenti. Dai pali di castagno, invece, facevano i travi per i tetti delle case. Dalle querce prendevano la parte leggera del legno per fare le traversine dei binari delle ferrovie in tutta la Sardegna.

Quando i tronchi erano abbattuti in campagna, li tagliavamo con la sega, alta quasi quanto un uomo. I "segantini" prima misuravano il tronco per decidere lo spessore delle tavole, a volte tre o cinque centimetri, poi infilavano la sega e uno tirava da sopra, l'altro da sotto.

C'erano anche i forni della calce e quelli per le tegole e i mattoni. I padroni dei forni più conosciuti erano i Signori Venturi, Tende Sotgiu, Pietro Cappeddu, Nanneddu Piras, Nocco e Nanneddu Piras. E per le tegole e i mattoni c'erano Simone Loche, Domenico Lacroix e i signori Contieri e Nocco Buono.


Per far funzionare questi forni ci voleva molta manodopera. Alcuni preparavano la legna per la cottura, altri la portavano con i carri dalla campagna. Anche le donne e le ragazze raccoglievano la legna, la mettevano in un punto di raccolta e poi la caricavano sui carri per portarla al forno.

Donne, Mercanti e la Posta

Per preparare i torroni, non c'era gas, non c'erano combustibili. Le ragazze andavano a Montesusu a prendere le frasche di agrifoglio che i pastori avevano tagliato l'anno prima. Dopo che le pecore avevano mangiato le foglie, le ragazze le raccoglievano in fascine e se le mettevano in testa, sopra a un panno, per portarle a Tonara, cantarellando. C'erano anche molte donne che lavoravano la lana. Filavano il filato a gomitolo e lo preparavano per il telaio, tessendo lana sarda e altri tipi di lana. Facevano il "furesi" per la gonna del costume, il "cabana" e il manto per il pastore, e altri tipi di coperte per il letto d'inverno.


Gli ambulanti, invece, andavano con il cavallo e il carretto coperto da un telo, girando per i paesi e le feste, vendendo i torroni e altre cose, come le castagne e le noci.

In quei tempi non c'erano macchine per portare la posta dalla stazione di Montesuso agli uffici postali di Tonara, che si trovavano a Funtan'Idda, vicino a Su Montigu.. Per i pacchi e il materiale postale, c'era un signore di ArasulèNicola Soddu, che aveva un carretto trainato da due, a volte tre, asinelli. Noi ragazzini lo guardavamo sempre con molta curiosità



12 - Il Tannino Arregodos de sa guerra e de Russia e de sa Vida - Benigno Casula



 il tannino detto in tonarese “s’orrusca” si produceva dalla corteccia della pianta di leccio. Le piante con il palo alto e giovane avevano una corteccia morbida che si lasciava lavorare bene. Una volta tolta dalla pianta, veniva messa nei sacchi e fatta a pezzetti. Il tannino serviva per conciare le pelli di cavallo e di vacca, anziché usare il talco. La corteccia si raccoglieva quando la pianta era adulta perché si staccava con più facilità.

Era un lavoro duro e faticoso, soprattutto per noi giovani che salivamo sulle piante. La corteccia iniziava a staccarsi dall’alto con attrezzi adatti. Giunto più in basso, l'operaio buttava la corteccia nel sacco e continuava il lavoro su un’altra pianta. Noi operai, per lo più giovani, eravamo assunti dall’impresa. La corteccia veniva pagata a peso.

Di sera, quando noi giovani operai tornavamo stanchi, ma cantando, noi altri ragazzi che incontravamo per strada chiedevamo loro: "Da dove state venendo?". E loro ci rispondevano, ridendo: "Stiamo venendo dal raccogliere la corteccia, lo vedete, siamo ben raschiati dalle piante!".


