Quando
tornavamo dal Campidano, non era solo la fatica del pascolo a segnare le nostre
giornate. C'era un sistema, una regola da seguire, a cui anche noi, pastori,
dovevamo attenerci. Eravamo
obbligati
a fare una denuncia alla commissione pascolo per dichiarare i nostri animali, e
per accertare il loro numero venivano nominati dei contatori. Gli animali
pascolavano a metà prato, nel "pabarile", e nell'altra
metà, "s'aidazzone", i pastori seminavano il grano e
l'orzo. Dopo due anni, il ciclo si invertiva: la parte del pabarile passava a
semina, e noi spostavamo le pecore. Era una danza secolare, che cambiava con il
ritmo della terra, non con quello degli uomini.
All'inizio
di agosto, quando il prato diventava "istula", le pecore
potevano pascolare ovunque fino alla nuova semina. Eravamo tutti lì per la
festa di Sant'Antonio, un momento di gioia per noi ragazzi. Si faceva la gara
di poesia, il circo, e altri eventi. A noi, a noi toccava chiedere il denaro ai
genitori, agli zii, ai nonni, a chi ci faceva una carezza. Per me, ero già
abbastanza grande per chiedere un Franco, non più un "soddu" che
valeva dieci centesimi. Nonostante le nostre umili origini, sapevamo il valore
dei soldi: un chilo di pane costava venti centesimi di Franco. Il primo giorno
di festa era di papà, naturalmente, e non poteva mancare. A me toccava andare
al paese di Tonara il giorno di Sant'Antuneddu.