Mi portarono con loro, nel
Campidano di Aristanis. Avevo sei anni, ma ne dimostravo molti di più, con la
vita da pastore che mi era stata assegnata. Erano tempi di miseria e
tribolazioni, e vivevamo come animali, sempre in movimento, seguendo il ritmo
delle stagioni. La mia infanzia era finita e, in quel 1927, la mia unica
compagnia era il cane.
Il primo anno, da gennaio a
maggio, non vidi mai il paese. Ero sempre stanco e avevo un solo compito:
assicurarmi che le pecore pascolassero fino a notte, in un luogo dove non
avrebbero fatto danno, la cosiddetta “morigadura”. Mentre le pecore si muovevano
lente, anche io, piccolo, dovevo farlo. Mi piaceva girovagare, cantando,
immerso in un silenzio rotto solo dai belati e dal fruscio del vento.
Ero curioso e osservavo,
sempre. A volte, la mia attenzione andava verso lo stagno, una distesa d’acqua
ricca di anguille, tra Marrubiu e Terralba. Osservavo i pescatori. Tiravano le
reti dalle loro barche e usavano le canne, con un verme di terra come esca.
Iniziai a imitarli, a far lentamente ondeggiare la canna e a pescare, e mi
piaceva così tanto che non avrei più voluto andarmene. Pescavo tre o quattro
anguille e mi sentivo un vero pescatore. Ma un giorno, un pesce si dibatté con
tale violenza che l’amo mi si conficcò in profondità nella mano. Da quel
giorno, smisi di pescare.
In quei grandi stagni si
coltivava anche. Osservavo incuriosito come, con uno strumento con la punta
aguzza, scavavano nel fango per piantare le patate. Diventò un gioco per me,
percorrere gli orti e osservare ogni movimento, ogni gesto, cercando di imparare.
Con il passare del tempo, imparai a fare anche questo. Poi, a maggio, tornavamo
a Tonara. Il bestiame, dopo mesi di libertà, veniva fatto pascolare di nuovo
nel recinto, e il mio cuore si stringeva. Il ritorno al paese era anche il
ritorno alla solitudine, a una vita dove il mio posto era lontano dal gioco e
dalla scuola.