11 - Peppino Mereu, il Poeta di Tonara Arregodos de sa guerra e de Russia e de sa Vida - Benigno Casula



Di Peppino Mereu sentivo parlare dai grandi fin da quando ero giovane. Leggevo il libro del poeta e mi faceva molto piacere cantare quelle belle poesie in compagnia delle pecore; per me era un passatempo. Sentivo gli adulti parlare della sua provenienza e della sua vita. Lui era orfano di babbo e di mamma fin dalla prima gioventù e quasi per necessità dovette arruolarsi nell'Arma dei Carabinieri. Una volta congedato, si ammalò. A Tonara era conosciuto come un bravissimo poeta, perché si presentava anche a cantare nelle gare poetiche.

Un mio amico mi raccontava che suo padre, amico di Mereu, lo metteva sopra il cavallo e lo accompagnava alle gare poetiche, perché lui non poteva camminare. Nelle gare, gli altri poeti, vedendolo così come si era ridotto, dicevano: "Questo non può cantare, è quasi un uomo morto". Lui rispondeva in rima, con prontezza: "Anche se ti sembro un sacco di ossa, se ti pungo con lo sprone salti, fossi anche tu un fosso. Anche se ti sembra che sono malato, se ti pungo con lo sprone salti la porta".


Io ero sempre curioso di sapere come viveva e dove vivesse. La sua ultima abitazione è stata in una stanza del municipio, nel "comunale". Si era ritirato lì perché non poteva camminare e non usciva mai fuori di casa. Quando si affacciava alla porta, chiamava i ragazzini per qualche sua esigenza.

Mio suocero, Perdu Cappeddu, mi diceva che le mamme avvertivano i bambini di non avvicinarsi a quell'uomo perché li avrebbe contagiati con la malattia che aveva. Molti di noi, però, provavamo pena e andavamo comunque, almeno per portare qualche vaso d'acqua, e lui ci ricompensava con qualche soldo. Andavano anche altri per portargli un piatto di cose da mangiare. In quel posto, lui ha finito di vivere.



10 - Sotto il Fascismo - Arregodos de sa guerra e de Russia e de sa Vida - Benigno Casula



Quando ero un ragazzino, a scuola il maestro ci raccontava la storia del fascismo, come si era formato e il potere che aveva. Eravamo costretti a imparare canzoni del regime, come "Fischia il sasso" e l'inno del piccolo balilla, e a esaltare Mussolini con la canzone "Duce, Duce che non saprà mai morire".

I figli degli esponenti del partito fascista vestivano con la divisa del piccolo balilla. Erano ben sistemati, con pantaloncini bianchi fino al ginocchio, una camicetta con una cravattina nera e il berretto tipo fez. Le guardie vestivano con pantaloni grigio-verde e camicia nera, mentre i più grandi, i giovani fanatici e attaccabrighe, erano le camice nere.

 

 

Il Controllo e la Repressione

A quei tempi, il capo dell'amministrazione era il podestà, che agiva per conto proprio senza il consenso del consiglio comunale. A Tonara, le persone contrarie al regime erano sotto il controllo della milizia fascista. Non potevamo incontrarci per motivi politici e gli assembramenti erano proibiti nelle piazze senza permesso.

Anche i poeti nelle gare non potevano cantare temi che trattassero del regime. Ricordo cantanti come Raimondo Piras e altri improvvisatori che non si sono arresi alle condizioni repressive e hanno smesso di cantare nelle gare finché il fascismo non è finito.

Le Tasse e i Privilegi

Il regime aveva messo la tassa dei celibi per noi giovani, che dovevamo pagare una volta compiuti i 25 anni e finché non ci fossimo sposati. La tassa era di quasi 100 lire l'anno, che all'epoca era come un mese di lavoro.

I fascisti più sfegatati potevano arruolarsi nell'amministrazione, ottenendo privilegi e aiuti dai soldati dell’esercito ed erano i più pagati. La divisa dei soldati era grigio-verde con pantaloni a zuava e camicia nera. Il comandante federale della milizia corrispondeva al grado di generale dell’esercito.


9- Le "Giarrettiere": Un Mestiere di Altri Tempi - Arregodos de sa guerra e de Russia e de sa Vida - Benigno Casula



Ricordo di  aver visto queste donne, le "giarrettiere", che facevano la sabbia, un'immagine che viene richiamata anche in una poesia di Peppino Mereu. Il loro lavoro si svolgeva a bordo strada, vicino a grandi cumuli di pietre.

