La nostra destinazione finale,
il comando della mia compagnia, era Voroscilovograd. Era una città immensa, un
milione di anime, piazzata proprio al centro del bacino del Donez. Per noi, gli
uomini della sesta compagnia accompagnamento incendio, era l'ultima fermata, o
almeno, per la mia sezione.
La nostra compagnia era stata
divisa in tre sezioni. Due erano state spinte in avanti, verso il fronte. La
mia, la Sezione Comando, aveva il suo quartiere generale proprio qui, a
Voroscilovograd. Le altre, beh, una era a pochi chilometri, la Prima Sezione,
incaricata del vitale compito di rifornire i soldati al fronte di viveri e
munizioni.
Il nostro dovere qui non
conosceva riposo: intervenire a spegnere i fuochi. Non appena un bombardamento,
opera della versione russa, colpiva, noi dovevamo esserci. Il servizio era
organizzato con la precisione di un orologio, in squadre, e ogni soldato conosceva
il suo posto, il suo compito. Appena arrivava la comunicazione – tramite
radiotrasmittente o telefono – l’intervento doveva essere diretto, senza
indugi.
Arrivati sul luogo
dell’incendio, il comandante di squadra non perdeva tempo. Faceva un rapido
giro di ispezione, un’occhiata per decidere il punto d'attacco, la parte da cui
cominciare per domare le fiamme. Poi, l’ordine, secco, e noi ci muovevamo.
L’acqua la trasportavamo con
le manichette, quei tubi di canapa robusta, e attraverso i ripartitori, la
distribuivamo per affrontare il fuoco su più fronti. La motopompa era il nostro
cuore pulsante: pescava l'acqua dai pozzi e la inviava sotto pressione – le
atmosfere necessarie – attraverso la manichetta, fino alla lancia. Quella
lancia, stretta tra le mani, era l’unica cosa che si frapponeva tra la
distruzione e noi.
Non eravamo in prima linea nel
vero senso della parola, non sul fronte del Don a sparare. Ma il nostro
servizio era duro e pericoloso quanto quello di chi aveva il fucile. Anzi,
forse di più, quando dovevamo affrontare le fiamme nei depositi di munizioni,
di carburante, nei magazzini di approvvigionamenti. Lì, il fuoco non era solo
fuoco, era un ordigno a tempo.
Io, Benigno, ho avuto la
fortuna dalla mia. Sono stato assegnato alla Terza Sezione del Comando, lontano
dal fronte di combattimento più cruento. E questo, ne sono certo, mi ha salvato
la pelle.
La Prima Sezione... a loro è
toccata la peggiore sorte. Erano accreditati alla protezione dei magazzini
vicinissimi al fronte, per cui erano costantemente soggetti agli attacchi
russi. Infatti, dopo che è scattata la controffensiva russa, non abbiamo più
saputo nulla di loro, quale fosse stata la loro fine. È un pensiero che mi
accompagna spesso.
Abbiamo passato un autunno e
poi un inverno di un freddo che tagliava la carne. La temperatura scendeva fino
a 25, persino 30 gradi sottozero. Ma in questo, dovevamo ringraziare la nostra
specialità. Essendo un reparto speciale antincendio, eravamo vestiti bene:
giubbotti di pelle, stivaloni ugualmente di pelle con suole robuste e altri
indumenti adatti al nostro lavoro. Quella pelle, quel cuoio, a volte era
l’unica cosa che ci separava dal gelo che uccide.
Ecco com'era la vita a
Voroscilovograd. Un mix di attesa gelida, intervento frenetico e il costante
pensiero di chi era più avanti di noi.