Quando
si tornava a Tonara, io non ero più il ragazzino di sei anni che correva dietro
alle luci elettriche. Avevo dai dodici ai quindici anni, e il paese mi sembrava
lo stesso, ma i miei occhi lo vedevano in modo diverso. La vita era rustica,
scandita dai lavori agricoli e dalla semplicità. Ogni rione, Arasulè, Toneri, Teliseri, Ilala,
aveva un proprio carattere, una propria anima. Le strade erano strette,
lastricate in pietra, e l'aria aveva l'odore del legno che brucia nei camini e
dei fiori selvatici. La mia compagnia era il cane e le pecore, ma il mio cuore
cominciava a sentire il bisogno di altro.
La
transumanza, in sardo "sa tramuda", era un'antica pratica
pastorale che io avevo imparato fin da bambino. Il nostro paese, Tonara, si
trova sul pendio del Gennargentu a mille metri di altezza, e per forza di cose
dovevamo scendere verso la pianura per trovare i pascoli per il nostro bestiame.
I percorsi, che si chiamavano "andale" o "caminu",
erano sentieri di terra battuta e pietre creati dal passaggio delle pecore di
generazione in generazione.
Andare
in transumanza non era solo un lavoro per me, ma un'esperienza che mi faceva
sentire parte di qualcosa di più grande. La transumanza non era solo un rito
per il bestiame, ma un momento che coinvolgeva tutta la comunità dei pastori,
un sapere e una disciplina tramandati da generazioni. I pastori e le loro
greggi svolgevano un ruolo di "pulizia" del territorio, prevenendo
gli incendi e contribuendo alla prevenzione degli incendi. Era una pratica di
economia circolare, che promuoveva il cibo locale e i prodotti di alta qualità
legati alla pastorizia. Era un ciclo naturale, che garantiva il benessere del
bestiame e dei pastori, spostandoci dai pascoli invernali a quelli estivi e
viceversa.