 

Queste donne, spesso giovani ragazze, si sedevano a terra e usavano una pietra piatta come base. Su di essa poggiavano le pietre più grandi, che venivano frantumate in pezzi più piccoli. Con l'aiuto di una forcella di legno, le tenevano ferme mentre le colpivano con una mazza. A volte lavoravano in coppia, una accanto all'altra, e mentre picchiavano, cantavano canzoni o "stornelli" per rendere il lavoro meno pesante.

Il loro lavoro veniva pagato "a cottimo", un tanto per ogni mucchietto di sabbia completato. Quando la sabbia era pronta, un "cantoniere" passava a spargerla sulle strade per la manutenzione.

Questo mestiere, fatto di fatica e manualità, scomparve quando a Tonara iniziarono a funzionare i frantoi meccanici, che resero il processo di produzione della sabbia più rapido ed efficiente.

 

 


8- Gioventù e Serenate: L'Inizio di una Passione - Arregodos de sa guerra e de Russia e de sa Vida - Benigno Casula


 


Ero giovane, e a mio padre che dovevo dire? Andare in paese, soprattutto la domenica, era la cosa più importante. Lì mi aspettavano i compagni per uscire di notte e fare le serenate. All'inizio seguivamo i più grandi, in lontananza sentivamo il suono dell'organetto. I suonatori erano quasi sempre gli stessi. Da lontano riconoscevo il ritmo di Costantino Piras, il suono di Giuseppe Sau e la voce del canto di De Murtas, quella di Sau Floris e le canzoni gentili di Beppe Pala. Lentamente ci avvicinavamo per ascoltare e piano piano imparavamo anche noi a fare i versi e "su Mutu", un canto tipico di Tonara e sardo per esprimere i propri sentimenti.

Quando siamo arrivati all’età di 18 anni, eravamo quasi pronti per il servizio di leva. Abbiamo fatto una colletta e ci siamo comprati i nostri organetti per uscire a cantare per fatti nostri. Scendevamo a cantare a Toneri e Teliseri. un'Avventura Notturna a Toneri

Una notte, mentre si canta  una serenata a una bella ragazza a Toneri, il gruppo di amici si ritrova in una situazione inaspettata. Diamo l'organetto a un ragazzo che si è unito a noi, ma improvvisamente, dalla cima di una casa, iniziano a piovere sassi. Spaventato, il ragazzo scappa via, ma la musica si sente ancora in lontananza.

Il ragazzo si era nascosto in un campo di fave, dove continuava a suonare e a mangiare. Un amico   lo trova, lo prende per il collo e lo tira fuori, dandogli "quattro pedate" per il gesto che, sebbene violento, il gruppo ritiene necessario.

Ritrovi e Tradizioni Musicali

Per le  riunioni,noi ragazzi si ritrovavamo nelle botteghe di vino e nei bar del paese.   da Peppino Orru a Santa Maria, da Tiu Larentu a Muragheri e da Tiu Michelino Zucca. A Toneri, vanno da Tiu Chicotu, e a Teliseri da Tiu Pera Peddes.

Ai tempi del fascismo, per evitare multe per disturbo della quiete pubblica, chiedevamo il permesso ai carabinieri per  loro serenate. Tuttavia, quando si partiva  per il servizio militare, non ne avevamo più bisogno.

  

Il Significato di una Serenata

 Riflettevo  sulla bellezza delle serenate, specialmente quando sono cantate con amore. Le donne del paese imparano a loro volta "Su Mutu" e lo cantano mentre lavorano, sia che stiano facendo il torrone, tessendo al telaio o raccogliendo castagne e nocciole nei campi.

La musica per una serenata nasce solitamente dall'idea di un uomo non sposato che desidera corteggiare una ragazza, parlandone con gli amici che sanno cantare. In queste serenate, si canta a ottave. L'uomo, che vuole fare la "sceneggiata musicale", porta vino e tutto il necessario. Ad esempio, "Voglio musicare a Mari Antiga perché la voglio in sposa".

La "commedia" si svolgeva davanti alla casa della ragazza. Il primo a cantare è "su paralimpu", che ha il compito di lodare il pretendente e la sua famiglia, cercando di convincere i genitori di lei. A turno, rispondevano in poesia il cantore dello sposo, il padre, la madre e, infine, la ragazza. La performance poteva durare quasi due ore, accompagnata da canti e vino.

Se il pretendente veniva accettato, la serenata continuava a casa della sposa con altri canti e poesie. A volte, queste "commedie scherzose" si trasformavano in matrimoni veri e propri.


6 - La Transumanza - Arregodos de sa guerra e de Russia e de sa Vida - Benigno Casula

 


Quando si tornava a Tonara, io non ero più il ragazzino di sei anni che correva dietro alle luci elettriche. Avevo dai dodici ai quindici anni, e il paese mi sembrava lo stesso, ma i miei occhi lo vedevano in modo diverso. La vita era rustica, scandita dai lavori agricoli e dalla semplicità. Ogni rione, ArasulèToneriTeliseriIlala, aveva un proprio carattere, una propria anima. Le strade erano strette, lastricate in pietra, e l'aria aveva l'odore del legno che brucia nei camini e dei fiori selvatici. La mia compagnia era il cane e le pecore, ma il mio cuore cominciava a sentire il bisogno di altro.

La transumanza, in sardo "sa tramuda", era un'antica pratica pastorale che io avevo imparato fin da bambino. Il nostro paese, Tonara, si trova sul pendio del Gennargentu a mille metri di altezza, e per forza di cose dovevamo scendere verso la pianura per trovare i pascoli per il nostro bestiame. I percorsi, che si chiamavano "andale" o "caminu", erano sentieri di terra battuta e pietre creati dal passaggio delle pecore di generazione in generazione.

Andare in transumanza non era solo un lavoro per me, ma un'esperienza che mi faceva sentire parte di qualcosa di più grande. La transumanza non era solo un rito per il bestiame, ma un momento che coinvolgeva tutta la comunità dei pastori, un sapere e una disciplina tramandati da generazioni. I pastori e le loro greggi svolgevano un ruolo di "pulizia" del territorio, prevenendo gli incendi e contribuendo alla prevenzione degli incendi. Era una pratica di economia circolare, che promuoveva il cibo locale e i prodotti di alta qualità legati alla pastorizia. Era un ciclo naturale, che garantiva il benessere del bestiame e dei pastori, spostandoci dai pascoli invernali a quelli estivi e viceversa.

La transumanza verso la zona di Alghero era un altro grande momento di crescita. Con il bestiame si andava fino a Banna di Salighera, a Biddanoa Monteleone, a Itiri e a Su Lumedu. Lì imparai il logudorese, una lingua che mi affascinava. Ma quando tornai a Tonara, mi rivolgevo agli altri solo in tonarese, per evitare le critiche. Non volevo essere quello che si sentiva superiore solo per aver imparato qualcosa di nuovo. Era un compromesso che facevo con me stesso, tra il desiderio di imparare e quello di non ferire il senso di appartenenza che mi teneva legato alla mia gente.

5 - Ritorno a casa - Arregodos de sa guerra e de Russia e de sa Vida - Benigno Casula


Quando tornavamo dal Campidano, non era solo la fatica del pascolo a segnare le nostre giornate. C'era un sistema, una regola da seguire, a cui anche noi, pastori, dovevamo attenerci. Eravamo

obbligati a fare una denuncia alla commissione pascolo per dichiarare i nostri animali, e per accertare il loro numero venivano nominati dei contatori. Gli animali pascolavano a metà prato, nel "pabarile", e nell'altra metà, "s'aidazzone", i pastori seminavano il grano e l'orzo. Dopo due anni, il ciclo si invertiva: la parte del pabarile passava a semina, e noi spostavamo le pecore. Era una danza secolare, che cambiava con il ritmo della terra, non con quello degli uomini.

All'inizio di agosto, quando il prato diventava "istula", le pecore potevano pascolare ovunque fino alla nuova semina. Eravamo tutti lì per la festa di Sant'Antonio, un momento di gioia per noi ragazzi. Si faceva la gara di poesia, il circo, e altri eventi. A noi, a noi toccava chiedere il denaro ai genitori, agli zii, ai nonni, a chi ci faceva una carezza. Per me, ero già abbastanza grande per chiedere un Franco, non più un "soddu" che valeva dieci centesimi. Nonostante le nostre umili origini, sapevamo il valore dei soldi: un chilo di pane costava venti centesimi di Franco. Il primo giorno di festa era di papà, naturalmente, e non poteva mancare. A me toccava andare al paese di Tonara il giorno di Sant'Antuneddu.

 


4 - La vita in Campidano - Arregodos de sa guerra e de Russia e de sa Vida - Benigno Casula


 

Mi portarono con loro, nel Campidano di Aristanis. Avevo sei anni, ma ne dimostravo molti di più, con la vita da pastore che mi era stata assegnata. Erano tempi di miseria e tribolazioni, e vivevamo come animali, sempre in movimento, seguendo il ritmo delle stagioni. La mia infanzia era finita e, in quel 1927, la mia unica compagnia era il cane.

 

Il primo anno, da gennaio a maggio, non vidi mai il paese. Ero sempre stanco e avevo un solo compito: assicurarmi che le pecore pascolassero fino a notte, in un luogo dove non avrebbero fatto danno, la cosiddetta “morigadura”. Mentre le pecore si muovevano lente, anche io, piccolo, dovevo farlo. Mi piaceva girovagare, cantando, immerso in un silenzio rotto solo dai belati e dal fruscio del vento.

 

Ero curioso e osservavo, sempre. A volte, la mia attenzione andava verso lo stagno, una distesa d’acqua ricca di anguille, tra Marrubiu e Terralba. Osservavo i pescatori. Tiravano le reti dalle loro barche e usavano le canne, con un verme di terra come esca. Iniziai a imitarli, a far lentamente ondeggiare la canna e a pescare, e mi piaceva così tanto che non avrei più voluto andarmene. Pescavo tre o quattro anguille e mi sentivo un vero pescatore. Ma un giorno, un pesce si dibatté con tale violenza che l’amo mi si conficcò in profondità nella mano. Da quel giorno, smisi di pescare.

 

In quei grandi stagni si coltivava anche. Osservavo incuriosito come, con uno strumento con la punta aguzza, scavavano nel fango per piantare le patate. Diventò un gioco per me, percorrere gli orti e osservare ogni movimento, ogni gesto, cercando di imparare. Con il passare del tempo, imparai a fare anche questo. Poi, a maggio, tornavamo a Tonara. Il bestiame, dopo mesi di libertà, veniva fatto pascolare di nuovo nel recinto, e il mio cuore si stringeva. Il ritorno al paese era anche il ritorno alla solitudine, a una vita dove il mio posto era lontano dal gioco e dalla scuola.


3 - La Scuola Fascista - Arregodos de sa guerra e de Russia e de sa Vida - Benigno Casula



La scuola è un ricordo a parte, un mondo che, per qualche anno, è stato la mia vera luce. Erano i primi anni della scuola fascista, un'esperienza che, per noi bambini di Tonara, era una cosa nuova. Si andava a scuola fino alla quinta elementare, a gruppi. Non c'era un asilo, e noi ci si arrangiava, affittando case da privati, ma i maestri di scuola erano tutti di Tonara, gente del posto. C'era il maestro Licheri, il maestro Tore, il maestro Desotgiu, il maestro Marcello. Ci insegnavano i rudimenti, il minimo indispensabile, ma per noi era un mondo di sapere.

Andare a scuola era come un'avventura, camminando insieme, ragazzi del paese, a Istracu, a Sant'Antonio, a Sa Discarriga, ad Arasulè. Per me, a scuola mi avevano mandato fino alla quarta elementare, un'esperienza che a me, bambino, faceva sentire vivo e curioso del mondo. A me, però, non era andata così. Non la finii, mi ritirarono a metà anno. Mio padre, il pastore, chiedeva una mano d'aiuto. E così, per me, la luce della scuola si spense. Il mondo si era illuminato, ma il mio futuro era tornato a essere come prima, segnato dalle pecore e dalla terra, un futuro senza una vera luce.


2- Il Tempo dei Mulini - Arregodos de sa guerra e de Russia e de sa Vida - Benigno Casula



Il mio sguardo di bambino non si soffermava solo sulle meraviglie, ma anche sul lavoro che le rendeva possibili. Prima dell'arrivo della luce, a Tonara, il tempo era scandito dall'acqua e dalla fatica. Vedevo il cambiamento accadere giorno dopo giorno, nella fatica di uomini che sembrava non finire mai. L'acqua di Osolí e Fontana Fredda, che scendeva dalla montagna, non serviva solo a far girare i mulini, ma arrivava nelle case per soddisfare le esigenze delle famiglie. In quella località venne costruito il deposito per il paese e per costruirlo serviva Una sabbia preziosa. Ricordo i carriolanti, che con i loro carri trainati dai buoi, la trasportavano faticosamente. Partivano dalla valle di S'Isca e salivano per ore, un metro dopo l'altro, fino a mille e duecento metri di altezza. Era un viaggio lungo e faticoso, ma necessario per costruire il deposito dell'acqua della montagna. Nonostante la fatica, la loro devozione era palpabile.

Quei mulini erano il cuore pulsante del nostro territorio, un luogo dove i ruscelli si trasformavano in forza e sostentamento. Non erano solo ad Arasulè, dove abitavo io, ma anche a Toneri, a Teliseri, a Ilala, in ogni angolo del paese. Ogni famiglia aveva un mulino di riferimento. La nostra, la nostra era zia Sirinia, che aveva il suo mulino nel campo di Murusé. Non era solo un luogo dove macinare il grano, ma era un punto di incontro, un luogo di scambio. Si andava al mulino per lavorare, ma anche per parlare, per sentire le ultime notizie, per scambiare due chiacchiere con le altre persone che, come noi, portavano il loro raccolto.

Ricordo ancora bene l'odore della farina appena macinata, un profumo che si mescolava all'odore di terra bagnata e di legno. Quando la mamma, Maddalena, mi mandava con un sacco o tre quarti di grano, la piccola borsa che mi dava era a volte pesante per le mie mani di bambino, ma l'orgoglio di portare a termine un compito così importante mi faceva sentire grande. In quei momenti, osservavo i mulini che con le loro pale di legno giravano senza sosta, mossi dalla forza inarrestabile dell'acqua. Era uno spettacolo ipnotico, che ti faceva pensare a quanto la natura fosse potente e generosa

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Il mulino di Muruse.  Questo ricordo è ancora vivo in me, ho scritto anche una poesia, lo voglio io raccontare: al mulino di acqua di Moruse portavamo il frumento per macinare.

 

 Le donne, erano in gran parte di Arasule , era un viavai in lungo andare con i sacchetti nella testa andavano a piedi pieni di grano senza riposare vicino al Rio. C’era la macchina che macinava sempre di continuo e l’acqua riforniva di energia.La padrona del mulino si chiamava tia Sirina, macinava di continuo orzo e grano. La sua vita era tutta concentrata nel mulino.

Mauro Patta. Il Murales dell’anziana Donna è un Bambino piccolo nella via Belvedere a Tonara.

di alusac eleirbag

 Io esco di casa come tutte le mattine, qui a Tonara, il passo è svelto e la testa è già proiettata verso la giornata. Ma c'è un punto, in Via Belvedere, dove la mia marcia si interrompe. Non posso farne a meno.

Mi fermo davanti all'edificio dove c'è la Casa del Centro Anziani e alzo lo sguardo. Il murale di Mauro Patta è lì in tutta la sua grandezza.

È un ritratto imponente, che sovrasta la strada: una anziana donna e un bambino piccolo, congelati in un istante che urla amore.


La donna. Il suo volto è magnifico. Patta ha catturato ogni singola ruga con una maestria incredibile, ma il volto è inondato dalla luce del sorriso. I suoi occhi sono socchiusi in un'espressione di pura, disarmante gioia, tutti rivolti al bambino. Il copricapo scuro le incornicia il viso, rendendola un'icona di dignità e affetto.

E in quel volto io vedo non solo la nonna ritratta, ma l'essenza di tutte le nonne, di tutte le madri che hanno nutrito e protetto generazioni intere. È una figura universale di accoglienza e forza, un richiamo diretto alle radici e al calore familiare che tutti conosciamo.

Il piccolo, di fronte a lei, solleva le manine in quel gesto così tipico, in un dialogo muto tra le due generazioni. È la vita che si perpetua, il tempo che passa ma i legami che restano, tutto impresso sulla parete.

Quello che rende il lavoro di Mauro Patta così speciale è lo stile. È un iperrealismo monocromatico, fatto solo di toni caldi di marrone, seppia e crema. Nonostante la mancanza di colore vivo, l'opera è vivida; sembra di poter toccare la stoffa del suo vestito, il calore della sua pelle. Lo sfondo ornamentale scuro ne aumenta la profondità, come un vecchio affresco ritrovato.

I miei occhi scendono sui dettagli del Contesto. Il murale poggia sopra il robusto muro di contenimento in pietra grezza e la ringhiera metallica. Ed è qui che l'arte dialoga con la storia spicciola del paese.

Sul cemento, sbiaditi e consumati dal tempo, ci sono i vecchi numeri 5, 6, 7, 8. Lo so bene, come lo sanno tutti qui: quei numeri non sono civici né date. Sono i resti di una vecchia campagna elettorale, manifesti strappati e scritte a vernice che, anni fa, inneggiavano a un candidato o a una lista. Sono il simbolo di qualcosa di estremamente effimero, di promesse fugaci e di politica di strada, oggi quasi illeggibile.

E Patta, con la sua genialità, ha scelto di dipingere sopra a tutto questo. Sopra l'effimero della lotta politica, ha innalzato l'eterno: l'amore disinteressato e il legame intergenerazionale. È come se l'arte ci dicesse che, al di là di ogni bandiera o numero, ciò che resta è l'affetto, la memoria e l'umanità impressa per sempre da Mauro Patta sulla Via Belvedere di Tonara.

 


sabato 1 novembre 2025

Garofani rossi e bianchi.

Mi ritrovo qui, come ogni anno, con il cuore pieno di quella consueta malinconia dolce. È sempre lo stesso giorno, il giorno in cui il tempo sembra fermarsi un attimo per permetterci di ricordare.

Come tutti gli anni, ho preso i garofani rossi e bianchi e li ho depositati lì.

Li ho scelti con cura, sapendo esattamente cosa significano. Quei fiori, non sono un semplice omaggio: sono il simbolo e il ricordo di una vita, la vostra.

Quando li vedo, rivivo il significato dei colori:

·      Il Rosso è per l'amore profondo, quello appassionato che non si spegne mai, è per l'ammirazione e la gratitudine che provo per tutto ciò che siete stati. Rappresenta il calore dei sentimenti che mi lega ancora a voi.

·      Il Bianco è per l'amore puro, l'innocenza dei ricordi e la serenità che desidero per il vostro riposo. È il simbolo di un ricordo immacolato e della luce che ancora portate nella mia vita.

Li ricordo così, intrecciando l'amore forte e l'eterna purezza. È il mio modo per onorarvi, un gesto semplice e profondo che rinnovo con la stessa devozione.

Quel mazzo è la mia promessa silenziosa: l'amore e il ricordo rimarranno vividi, ogni anno, nei nostri cuori

18-La Russia. Arregodos de sa guerra e de Russia e de sa Vida - Benigno Casula

  Il  7 luglio del 1942 . Ricordo la data come fosse ieri. Quel giorno, partimmo per il fronte russo. Il mio reparto era l’Autosezione A...